venerdì 28 aprile 2017

MACRON FISCHIATO E DERISO DAGLI OPERAI DELLA SUA CITTÀ DOPO L’”AGGUATO” DELLA LE PEN

Si sono viste scene caotiche, durante la visita del candidato dato per favorito alle elezioni presidenziali francesi, Emmanuel Macron, ai lavoratori della fabbrica in sciopero nella sua città natale, Amiens.
Mercoledì scorso Macron è stato accolto con sberleffi, fischi e cori inneggianti alla rivale di estrema destra, Marine Le Pen, durante una visita – finita nel caos – a questa fabbrica situata nel Nord della Francia, avvenuta in seguito a quella che Bloomberg ha definito “un’imboscata” da parte della sua rivale nazionalista Marine Le Pen, che lo ha costretto a confrontarsi con alcuni dei di lei più ferventi sostenitori.
Precedendolo, la Le Pen aveva fatto una visita a sorpresa all’impianto Whirlpool della periferia di Amiens, mentre il rivale Macron si incontrava con i leader del sindacato dell’azienda nel centro della città. La Le Pen ha dichiarato ai giornalisti, incontrandoli davanti ai picchetti, che la decisione di Macron di incontrare i rappresentanti dei lavoratori a porte chiuse mostrava il suo “disprezzo” per la loro difficile situazione, e ha così costretto il suo rivale a modificare i piani e affrontare i manifestanti in diretta televisiva.
Durante questa visita, organizzata frettolosamente, alcuni tra la folla hanno gridato “Marine presidente!” e hanno fischiato mentre l’ex banchiere trentanovenne se ne stava in piedi fuori dalla fabbrica, nella periferia in disarmo di Amiens.
“Sono qui per parlare con voi”, ha detto l’ex ministro dell’economia – sempre schierato dalla parte degli industriali – circondato da un’orda di cameramen e giornalisti.
Lo stabilimento della Whirlpool è diventata un simbolo delle discussioni sul libero mercato che dominano la campagna elettorale francese, perché 280 posti di lavoro verranno tagliati quando l’azienda, il prossimo anno, trasferirà la produzione in Polonia.
Secondo la descrizione di Bloomberg: “Mentre il fumo nero dei pneumatici bruciati turbinava nel vento freddo, e le grida “Marine Presidente” interrompevano le sue dichiarazioni, Macron ha tentato di difendere il regime europeo di libero mercato, nel parcheggio della fabbrica, mentre i dimostranti furenti gli si affollavano intorno”.
“Quando lei vi racconta che la soluzione è riportare indietro la globalizzazione, vi sta mentendo” ha detto Macron ai lavoratori, mentre i microfoni di più di cento giornalisti registravano l’accaduto. “Non possiamo impedire i licenziamenti. Dobbiamo lottare per trovare un compratore”.
A giudicare dalla risposta, i lavoratori locali non lo hanno trovato granché convincente.
In precedenza, Macron era stato nella cità dove è nato, Amiens, per cercare di respingere le accuse secondo cui aveva iniziato la campagna elettorale per il 7 maggio in tono minore, dopo essere passato in vantaggio al primo turno di domenica, davanti alla Le Pen. Ma il suo viaggio in città è passato in secondo piano quando la Le Pen ha annunciato per il giorno stesso la sua visita alla fabbrica, ed è arrivata mentre lui incontrava altrove i rappresentanti sindacali. La Le Pen si è fatta fare selfie con i lavoratori e ha salutato i suoi sostenitori, secondo la AFP.
“Tutti sanno da che parte sta Emmanuel Macron – sta dalla parte delle multinazionali” ha dichiarato la Le Pen, “io sto dalla parte dei lavoratori, qui nel parcheggio, non nei ristoranti di Amiens”.
Dopo la visita della Le Pen, Macron ha detto che avrebbe anche lui visitato la fabbrica. Ha dichiarato ai lavoratori arrabbiati che l’unica ragione per cui lei era venuta era perché “io ero qui”. Come si può vedere dalle immagini (qui sotto), non è stata una buona idea.

Macron ha parlato ai lavoratori in sciopero per quasi un’ora, alcuni l’hanno solo fischiato, ma altri hanno discusso con lui, mentre l’inviato speciale di France 2 metteva in piedi un set improvvisato per l’intervista.
Patrice Sinoquet del sindacato CFDT, che si era in precedenza incontrato con Macron, afferma che il 90% dei suoi iscritti voteranno per la Le Pen. “Macron rappresenta il peggio delle politiche di libero mercato”, dichiara Clement Pons, disoccupato di 32 anni, che aspettava fuori dall’incontro in centro. “È un globalista che vuole uccidere la classe lavoratrice. Mi fa venire da vomitare. Non capisco le sue idee”.
Chantal Flahaut, 57 anni, operaia alla catena di montaggio, che partecipa al picchetto, dice di essere in sciopero per tutta la settimana e di essere così stufa della situazione in Francia che domenica non andrà nemmeno a votare. La sua maglietta ha una scritta: “Whirlpool fabbrica disoccupazione”.
“Sono talmente disgustata” dice, “Macron sta dalla parte delle grandi imprese come la nostra. Dovete smetterla di aiutare miliardari multinazionali, e darci i nostri soldi”.
Il dramma è poi continuato su Twitter, dove Macron ha dichiarato che la Le Pen ha passato “dieci minuti con i suoi sostenitori in un parcheggio di fronte alle telecamere”, mentre lui ha dedicato “un’ora e mezza ai rappresentati dei sindacati e senza giornalisti”. “Quando il 7 di maggio arriverà, ognuno farà la sua scelta”, ha aggiunto.
Benjamin Griveaux, assistente di Macron per la campagna elettorale, dichiara che la Le Pen si sta concentrando sulle acrobazie politiche anziché preoccuparsi dei problemi degli elettori. “Se pensa solo ai tweet e ai selfie, significa che non ha capito che cosa c’è in gioco”, commenta Griveaux. “Sta alimentando le sue ambizioni politiche con la miseria e la sofferenza. Che cosa propone? Nulla. Noi cerchiamo di confrontarci con i problemi”.
Macron, che ha creato lui stesso il suo movimento centrista, voleva tenere un comizio più tardi nella vicina Arras, una città dell’area in decadenza del Nord dove la Le Pen lo ha battuto al primo turno. Lunedì si era attirato critiche per quello che era stato visto come un discorso trionfale e una cena celebrativa in un bistrò di Parigi, domenica sera.
Il capo del partito socialista J. Cristophe Cambadelis ha dichiarato alla radio francese: “Era compiaciuto. Ha pensato a torto di avercela già fatta”.
Macron è stato ministro dell’economia per il governo socialista, dopo avere lavorato come bancario nel settore “Fusioni e acquisizioni” presso Rothschild, ruolo che ha lasciato ad agosto per lanciare la sua campagna presidenziale.

giovedì 27 aprile 2017

De profundis per i rivenditori Usa: fallimenti record

L’accelerazione della crescita dello shopping online continua a mettere in crisi i retailer americani, che stanno chiudendo i battenti ad un ritmo mai visto prima: negli ultimi tre mesi, sono state 14 le catene della grande distribuzione finite in bancarotta.
I dati, diffusi dalla società di analisi S&P Global Market Intelligence, superano quelli del 2016 e alimentano quindi l’idea che la situazione stia assumendo contorni sempre più preoccupanti. Sono pochi i settori – si legge in un articolo di Bloomberg – immuni alla crisi: dall’abbigliamento all’elettronica, i big della grande distribuzione sono alle prese con un processo di riorganizzazione che appare quanto mai necessario per garantire la sopravvivenza.
Mentre i rivenditori americani chiudono i negozi ad una velocità senza precedenti, cercando allo stesso tempo di spostare le attività sul web, S & P ricorda che il fenomeno attuale deve ricondursi all’incapacità dei retailer di adattarsi alla crescente pressione del commercio elettronico.
Non è un caso che l’amministratore delegato di Urban Outfitters, Richard Hayne, abbia spiegato lo scorso mese, durante una conferenza con gli analisti, che ci sono troppi negozi, specialmente quelli che vendono abbigliamento.
“Questo ha creato una bolla, e come l’abitazione, questa bolla è scoppiata”, ha detto Hayne. “Ora stiamo vedendo i risultati. Questa tendenza continuerà nel prossimo futuro e potrà anche accelerare “.

mercoledì 26 aprile 2017

Francia, due destre a confronto

La sfida francese ha dato il suo primo verdetto: a sfidare Marine Le Pen, sarà Emmanuel Macron. A contendersi l’Eliseo, dunque, sono due destre: quella tradizionale, rappresentata dal Front national, e quella tecnocratica di Macron. Anche in Francia, come altrove negli ultimi anni, finiti i tempi del duello destra-sinistra, si ripropone la sfida tra forze di sistema e forze anti-sistema.
Si è assistito cioè a un rigetto generalizzato dei partiti tradizionali, ormai percepiti come soggetti residuali. E anche in Francia, come in America, tale rigetto ha avuto due anime.
Anzitutto quella di sinistra, incarnata da Jean-Luc Mélenchon, la cui avventura ricorda appunto quella di Sanders.
Anche Mélenchon ha suscitato speranze ed entusiasmo a sinistra, raccogliendo consensi insperati. E, come Sanders, non è arrivato al ballottaggio.
Resta l’incognita sul turno successivo: Sanders fece un endorsement poco convinto per la Clinton, tanto che parte del suo elettorato si è astenuto al voto successivo. Nel caso francese, Mèlenchon è stato più esplicito: i suoi voti ribelli non andranno a Macron.
Da vedere se qualcuno di questi voti andrà alla Le Pen, forza anti-sistema di destra alla stregua di Trump in America. Tante le differenze tra quello e questa, stante che Trump rappresentava se stesso ed era un neofita della politica, la Le Pen ha il Front e un apparato ben rodato alle spalle. Tanto che il suo approdo al ballottaggio era dato per scontato, al contrario delle previsioni riguardanti l’attuale presidente degli Stati Uniti.
Al contrario di Trump, però, il Front al ballottaggio dovrà scontare, come nelle presidenziali del passato, la pregiudiziale anti-fascista, variabile sconosciuta in America.
Come nelle precedenti elezioni, gli altri partiti sembrano destinati a coalizzarsi con lo sfidante del Front, il quale si ritroverà giubilato senza dover concedere nulla ai sostenitori dell’ultima ora, proprio in funzione della sua missione salvifica.
La strada dell’endorsement verso Macron è ovviamente obbligata per il residuale partito socialista – solo il sei per cento per l’inutile Benoît Hamon -, anche perché tanti esponenti di tale partito si erano preventivamente uniti all’uomo del destino (l’ala più oscura, quella guidata dall’ex premier Manuel Valls).
Resta la bizzarria per il dato numerico, che vede i due partiti di sinistra, se coalizzati, primo partito di Francia. Dato che indica che la sinistra si è semplicemente suicidata. Un suicidio assistito attuato in favore di Emmanuel Macron.
Prima di accennare a quest’ultimo candidato all’Eliseo val la pena soffermarsi sulla tormentata corsa di François Fillon. Inseguito dai fantasmi del passato, quel Sarkozy del quale ha preso faticosamente il posto, e dalla magistratura, che lo ha bersagliato, ha raggiunto un risultato comunque dignitoso, venti per cento, un quinto dell’elettorato.
Un venti per cento che Fillon ha subito regalato all’uomo del destino con un endorsement pubblico, forse per evitarsi altri guai personali, ché la magistratura in Francia dipende dell’esecutivo. Ma sul punto andiamo nel campo del complottismo.
Detto questo non è scontato che i suoi elettori vadano poi a votare in massa per Macron, dal momento che l’accesa campagna elettorale ha creato distanze non sempre colmabili dalla pregiudiziale anti-fascista.
Quanto a Macron, egli è sicuramente il vincitore di questa tornata elettorale. Uomo di sistema, la sua affermazione metterebbe al sicuro l’Europa dal rischio Frexit agitato dalla Le Pen e visto come un incubo dagli ambiti pro-globalizzazione, per i quali l’inveramento della Frexit sarebbe lo scacco definitivo.
A gioire dunque sarebbe l’Europa, ma quella delle banche e delle lacrime e sangue. Non per nulla Macron ha un marchio di fabbrica inequivocabile, che è quello dei Rothschild, per i quali ha lavorato con profitto per anni prima di entrare in politica.
Uomo del destino, nell’aprile dello scorso anno fonda “En Marche”, il movimento populista – che però non è identificato come tale – che fa sue le proposte più banali e comuni del cosiddetto europeismo, gode dei favori del mainstream e riceve lauti finanziamenti dagli ambiti che contano. Da qui il suo approdo al ballottaggio come primo partito.
Se tutto va come dai calcoli dei suoi sponsor, dovrebbe vincere a mani basse, stante il rensemblement anti-fascista. Ma il precedente di Trump rende tale esito meno scontato.
Vedremo. Di certo proprio la portata globale delle elezioni francesi fa sì che esse abbiano risento dell’involuzione che stanno vivendo le spinte rivoluzionarie che hanno portato alla Brexit e all’affermazione dell’isolazionismo trumpiano.
Infatti, se la Brexit sembra ormai realtà consolidata, è vero anche che l’idea originaria sta subendo freni e variabili prima ignote, che vedono l’allontanamento della Gran Bretagna dall’Europa non più come un distacco netto e glorioso ma una manovra lenta e laboriosa, per lo più densa di incognite.
Per quanto riguarda Trump, l’isolazionismo di cui era portatore si è alquanto appannato, dal momento che sopravvive in forma residuale nella politica interna, mentre è ormai un ricordo lontano in politica estera.
Senza questa spinta rivoluzionaria globale, anche la spinta verso l’ipotesi della Frexit, idea portante della politica del Front, è risultata frenata.
Per Marine Le Pen l’ultimo tratto di strada si annuncia più che impervio. Anche perché gli ambiti che hanno sottostimato la forza rivoluzionaria della Brexit e di Trump hanno dato prova di tutt’altra attenzione in queste elezioni francesi. Una determinazione che sembra destinata a perpetuarsi in vista del ballottaggio finale. Vedremo. Di certo si annunciano due settimane movimentate per la Francia. Speriamo che il Terrore non arrivi a movimentarle ulteriormente, cosa purtroppo possibile.

venerdì 21 aprile 2017

Reddito di inclusione: il governo dei poveri, altro che lotta alla povertà

I numeri sono impietosi. Contro la povertà il governo Gentiloni ha stanziato 1,2 miliardi di euro per il 2017 e 1,7 per il 2018. Per istituire un sussidio strutturale contro la «povertà assoluta» che in Italia colpisce 4,6 milioni di persone sarebbero necessari 7 miliardi. All’anno. Questo elemento è stato trascurato nell’analisi del documento di economia e finanza (Def), forse a causa del clima pasquale. Se a questo si aggiunge la lettura del «memorandum» siglato dal governo con l’«Alleanza contro la povertà» – il cartello di associazioni e sindacati che sostengono l’istituzione del «reddito per l’inclusione sociale» – c’è poco da festeggiare. Il testo chiarisce che «nel decreto attuativo non sarà possibile definire i tempi della progressione graduale verso una misura pienamente universale, per necessità legate all’esigenza di reperire le adeguate coperture finanziarie» Il compito di reperirle è lasciato al governo. Troppo poco, considerate le arcigne esigenze dell’austerità del bilancio e le necessità di tappare i buchi creati dalla dissennata politica renziana dei bonus volti a gonfiare i consumi. Costo: 21 miliardi.
Risultato: i consumi non aumentano, la povertà resta «stabile», cresce la «deprivazione materiale» in cui vivono l’11,9% delle famiglie, 7 milioni e 209 mila persone censite dall’Istat. alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ieri Roberto Morducci, dirigente dell’Istat, ha sostenuto che l’indice è peggiorato tra il 2015 e il 2016 tra gli anziani over 65 e nelle famiglie con disoccupati. Nel 2016 i minori che risultavano in condizione di «grave deprivazione» sono 1 milione e 250 mila (il 12,3% della popolazione). A sud l’indice del disagio economico è triplo rispetto alla media nazionale nelle famiglie con un solo genitore. E non accenna a diminuire la disoccupazione e l’inattività tra i giovani. Tra i pochi che riescono a trovare un lavoro (precario), il 41,9% lo deve alla rete degli amici e conoscenti, non al faraonico e illusorio sistema prefigurato dal Jobs Act e incentrato sull’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) ancora fermo ai blocchi di partenza, fautrice tra l’altro di un discutibile sistema di «workfare» per di più limitato dalle competenze concorrenti tra Stato e regioni.
In questa situazione si fa ancora il discorso sulla «politica dei due tempi»: un classico italiano da 20 anni a questa parte. Prima la si è fatta sulla precarizzazione del lavoro, rinviando sine die l’istituzione di moderne tutele per i periodi senza reddito. Oggi la si ripete sulla povertà. Con lentezza il governo è arrivato a provvedimenti «storici», ma nei fatti ha escluso la promessa di renderla «universale», rinviando l’aumento delle risorse e l’ampiamento della platea a un dopo che non arriverà. Nel 2018 ci saranno le elezioni politiche. E poi si ripartirà con un altro governo. La creazione di un reddito almeno «minimo» è lontanissima. Con la Grecia, l’Italia è l’unico paese Ue a non averlo. Costo: tra 14 e 21 miliardi all’anno.
Tra i pochi a denunciare l’inadeguatezza delle risorse, e la loro incertezza nel futuro, ci sono gli oppositori interni ed esterni a Renzi. Francesco Laforgia, capogruppo degli scissionisti Mdp dal Pd, invita a superare l’approccio «compassionevole» da stato conservatore liberale e a stanziare subito risorse anche più ampie dei 7 miliardi. Il candidato alle primarie, e governatore della Puglia, Michele Emiliano sostiene che Gentiloni vada nella direzione giusta «ma molti poveri ne sono rimasti esclusi perché le risorse messe a disposizione non sono sufficienti». E ricorda di avere fatto modificare in Puglia i criteri Isee (inferiore ai 3 mila euro) troppo selettivi e l’importo inadeguato di quello che, in maniera infondata, definisce «reddito di dignità» (uno scippo lessicale a «Libera» di Don Ciotti, e nulla di più). Una modifica auspicata nel memoradum con il governo che intende superare l’uso esclusivo dell’Isee per accedere al reddito di inclusione ed evitare di imprigionare gli esclusi nella «trappola della povertà».
Al netto delle molteplici partite elettorali che si stanno giocando sulle spalle dei poveri – le primarie del Pd e le elezioni politiche nel 2018 – l’approccio resta unico. Si confonde il governo neoliberale dei poveri con il contrasto alle povertà. E si vincola il reddito all’accettazione di un lavoro purchessia da parte del soggetto. Si ritiene, da tutte le parti, che il riconoscimento di un reddito come misura universale a tutela della persona e della forza lavoro che essa esprime, sia una “misura assistenzialistica” se non accompagnata dall’obbligo di accettare un lavoro qualsiasi. Dunque, non una misura universale, ma condizionata all’obbligo di rispettare i parametri della burocrazia. Lo scenario è I, Daniel Blake – il film di Ken Loach – non quello della liberazi one dal ricatto.

giovedì 20 aprile 2017

Caporalato. Braccia nere, profitti bianchi

È passato poco più di un mese dallo sgombero del Ghetto di Rignano, anche se sembra che da queste parti non sia cambiato nulla: tutte le mattine decine di migranti sulle loro pesanti biciclette in ferro partono per andare al lavoro nei campi. Li incontriamo costeggiando gli immensi campi di grano che si inchinano al passare del vento, immagine simbolo dell’agricoltura di queste zone al pari dei suoi ulivi nodosi. Poco più avanti, quando lo sterrato lascia spazio all’asfalto, scorgiamo altri banchi di ciclisti, con telai in carbonio e tute dai colori cangianti. Ci rendiamo conto di aver appena attraversato un confine immaginario.
LA MARCIA Siamo diretti a Borgo Mezzanone, frazione del comune di Manfredonia. Oggi c’è la marcia No-Caporalato promossa da Leonardo Palmisano insieme ad un gruppo di scrittori e intellettuali. Il luogo dell’incontro è simbolico, in questa piccola frazione a vocazione agricola, oltre al Cara, esistono due ghetti divisi per provenienza: quello detto «dei bulgari» e la pista di decollo del vecchio aeroporto che ospita le baracche degli africani. In quest’ultimo la presenza di migranti provenienti dal Ghetto di Rignano è aumentata dopo lo sgombero. Come anche i furgoncini dei caporali e lo sfruttamento della prostituzione. Tra le tante sigle che hanno aderito a questa marcia troviamo Amnesty, Migrantes, Granoro e Lega Coop Puglia. Ci sono anche dei ragazzi di Libera arrivati da Torino. La richiesta principale è l’aumento di controlli da parte dell’ispettorato del lavoro, così da garantire un regolare contratto a chi realmente coltiva la terra.
STORIA DI MUSTAFA Mustafa trentenne somalo, ci racconta che nonostante sia stato assunto con un regolare contratto agricolo, gli sono state dichiarate all’Inps soltanto 5 giornate di lavoro a fronte di un mese di raccolta. Chiediamo a Mustafa come mai, lui alza le spalle in segno di resa: da queste parti funziona così. Complice anche la legge che permette alle aziende agricole di aggiornare trimestralmente il registro d’impresa. Decidendo, ad esempio, quante giornate attribuire a ciascun lavoratore solo a raccolta finita, con tutte le ingiustizie e i ricatti che ne conseguono. (Legge 28 novembre 1996, n. 608)
Infatti, secondo il segretario provinciale della Cgil Daniele Calamita «la compravendita delle giornate agricole è una pratica ancora presente. Tra le cause principali troviamo la disoccupazione dilagante che attanaglia la nostra provincia e un mancato sviluppo territoriale partecipato. Purtroppo viviamo in un clima di totale illegalità». Stando alle tabelle Inps sul lavoro agricolo, nel 2015 la percentuale di lavoratori italiani dichiarati nell’agro di Foggia aumenta con l’aumentare delle giornate lavorative, mentre il numero dei lavoratori africani diminuisce: gli italiani con meno di 10 giornate lavorative sono il 16,19%, percentuale che cresce al 66,33% quando le giornate dichiarate sono più di 51, limite minimo annuale per accedere ai sussidi. Mentre la percentuale di lavoratori stranieri passa dal 31,85% (10gg) al 5,17% (51gg).
FALSI BRACCIANTI Questi dati, però, sono facilmente confutabili passeggiando nelle campagne foggiane durante i periodi di messa a dimora delle piante stagionali o durante la raccolta. Il meccanismo è semplice e rodato: un imprenditore utilizza manodopera in nero – spesso stranieri sprovvisti di documenti – attraverso il caporale, vendendo a sua volta il requisito contributivo, al costo di 15-20 euro per giornata di lavoro, a suoi parenti o amici, oppure a estranei, questi ultimi tramite i consulenti del lavoro o dipendenti di associazioni di categoria. I finti braccianti si versano a loro volta i contributi necessari per poter ricevere l’assegno di disoccupazione, malattia, maternità e benefit familiari. Due mesi di finto lavoro seguiti da reali assegni di disoccupazione.
C’è persino chi ha creato finte aziende agricole con l’obiettivo di vendere giornate di lavoro. Tutti lo sanno e a tutti sta bene. Un dipendente di una delle principali associazioni di categoria, che preferisce restare anonimo, lo conferma: «Qui in ufficio ho la fila di persone che vorrebbero comprare le giornate di lavoro per le loro mogli o i loro figli», una pratica più che usuale, «pensa che delle circa 200 aziende che seguo, negli ultimi 2 anni solo tre hanno ricevuto dei controlli dall’ispettorato del lavoro e in nessuna di queste sono state rilevate anomalie».
Avere un ghetto dal quale attingere braccia a basso costo gioca a favore di questa logica perversa. A ciò va aggiunta la sudditanza psicologica e linguistica dei lavoratori africani, dovuta alla ghettizzazione e alla mancanza di reti relazionali al di fuori di esso. Una subordinazione molto preziosa per le aziende e i caporali che fanno affari alle loro spalle.
Radere al suolo i ghetti non serve a niente se al contempo non si riesce a capire che il fulcro del problema è all’interno dei meccanismi di assunzione. Nel 2014 Guglielmo Minervini lo aveva intuito. Con il progetto «Capo free-Ghetto out» mise a disposizione 800.000 euro da utilizzare come incentivo per le aziende che assumono lavoratori stranieri: 500 euro per ogni assunzione non inferiore a 156 giornate lavorative nel biennio oppure 300 euro per ogni assunzione sotto le 20 giornate. Gran parte di quei soldi (circa 700.000 euro), a distanza di 3 anni, sono ancora lì. Quasi nessuna impresa ha beneficiato dei fondi per paura di essere mappata e vedersi costretta, in futuro, a regolarizzare i migranti anche dopo l’esaurimento degli incentivi.
Nel frattempo, nelle due strutture messe a disposizione dalla regione, casa Sankara e masseria Arena, le giornate trascorrono lentamente e i ragazzi bivaccano in attesa che qualcuno decida di attingere alle liste di lavoro. Alcuni di loro si sono organizzati e hanno già chiamato il loro caporale, magari riducendosi lo scarno salario pattuito a causa del rischio e delle distanze che il caporale è obbligato a percorrere. Anche se per pochi soldi, meglio lavorare che vagare nel nulla. Difatti i furgoncini arrugginiti con targhe dell’Est Europa transitano tranquillamente davanti a questi centri, presidiati, nel migliore dei casi, da un paio di volontari della protezione civile.
I FALSI AMICI Anche se il ghetto fisicamente non c’è più, il sistema di accoglienza e smistamento lavorativo che si è generato al suo interno negli ultimi 15 anni ne esce indubbiamente rafforzato. Molti lavoratori migranti hanno trovato in queste baracche una società disposta ad accoglierli, a dar loro un lavoro. Spesso per i più giovani che non parlano italiano, il caporale e la maman nigeriana sono gli unici punti di riferimento. Soprattutto se in alternativa c’è la mancata accoglienza da parte di una Foggia sempre più intollerante e xenofoba, che crea così condizione di inferiorità sociale e di emarginazione.
STORIA DI KEITA Un esempio è il maliano Keita Haroun, arrivato in Italia nel 2011 e da allora residente del ghetto; in un ottimo inglese dice, con fierezza, di essere l’unico barbiere della baraccopoli. Scorre sul suo telefono le foto dei suoi clienti: teste rasate con motivi tribali disegnati in bassorilievo sul cuoio capelluto. Non parla né capisce una sola parola di italiano, questo perché in 6 anni non ha mai avuto necessità di spostarsi dal ghetto. Lì aveva un negozio che gli permetteva di vivere dignitosamente e, pagando una tangente, era sicuro che fosse l’unico a fornire quel tipo di servizio.
Lui, come tanti, in questo luogo ha trovato il proprio lavoro che nulla ha a che vedere con l’agricoltura, contribuendo alla creazione di una vera e propria borgata con tutti i tipi di servizi: dal meccanico al macellaio, dall’emporio al bar. Tutto questo in una zona franca con le mille sfumature di illegalità che ne conseguono.

mercoledì 19 aprile 2017

L’ultimo regalo di Renzi: è arrivato lo Student act

Sperava forse di passare in sordina il cosiddetto Student Act, pacchetto di disposizioni all’interno della Legge di bilancio n. 232/2016, ultimo regalo lasciatoci del governo Renzi nel fare armi e bagagli da Palazzo Chigi dopo la sonora sconfitta referendaria, approvata dal successore come primo atto governativo. Facciamo subito chiarezza. Non si tratta di una specifica riforma del mondo dell’istruzione superiore - che qualcuno a Roma abbia compreso che una riforma ad hoc è immediatamente attaccabile? - ma dell’inserimento nelle previsioni finanziare per l’anno 2017 di novità rilevanti in merito alla contribuzione studentesca. Nello specifico si prospetta un ulteriore avanzamento dei criteri di meritocrazia che sempre più si stanno strutturando in un’accademia italiana smaniosa di mettersi al passo coi tempi europei.
Secondo quanto disposto dalla legge infatti i singoli atenei avrebbero dovuto approvare entro il 31 marzo 2017 nuovi standard secondo cui l’accesso ad una “No Tax Area” totale sarebbe concesso unicamente agli studenti che abbiano conseguito un numero minimo di 25 crediti formativi universitari (cfu) nel corso dell’anno precedente (10 cfu invece per il primo anno di iscrizione). Stesso trattamento per gli studenti fuoricorso, per i quali - abbiano essi prodotto o meno i famigerati 25 crediti - viene fissato un minimo di 200€ sotto cui l’importo totale da pagare non potrà scendere, a prescindere dal proprio ISEE.
Il messaggio è chiaro: le esenzioni dalle tasse te le devi guadagnare. Bando alle ciance, noi qui sforniamo prodotti eccellenti e competitivi, non c’è spazio né tempo per chi si vuole attardare. Sei forse uno studente lavoratore? Hai 22 anni e sei ancora a cianciare in università invece che consegnare curriculum da Garanzia Giovani? Mi sei scomodo, aspetta aspetta che ti chiedo dei soldi che non hai per farti sloggiare, e finché non ti levi di torno su di te ci faccio pure un pò cassa...
Dispositivi di espulsione neppure straordinariamente originali dunque, ma in affanno a correggere un’anomalia tutta italiana, che conta in media 4 anni “fuori corso” per concludere un ciclo di studi 3+2, mentre soltanto il 41% dei giovani conclude la triennale nei tempi previsti.
Viene invece lasciata carta bianca agli atenei sul come e quanto differenziare la contribuzione per tutti questi studenti “immeritevoli”. A quanto pare immeritevoli persino di essere nominati nello stesso Student Act, che non specifica se improduttivi e fuoricorso potranno rientrare o meno nella normale fasciazione ISEE. Colpisce per certo la totale discrezionalità lasciata ai singoli atenei nell’applicazione di queste disposizioni, in continuità tra l’altro con l’assoluta autonomia che si voleva attribuire ai rettorati già in una bozza di riforma “Buona Università” che dopo il 2015 non ha visto la luce. Si prospetta perciò uno scenario in cui ciascuna università con le proprie politiche contributive - determinate fortemente dal bilancio in cui sappiamo concorrere non solo il Fondo di finanziamento ordinario, ma anche la sua quota-premio determinata dagli esiti della VQR - avrà ancora più spazio d’azione rispetto ai metodi di estromissione di studenti “poco produttivi” e/o di attrazione di studenti “meritevoli”.
Se in alcuni atenei il nuovo modello di tassazione è stato approvato minimizzando quanto possibile gli stravolgimenti che la Legge di bilancio avrebbe altrimenti comportato, predominante è un generale ritardo nell’approvazione dei piano regolatorio per la contribuzione studentesca da parte dei Consigli di amministrazione delle diversi università, nessuno dei quali si è però dissociato dalla stretta “meritocratica” imposta dal governo. Sarebbe miope leggere in questo ritardo una dissidenza degli atenei, che sembrano piuttosto seguire l’abituale pattern: offuscare la politicità delle proprie delibere scaricando le scelte prese su un piano tecnico-burocratico. Non a caso nei documenti di molteplici università è stata coniata una nuova terminologia che categorizza gli studenti in “attivi” ed “inattivi” e che recepisce così tout court la logica del cosiddetto Student Act. Il passo in avanti consiste appunto nel fare dell’università non più solo un paradigma premiale (che già abbiamo visto proiettarsi di riflesso dalla competizione tra gli atenei, a quella tra dipartimenti, a quella tra studenti), ma ora anche esplicitamente punitivo, con meccanismi di espulsione che con gli anni potrebbero andare invigorendosi: nessuna garanzia è infatti data sul fatto che i cfu necessari per risultare “attivo” non aumentino negli anni.
Senza soluzione di continuità Renzi e Gentiloni si passano così la staffetta della forbice della disuguaglianza - non che ci fossero aspettative differenti - mentre nel dibattito accademico pesa sempre più l’assenza di una contrapposizione tra una quantità e una qualità dei saperi, ormai sacrificata sull’altare della produttività.

martedì 18 aprile 2017

Restaurazione liberista e criminalizzazione della povertà

La restaurazione liberista sta portando a una crisi sociale senza precedenti nel mondo a capitalismo avanzato, alla quale le classi dominanti rispondono con la criminalizzazione della povertà.
L’Osservatorio pensioni dell’Inps il 30 marzo ha reso noto che il 76,5% delle donne percepisce meno di 750 euro al mese, collocandosi così al di sotto della soglia di povertà, in compagnia di oltre 11 milioni di pensionati, ovvero 6 su 10. Nel 26% dei casi, rimanendo sotto i 500 euro al mese, la pensione è al di sotto del livello di povertà assoluta. Sono i brillanti risultati della riforma Fornero, passati con un supporto bipartisan in parlamento e senza suscitare significative proteste da parte delle stesse forze sindacali. Tale riforma si accaniva, ancora una volta sui più deboli, le donne, la cui età pensionabile è stata elevata di ben 5 anni. L’attacco alle pensioni non è finito con il governo Monti, ma è stato portato avanti, anche se in forme meno aperte, dallo stesso governo Renzi.

Inoltre, con il blocco delle rivalutazioni degli assegni pensionistici medi e medio-bassi, come denuncia un’indagine dello Spi presentata il 4 aprile, l’abbassamento del livello delle pensioni porta gli anziani a dover risparmiare progressivamente persino sul cibo, sempre più razionato e di cattiva qualità, e sulle cure mediche e dentistiche, con inevitabili conseguenze sulle aspettative di vita. Così il 17.5% di anziani, al solito più donne che uomini, si vede costretto a saltare o il pranzo o la cena. Del resto si tratta di un problema che non colpisce i soli pensionati, considerato che, dovendo pagare i costi della crisi, Il 57% delle famiglie è stata costretta a diminuire quantità e qualità della spesa.
Nell’attuale clima di restaurazione la parola d’ordine sembra il ritorno a Bismarck, l’inventore dello “Stato sociale” del capitale che, per reprimere l’autonomia dei lavoratori salariati, aveva strappato al sindacato e al partito dei lavoratori le forme di mutualismo da essi sviluppate, per porle sotto il controllo della burocrazia statuale. In tal modo lo Stato dei grandi proprietari assumeva le fattezze dello “Stato sociale”. In realtà la burocrazia teutonica aveva ideato un perverso meccanismo attraverso cui le pensioni venivano pagate unicamente a quei lavoratori che erano stati in grado di superare il tasso medio di mortalità. Ed è proprio questo l’obiettivo esplicito del Fondo monetario internazionale – da cui è partita negli anni novanta, dopo la vittoria della guerra fredda, l’attacco alle pensioni – i salariati sopravvivevano troppo a lungo dopo aver percepito le pensioni!
Giustizia finalmente è stata fatta! Le riforme delle pensioni, realizzate dai governi tecnici Dini e Monti, senza incontrare significative opposizioni dal punto di vista politico e sociale, hanno riportato i conti in ordine, non solo elevando progressivamente l’età pensionabile, ma facendo in modo che le future generazioni di pensionati – a partire da quelle dei nati negli anni settanta – non percepiranno, se non in casi sempre più rari, pensioni “novecentesche” come quelle oggi censite dall’Inps. Anzi diversi immigrati, precari e autonomi sono obbligati a versare contributi per pensioni di cui ben difficilmente potranno godere.
D’altra parte, a rendere più fosco il quadro, nonostante le continue riduzioni della spesa pensionistica, ben presto, il decrescente tasso di natalità – prodotto dallo scaricamento sui subalterni dei costi della crisi del capitalismo, dalla precarietà, dalla competitività e dall’individualismo più sfrenati, prodotti dal pensiero unico – renderà pressoché impossibile alle nuove generazioni mantenere in vita gli anziani. Tanto più che l’unica soluzione non barbara a portata di mano, ossia l’integrazione della forza-lavoro immigrata – per altro più prolifera dell’autoctona – è progressivamente osteggiata dal razzismo, sempre più diffuso dall’ideologia dominante e dalla crisi, da sempre funzionalizzata a colpire i più deboli.
E pensare che in questi anni, di diffusione crescente del precariato, a partire dal primo governo Prodi, ideale regolativo per tutti gli attuali fautori di un nuovo centro-sinistra, le pensioni hanno fatto da cuscinetto al netto calo dei redditi da lavoro, consentendo spesso il riprodursi come forza lavoro di familiari sottoccupati, disoccupati o mal retribuiti.
Del resto il Jobs act non solo sta aumentando a dismisura il numero dei precari, ma porta spesso ad assumere gli over 50, aumentando le difficoltà dei giovani nel trovare un impiego. Più in generale la diminuzione del numero degli occupati è emersa dall’anno scorso, non appena si sono contratte le generose elargizioni, oltre 11 miliardi di euro, sottratte alle casse dello Stato – in buona parte alle spese sociali – e donate al padronato affinché assumesse, in modo da dare credito alla promessa del governo per cui il peggioramento delle condizioni di occupazione avrebbe risolto il problema della disoccupazione e rilanciato l’economia. Al contrario quest’ultima è rimasta al palo, il debito pubblico è divenuto sempre più incontrollabile – una vera e propria spada di Damocle nelle mani dei poteri forti a garanzia della realizzazione della restaurazione liberista – mentre il tasso di occupazione è rimasto, poco sopra il 50%, fra i più bassi di Europa.
Se i lavori a chiamata e intermittenti sono aumentati del 2,5%, quelli in somministrazione del 13%, più in generale, nel 2016, abbiamo nuovi impieghi a tempo indeterminato che superano di poco il 20%, mentre quelli a tempo determinato sfiorano il 65% (con un aumento di oltre il 10% fra i giovani), secondo la nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione resa pubblica il 30 marso dall’Istat, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'Inps e l'Inail.
In particolare si è assistito al boom dei voucher cresciuti in un anno di quasi il 25%, superando abbondantemente il tetto dei 30 milioni nell’ultimo trimestre dell’anno passato. La populistica marcia indietro del governo, che non se la è sentita di difenderli nella campagna referendaria – cancellata anche per evitare che si tornasse a ragionare sugli esiti della precarizzazione del lavoro – rischia di essere una vittoria di Pirro per i lavoratori, come tutto ciò che si ottiene senza una reale lotta. Ciò rischia di favorire il micidiale principio della delega della questione sociale alle burocrazie sindacali, che si sono da una parte attribuite il merito della vittoria e dall’altra hanno già iniziato a svenderla sostenendo, ad esempio, con la Camusso – in una dichiarazione rilasciata per altro a Il manifesto del 31 marzo – che i voucher possono essere sostituiti aumentando “il lavoro interinale”.
I voucher, strumenti di copertura del lavoro nero, grazie alla loro liberalizzazione operata da Fornero e portata a termine dal Jobs act – nonostante Renzi ne abbia populisticamente misconosciuto la paternità, presentandoli alla stregua di un problema ereditato dai governi precedenti – rischiano ora di esser sostituiti, secondo quanto dichiarato dallo stesso governo, da una misura ancora più insidiosa per i lavoratori. Si tratta dei famigerati mini-jobs, lasciati in dote a un quarto dei lavoratori tedeschi dall’ultimo governo di centro-sinistra (a conferma del fatto che le misure più nocive sono generalmente realizzate dai governi amici dei sindacati neocorporativi).
In effetti mentre i voucher sono stati comunque sfruttati ai danni di una percentuale marginale di lavoratori, i mini-jobs diverrebbero, come dimostra proprio il caso tedesco citato dal governo, la forma normale di sfruttamento di un ampio settore della forza-lavoro, in particolare di quella impiegata nel terziario.
La sostituzione dei mini-jobs ai voucher, non solo favorirebbe l’ulteriore precarizzazione dell’impiego, ma incentiverebbe ulteriormente la diffusione del lavoro nero, come dimostra la loro diffusione in Germania. Tanto più che tale diffusione del lavoro nero si è sempre prodotta nel momento in cui si sono fatti dipendere vantaggi fiscali da un tetto retributivo e orario di sfruttamento della forza lavoro. Quello che ci si prospetta, quindi, come denunciano da anni lavoratori e sindacati in Germania – tanto che persino il candidato della Spd, autrice della controriforma, per recuperare consensi in campagna elettorale ha dovuto prometterne la drastica revisione – sono una massa di working poors destinati a sopravvivere, a causa dell’ulteriore precarizzazione e dei bassi oneri contributivi associati al loro sfruttamento, con una pensione ben al di sotto della soglia di sussistenza, se mai saranno in grado di averla.
Tale radicalizzazione dello sfruttamento della forza-lavoro, associato alla drastica riduzione dei servizi sociali e delle misure assistenziali, è per altro in rapida diffusione in tutta Europa. Così, persino secondo i dati di Eurostat, le persone a rischio povertà ed esclusione sono ormai all’interno della Ue circa un quarto della popolazione, mentre in Italia ci avviciniamo paurosamente al 30%. Degli oltre 120 milioni a rischio povertà oltre 17 milioni sono nel nostro paese. A tali allarmanti dati come reagiscono i paesi protagonisti di quella integrazione europea, che gli europeisti considerano un modello di civiltà da emulare per gli abitanti degli altri continenti? In primo luogo mediante una progressiva criminalizzazione della povertà, portata avanti a tutti i livelli: legislativo, amministrativo, mediatico, per non parlare della sua applicazione al governo delle città (a partire dalla criminalizzazione da parte della giunta di Roma – indicata dai grillini quale modello di democrazia – di chi è spinto per sopravvivere a dover rovistare nei rifiuti).
Tale criminalizzazione ha colpito, in primo luogo, i più deboli, ovvero i lavoratori extra-comunitari, i primi grandi esclusi non solo dai diritti sociali ed economici, ma dagli stessi diritti di cittadinanza. Con il riemergere della crisi, che ha permesso di scaricarne gli effetti nefasti sui più deboli, si è decisamente allargata la platea degli esclusi, con il precipitare di ampi strati del proletariato, i “poveri rispettabili”, in quella moderna plebe di emarginati, sempre più destinatari del controllo penale e/o amministrativo.
D’altra parte con la precarizzazione della forza-lavoro e la corrispondente riduzione del salario nelle sue diverse forme – diretto (lo stipendio), indiretto (i servizi pubblici), differito (le pensioni) – stanno esponenzialmente aumentando le fila di quelle che il partito dell’ordine considera le “classi pericolose”, nelle quali sono ora inclusi gli stessi working poors. Il ritorno e l’ampliamento di queste ultime è la migliore dimostrazione che non si tratta affatto di un fenomeno residuale, come vogliono darci a intendere gli apologeti del capitalismo. Si tratta al contrario di una tendenza a penalizzare e criminalizzare fasce sempre più ampie della popolazione – gettate dall’uso capitalistico della crisi sulle soglie dell’indigenza – difficilmente arrestabile se non se ne mettono in discussione le cause, ovvero i vigenti rapporti di produzione. Non possiamo che concludere con Brecht affermando che, se davvero si intende impedire la resistibile ascesa del bonapartismo regressivo, è indispensabile tornare a prendere di petto questa questione che, generalmente, i social-democratici tendono opportunisticamente a eludere.

venerdì 14 aprile 2017

Giustizia flop: Processi lumaca, pochi giudici e troppi avvocati

Giustizia italiana? Un disastro. Processi lunghi che scoraggiano il cittadino, e minano il rapporto di fiducia con la giustizia. Un sistema della giustizia inefficace e inefficiente che necessita urgentemente di una riforma. L’Italia è la bara del diritto. I dati parlano chiaro.
L’Italia è la lumaca dell’Unione Europea, superata solo da Cipro, per la lunghezza delle cause civili e commerciali. In media, secondo il quinto “Justice Scoreboard” della Commissione Europea, che misura l’efficienza della giustizia nei Paesi membri dell’Ue, nel nostro Paese occorrono ancora oltre 500 giorni, in media, per chiudere una causa in primo grado (dato 2015). Solo Cipro riesce a far peggio, con oltre 600 giorni, ma l’ultimo dato disponibile per l’isola risale al 2013.
In altri 10 Paesi (Olanda, Austria, Estonia, Svezia, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria, Danimarca, Germania, Polonia) servono dai 100 ai 200 giorni. In Lettonia e Slovenia occorrono dai 200 ai 300 giorni, mentre in Portogallo, Spagna, Finlandia, Francia, Grecia, Croazia e Slovacchia ne servono dai 300 ai 400. Segue Malta, dove la situazione è molto migliorata (nel 2010 servivano oltre 800 giorni per concludere in primo grado), ma servono ancora circa 440 giorni per arrivare in giudizio. Non sono disponibili dati per Bulgaria, Irlanda e Regno Unito.
Non solo. Il Belpaese è agli ultimi posti in Europa anche nel numero dei magistrati: sono poco più di 10 ogni 100mila abitanti, all’incirca come in Francia e in Spagna, ma molti meno che in Germania (circa 23; il rapporto non indica dati puntuali, ma solo grafici a barre). Ma non è tutto perché siamo in fondo alla classifica anche per il numero di giudici che partecipano a corsi di formazione sul diritto europeo, con l’8% del totale. In Francia è il 19%, in Germania il 29%.
Ovviamente l’unico primato che abbiamo è quello del numero di avvocati, superati solo dal Lussemburgo. In Italia sono circa 390 ogni 100mila abitanti. In Francia sono meno di 100, in Germania circa 200, in Spagna circa 310 ogni 100mila abitanti.

giovedì 13 aprile 2017

Energia, dai dati sui prezzi emerge, in vista dell'abolizione del mercato tutelato, un quadro desolante

In 20 anni gas ed energia elettrica fanno registrare aumenti da record. Dal 1996 al 2016 il costo delle due risorse energetiche è aumentato rispettivamente del 52,44% e del 74,5%. Lo rileva Federconsumatori che ha presentato ieri i dati sull’andamento delle tariffe dell’energia elettrica e del gas, sia sul mercato libero che su quello tutelato. Nel dettaglio, nel 2016, la spesa di una famiglia media è stata di 1.124 euro annui per il gas (con un consumo di 1400 mc) e di 498 euro per l’energia elettrica (per un consumo di 2700 Kwh).Le maggiori evidenze riguardano l’onerosità delle imposte, in particolare gli oneri di sistema, che ammontano al 38% dell’importo della bolletta del gas e del 19% per la bolletta dell’energia.
A fronte di tale andamento si rivela ancora marginale il ricorso al bonus gas e bonus energia di cui beneficiano ancora poche famiglie rispetto a quelle che ne avrebbero diritto, a causa della scarsa informazione e della complessità dell’iter per presentare domanda.
Inoltre, dalla comparazione tra il mercato tutelato e quello libero, emerge la scarsa, scarsissima convenienza di quest’ultimo. Le offerte variabili sul mercato libero, a condizioni economiche aggiornate al 23 gennaio 2017, (per un consumo di 2700 Kwh annuali) consentono un risparmio medio dal 2,62% al 5,73%.
Leggermente meglio va per le offerte a prezzo bloccato, il cui risparmio va dal 9,76% al 14,4%. Analizzando l’andamento di tali risparmi, complessivamente, per le offerte variabili, in 7 anni il risparmio si è ridotto del 5%, per quelle a prezzo bloccato, del -0,07%.
Oltre allo scarso risparmio, ad ostacolare il decollo del mercato libero vi è la complessità dei contratti e delle bollette.
Da tali dati emerge, in vista dell’abolizione del mercato tutelato, un quadro desolante. La convenienza delle offerte è praticamente inesistente, o comunque tende ad annullarsi nel tempo. Un grave sintomo della mancanza di concorrenza in un mercato nel quale però operano oltre 400 aziende.
La mancata convenienza non è l’unico problema: sul mercato libero fioccano contratti non richiesti, pratiche commerciali scorrette e abusi.
In sostanza: il mercato libero c’è, ma è molto carente sul versante della competitività. Per questo Federconsumatori ritiene urgente capire il motivo per cui non funziona: monitorando tariffe, comportamenti e modalità di vendita, al fine di disporre regole più severe, che consentano finalmente ai cittadini un reale risparmio, attraverso una vera concorrenza e un servizio sempre migliore.

martedì 11 aprile 2017

Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro

E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che Thierry Meyssanrappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.
Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, sarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».
Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che Sebastian Gorka con Trumpsostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».
Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?

lunedì 10 aprile 2017

Lavoro, Toh! Gli incidenti sul lavoro stanno aumentando. La denuncia della Cgia di Mestre

La CGIA denuncia che nei primi 2 mesi di quest'anno i dati relativi agli incidenti mortali nei luoghi di lavoro sono in aumento. Se nello stesso periodo del 2016 c'erano stati 95 casi, tra gennaio e febbraio 2017 sono decedute 127 persone (+33,7 per cento).
Oltre ai morti sul lavoro, sono in crescita anche gli infortuni: sempre nei primi 2 mesi di quest'anno sono stati denunciati 98.275 eventi: 1.834 in piu' (+1,9 per cento) rispetto allo stesso periodo del 2016 (vedi Tab. 1). "Un paese civile e moderno - dichiara il coordinatore dell'Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo - non puo' accettare oltre 1.000 morti e quasi 700 mila infortuni l'anno. Queste tragedie vanno combattute con maggiore determinazione, puntando sulla prevenzione e il contrasto a chi costringe moltissime attivita', penso al caso dei subappalti, a operare in condizioni di poca sicurezza".
"La sicurezza - prosegue il coordinatore dell'Ufficio studi Paolo Zabeo - non puo' essere fatta solo di documenti, timbri e burocrazia. La sicurezza va perseguita quotidianamente all'interno delle aziende e nei cantieri di lavoro attraverso l'informazione, l'addestramento e il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti che vi operano. Qualcuno potrebbe interpretare
la richiesta di diminuire la mole di adempimenti burocratici come una riduzione sic e simpliciter dei livelli di sicurezza, ma non
e' cosi'. Basterebbe, da parte del legislatore, incentivare maggiormente gli interventi di sostanza e limitare al minimo, invece, le pure formalita' burocratiche che ancora adesso sono numerosissime".
A livello regionale, tra il 2015 e il 2016 gli infortuni denunciati in termini percentuali sono aumentati soprattutto in Puglia (+4,8 per cento), in Sicilia (+4,6 per cento), in Friuli Venezia Giulia (+3,9 per cento) e in Basilicata (+3,6 per cento). Per quanto riguarda i decessi, infine, e' preoccupante la situazione registrata l'anno scorso in Emilia Romagna: oltre a essere la regione con il piu' alto numero di morti nei luoghi di lavoro di tutto il Paese (128), nel 2016 ha segnato anche l'incremento piu' elevato rispetto l'anno precedente sia in termini assoluti (+32) sia in termini percentuali (+33,3), a fronte di un dato medio nazionale sceso di 154 unita' (pari a -13,1 per cento).

venerdì 7 aprile 2017

ANCHE IL CAPITALISMO AMA LA DECRESCITA

Il governo Gentiloni, in preda alla schizofrenia, prima proclama di voler tagliare le tasse, poi annuncia addirittura una tassa sui cani. Dato che non c’è assurdità che non trovi i suoi estimatori, il “dibattito” sulla nuova tassa si profila teso e interessante.
Viene il sospetto che il vero scopo del governo non sia di inseguire gli spiccioli del gettito della tassa ma, appunto, il “dibattito” stesso, il cui senso, come sempre, si ridurrà al “non ci sono soldi e bisogna trovarli da qualche parte”. La vera finalità di certe provocazioni governativo-mediatiche è quindi quella di ribadire il messaggio, anzi l’ideologia, del pauperismo. Un’ideologia che svaluta un intero territorio e lo consegna inerme alle svendite a “investitori” esteri, i soliti potentati multinazionali che possono così spacciarsi da salvatori della patria affamata. Deteriorare l’immagine di un Paese vuol dire abbassarne il “rating”, quindi favorire svendite e privatizzazioni. La povertà serve, anche solo come immagine, perché un basso rating, anche ingiustificato, comporta per quel Paese che ne è oggetto il dover pagare alti interessi sul proprio debito pubblico. Uno dei mantra dell’Europa riguarda la fiaba delle “formiche” del nord che non vogliono pagare per le “cicale” del sud, ma sta di fatto che sono le “cicale” a pagare per tutti a causa del loro basso rating.
Ma l’immagine può servire molto spesso ad anticipare la realtà. Nel 1964, dopo decenni di incrementi a due cifre del PIL, la lira italiana si trovò in una tempesta finanziaria. Cos’era successo? Lo sviluppo della produzione richiedeva sempre più petrolio e, per comprarlo all’estero, occorreva prima comprare dollari, con la conseguenza di far crollare la lira. Quando i capitali si muovono sui mercati finanziari internazionali, altri capitali si muovono sulla loro scia, che è una scia di morti e feriti. I movimenti di capitali vanno immancabilmente a destabilizzare l’economia reale.
In deficit sia della bilancia commerciale che della bilancia dei pagamenti, il governo Colombo del 1964 avrebbe voluto svalutare la lira; ma il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, in linea con i diktat della super-finanza mondiale, che non gradiva svalutazioni, negoziò un prestito dagli USA e impose al governo Colombo di tagliare un bel po’ dell’industria nazionale per alleggerire il carico finanziario delle importazioni di petrolio. Dove fu operato il taglio industriale? Al sud, naturalmente. Il sud era più povero - povero per antonomasia - quindi poteva impoverirsi di più senza turbare gli equilibri nazionali, né a livello economico, né a livello ideologico. Dal 1964 al 1966 si verificò al sud la prima grande deindustrializzazione dopo il boom economico dei primi anni ‘60. Anche la maggiore industria farmaceutica del Meridione, la Farmochimica di Napoli, fu ceduta alla multinazionale statunitense Richardson-Merrell, ciò in nome del beneficio che l’investimento estero avrebbe procurato alla bilancia dei pagamenti. Dopo essersi presa la tecnologia che le serviva, la Richardson-Merrell se la svignò nel 1975.
La “questione meridionale” svolgeva così il suo ruolo di mitologia anticipatoria per mistificare il vero ruolo del sud nell’economia italiana, quello di valvola di scarico delle tensioni della bilancia commerciale e della bilancia dei pagamenti. Anno per anno il sud è finito per somigliare sempre di più al ritratto che se ne faceva da più di un secolo prima. Il copione del 1964 si è infatti ripetuto puntualmente ogni qual volta vi siano state tensioni finanziarie, nel 1975/76, nel 1981, nel 1992, ecc., sino a condurre all’attuale desertificazione industriale del Meridione.
Come tutte le ideologie fondanti, il pauperismo non trova mai vere opposizioni, meno che meno in quelle che si presentano come “opposizioni”. Un mito ricorrente e persistente riguarda il “tradimento della sinistra”, un mito riconfermato dall’attuale “dibattito” a sinistra, nel quale, ad esempio, Pier Luigi Bersani ammonisce che “la sinistra deve far la sinistra”. Il problema è che non si capisce quale sia questa sinistra, visto che il tutto si riduce, ancora una volta, alla vecchia solfa della redistribuzione dei sacrifici. Nel 1977 il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, era arrivato persino a cantare le lodi della deindustrializzazione e della pauperizzazione, denominate “austerità”, collocando la stessa “austerità” tra le categorie morali. Ancora adesso quel discorso di Berlinguer trova i suoi instancabili estimatori, che addirittura lo individuano come prefigurazione del progetto della “decrescita”.
L’equivoco è evidente: il capitalismo viene interpretato come un meccanismo di crescita incontrollata a cui contrapporre un impoverimento controllato. Sennonché il pauperismo è una componente essenziale del capitalismo e la storia del capitalismo è fatta anche di decrescite controllate. Quando il capitalismo deve scegliere tra lo sviluppo industriale e la mobilità dei capitali, è sempre lo sviluppo industriale ad essere sacrificato.

giovedì 6 aprile 2017

Gli unici ad aver beneficiato dell'attacco ad Idlib sono i ribelli

Il governo siriano è stato subito accusato dall'Occidente del "bombardamento chimico" avenuto nella provincia siriana di Idlib. Tuttavia, un analista della sicurezza del Regno Unito ha detto a RT che i ribelli sono l'unica forza che ha beneficiato dell'incidente.
“Le persone che hanno beneficiato di questo tipo di attacco sono gli stessi ribelli, perché hanno ottenuto un importante vantaggio politico nel momento in cui sono in difficoltà a livello strategico e geopoliticamente”, ha dichiarato Charles Shoebridge, un analista della sicurezza e esperto dell'antiterrorismo.
L'esperto ha spiegato che le forze governative siriane in realtà non avevano motivazioni per effettuare un attacco del genere, in quanto stanno già “ottenendo importanti vittorie” sia sui gruppi armati dell'opposizione che contro i terroristi “in tutta la Siria.”
L'analista ha sottolineato che questo attacco avrebbe solo provocato “la condanna della comunità mondiale”, e sarebbe stato assolutamente inefficace da un punto di vista militare.
L'analista ha poi richiamato l'attenzione sulla tempistica sospetta dell'attacco, avvenuto pochi giorni prima di una grande conferenza sulla Siria a Bruxelles.
Shoebridge ha detto che c'è una lunga storia di incidenti simili avvenuti in Siria, alla vigilia di alcuni grandi eventi internazionali in passato.
“C'è un modello di questi incidenti che avvengono nei momenti critici dal punto di vista geopolitico,” ha detto, aggiungendo che un attacco chimico massiccio nella città siriana di Ghouta nel 2013 è accaduto proprio mentre “gli ispettori delle Nazioni Unite stavano arrivando a Damasco,” mentre un altro attacco chimico nel settembre 2016 ha avuto luogo alla vigilia di una “grande conferenza a Londra, dove l'opposizione siriana ha incontrato i suoi donatori stranieri.”

mercoledì 5 aprile 2017

Il disegno di legge Orlando e il diritto penale del "nemico"

Pochi giorni fa, il Senato ha approvato, anche questa volta con il ricatto della fiducia, un disegno di legge (ddl Orlando, recante modifiche al codice penale, di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che ben si iscrive nella direzione di senso che da molti anni il legislatore vuole dare al nostro ordinamento: quella del diritto penale simbolico e “del nemico”.
E’ molto difficile andare ad analizzare nello specifico tutte le novità che questo progetto introdurrebbe nell’ordinamento qualora venisse approvato anche dalla Camera, essendo estremamente eterogeneo e confusionario, cosa che basterebbe per decretare la “nocività” del suo ingresso in una legislazione caotica come la nostra. Ma è possibile già da ora indicare quelle disposizioni maggiormente allarmanti e particolarmente indicative della volontà del governo di continuare a muoversi all’interno di logiche repressive.
Partendo dalle novità che vengono introdotte in tema di diritto di difesa dell’imputato, questo ddl prevede, fra le altre cose:
- la restrizione della possibilità di fare appello, riducendo i casi in cui sia permesso al condannato di ricorrere al superiore grado di giudizio;
- l’allungamento dei tempi di prescrizione, i cui termini si interrompono per un anno e mezzo fra il primo e il secondo grado di giudizio e fra quest’ultimo e la cassazione, con il risultato di prolungare complessivamente di tre anni i tempi della prescrizione.
Questi interventi dovrebbero essere giustificati dal perseguimento di una maggiore efficienza nell’amministrazione della giustizia e da una maggiore garanzia della certezza della pena. Ma, in questa corsa alla punizione, ci si è dimenticati della ratio che sta dietro agli istituti intaccati dalla riforma: la possibilità di fare appello e la conseguente opportunità di essere giudicato nuovamente da un altro organo, è un diritto fondamentale del cittadino, che non può essere né sacrificato in nome di ragioni efficientistiche e meccanicistiche come lo snellimento dei tempi di giustizia, né giustificato con richiami legalitari volti al perseguimento di chi sfrutta i tempi lunghi dell’appello per raggiungere la prescrizione. Quest’ultima, poi, è un istituto con una ratio ben precisa: quello di non rendere più punibile un fatto quando, a causa del trascorrere di un determinato periodo di tempo, sia venuto meno lo stesso interesse dello Stato a punire e a rieducare (fondamento teorico -o giustificazione- che sta alla base della costruzione stessa del sistema penale). Che senso ha, dunque, allungare ulteriormente i tempi perché operi la prescrizione? Probabilmente quella di illudere la società circa la certezza della pena quando chi ne risentirà maggiormente di tale prolungamenti, saranno gli imputati di reati minori.
Insomma, se problemi ci sono nella sgangherata macchina repressiva del nostro ordinamento, le soluzioni che trova il governo sono ancora una volta quelle che si traducono in un’ulteriore restrizione dei diritti.
Altre novità introdotte, sono quelle relative alle intercettazioni, la cui disciplina è delegata al governo nel rispetto di alcuni criteri direttivi. In particolare, si disciplina l’utilizzo del programma virus Trojan, un dispositivo lesivo della privacy e che, se installato su pc o telefonini, permette di spiare anche attraverso le immagini. Fino ad oggi, questo mezzo si poteva utilizzare anche di fronte al semplice “fondato motivo di ritenere” che si stesse compiendo attività illecita, invece adesso occorre la certezza della commissione di un illecito. Tutto molto bello, ma con un’eccezione: i reati di mafia e di terrorismo, per i quali è sempre possibile basarsi sul mero sospetto. Ecco che, come già aveva fatto in passato, il legislatore accomuna due fattispecie così diverse (mafia e terrorismo), trattando allo stesso modo questi due fenomeni senza considerare le differenze sociali ed economiche che ne contraddistinguono nascita e sviluppo, e, soprattutto, senza specificare cosa intenda per terrorismo. Lacuna che ha permesso di estendere l’applicazione di queste norme agli esponenti dell’antagonismo politico e dei movimenti territoriali, etichettati come “terroristi interni”. Anche in un’altra norma di questo ddl è prevista l’eccezione dei reati di mafia e terrorismo: viene disposto che, alla scadenza dei termini massimi per concludere le indagini preliminari, il pubblico ministero abbia solo tre mesi di tempo per decidere se archiviare o procedere. Però, i mesi diventano 15 per i reati di mafia, terrorismo, eversione dell’ordine democratico, associazioni sovversive, lasciando in questo caso alla magistratura inquirente tutto il tempo necessario per meditare e rimeditare.
Ulteriore novità che viene introdotta da questo testo, è quella relativa al cosiddetto “processo a distanza”, ossia quella modalità di svolgimento delle udienze per cui l’imputato non è presente in aula ma segue il processo dal luogo in cui è detenuto tramite un televisore. Questa, ad oggi, è un’eccezione che può essere disposta dal giudice qualora sussistano straordinarie ragioni di sicurezza e ordine pubblico, ma il ddl Orlando la trasformerà nella regola, permettendo che possa essere stabilita dal giudice anche solo per generiche valutazioni di opportunità. Così si sopprime un diritto fondamentale dell’imputato, quello di partecipare personalmente al processo in cui si decide della sua vita, costringendolo in un luogo lontano da quell’aula, dal proprio avvocato (con il quale potrà confrontarsi solo tramite telefono), dai testimoni, solidali che assistono all’udienza.
Altra modifica indicativa della direzione di senso di cui si diceva all’inizio, è l’aumento delle pene minime per i reati di furto e rapina, giustificato dalla volontà di garantire una maggiore sicurezza ai cittadini.
Da questo corollario, si possono trarre le prime, superficiali, conclusioni su questa riforma a firma del ministro Orlando e del Pd. Si evidenzia anzitutto una chiara attitudine autoassolutoria dello stato, che, dietro la retorica della sicurezza, persegue più aspramente i reati minori (furto, rapina) e i reati politici (come per le disposizioni relative al terrorismo, che non essendo definito si presta ai rischi di un’ampia discrezionalità nell’applicazione) e “risparmia” dalla morsa repressiva (ad esempio, con una forte limitazione nell’uso delle intercettazioni e con la previsione di un limite di tre mesi per il pm nel decidere se archiviare o procedere) tutti quei reati di cui più spesso si è macchiata la classe politica (corruzione, su tutti).
Ma al di là di questa tendenza, ciò che più preoccupa è il fatto che si continui ad optare per un diritto penale simbolico, le cui norme si designano come norme-manifesto, volte più a dimostrare la tenuta delle istituzioni che a garantire la sicurezza, come invece dichiarano. Norme che, nell’intento di concretizzare l’idea di prevenzione che ne è alla base, appaiono generiche e astratte e violano, così, principi costituzionali come quello della determinatezza delle fattispecie penali. Ciò è palese, ad esempio, nella tendenza ad emanare norme i cui destinatari reali sono differenti da quelli apparenti o il cui fine è diverso da quello dichiarato (si vedano le disposizioni relative al terrorismo). La tendenza è allora quella di un diritto penale che si basa non sui fatti, ma sulla persona, la sua devianza e la sua presunta pericolosità, riducendo l’individuo a strumento e a simbolo del messaggio che si intende trasmettere nella costruzione di determinati modelli valoriali.
Insomma, ancora una volta, tramite ulteriori restrizioni delle libertà e dei diritti e tramite ricostruzioni a proprio vantaggio di alcuni istituti processuali, si delegano al sistema della giustizia penale quelle che sono rilevanti responsabilità dello stato in ordine a fenomeni di tipo sociale o politico sperando che tutto venga messo a tacere, che si reprima il dissenso e che si assolva lo Stato.

martedì 4 aprile 2017

Tutto quello che devi sapere sull'attentato a San Pietroburgo

Russia colpita al cuore. Colpita nella città natale del Presidente Putin, quella San Pietroburgo che proprio oggi stava per ospitare un incontro tra Putin ed il Presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, durante il quale i due capi di Stato avrebbero parlato del mercato comune e dell'Unione Doganale Eurasiatica. Verso le 14.40, una forte esplosione si è udita nella metropolitana di San Pietroburgo nel tratto tra le stazioni dell'Istituto di Tecnologia e "Sennaya Ploschad". L'esplosione, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe avvenuta mentre il treno viaggiava in galleria, quando il convoglio è uscito dal tunnel il fumo ha invaso la stazione sotterranea, accalcati sulla banchina c'erano i pendolari che hanno visto il groviglio di lamiere ed i lamenti dei feriti. Per ora si parla di 10 morti ed almeno 25 feriti, secondo le autorità cittadine, ma il bilancio potrebbe salire nelle prossime ore. Secondo i servizi speciali si sarebbe trattato di un ordigno di 200-300 grammi di polvere da sparo potenziato con l'aggiunta di schegge di ferro e chiodi, per mietere più vittime. Inoltre, secondo il quotidiano Fontanka, le forze di sicurezza avrebbero trovato un altro ordigno inesploso nei pressi di Piazza della Rivoluzione, precisamente nella stazione metro Ploshchad Vosstania. Nessuna rivendicazione è stata ancora fatta, anche se sembra chiaro si tratti di un attentato terroristico. Le autorità per ora non escludono nulla, lo stesso Presidente Putin ha dichiarato di "esser attento all'evolversi della situazione senza escludere nulla, terrorismo compreso".
Una cosa certa è che, stando alle prime ricostruzioni della polizia, l'azione non è stata portata a compimento da un kamikaze ma da una persona che dopo aver posizionato la valigetta in treno è andato via. Molto più diretto e sicuro è stato Franz Klintsevich del Comitato del Consiglio della Federazione per la Difesa, che ha dichiarato a RiaNovosti che si tratta di una sfida lanciata dal terrorismo nei confronti della Russia che è vista come nemico numero 1 dai militanti terroristi. Secondo Klintsevich a "questa sfida lanciataci dal terrorismo sarà data la più dura delle risposte". D'altronde San Pietroburgo era stata già sotto i riflettori dei servizi di sicurezza russa che nell'Agosto 2016, durante una operazione anti terrorismo avevano ucciso, dopo un conflitto a fuoco, quattro militanti di una cellula islamista del Caucaso del Nord che erano pronti a compiere attentati nella ex Leningrado.
Sempre nella giornata di oggi, inoltre, un attacco jhiadista è stato portato a termine nei confronti della Russia: a Damasco infatti sono stati esplosi almeno 20 colpi di artiglieri all'indirizzo dell'ambasciata Russa in Siria, fortunatamente sembra senza causare vittime o feriti.
Il dato certo è che oggi la Russia si può considerare il nemico principale del terrorismo internazionale. Probabilmente per il suo ruolo nella difesa del governo Assad che ha dato fastidio non solo ai terroristi stessi ma anche a molti governi occidentali e medio orientali.

lunedì 3 aprile 2017

Russia e Cina uniscono le loro forze aurifere per bypassare il dollaro

La banca centrale russa ha aperto il suo primo ufficio estero a Pechino il 14 marzo. Si tratta di un grande passo in avanti nel forgiare un'alleanza economico-finanziaria che possa bypassare il dollao nel sistema monetario globale.
Secondo quello che riporta il South China Morning Post l'apertura del nuovo ufficio rientra negli accordi stipulati tra i "due vecchi vicini di casa per creare legami economici più forti", in quanto l'occidente con le sanzioni alla Russia dopo il colpo di stato in Ucraina e il crollo del prezzo del petrolio hanno gravemente danneggiato l'economia russa.
Dmitry Skobelkin, il vice governatore della Banca centrale della Russia, ha commentato l'apertura dell'ufficio di rappresentanza di Pechino da parte della Banca centrale della Russia come una mossa “di grande attualità” e significativa per aiutare la cooperazione bilaterale, compresa l'emissione di obbligazioni, l'antiriciclaggio e le misure anti-terrorismo tra la Cina e la Russia.
La nuova sede della banca centrale è stata, sottolinea il blog americano Zero Hedge, aperta nel momento in cui la Russia si prepara a emettere i suoi primi titoli di prestito federale denominati in yuan cinese. Funzionari di banca e commissioni finanziarie della Banca centrale cinese hanno partecipato alla cerimonia presso l'ambasciata russa a Pechino. I regolatori finanziari dei due Paesi hanno concordato nel maggio scorso di emettere obbligazioni denominati in valuta casa nei rispettivi mercati. Questa mossa è stata considerata da diversi analisti come una sfida aperta allo stato di riserva globale del dollaro USA.
Vladimir Shapovalov, alto funzionario della banca centrale russa, ha sottolineato che le due banche centrali hanno pronto la stesura di un protocollo d'intesa per risolvere i problemi tecnici per le importazioni d'oro della Cina dalla Russia. I dettagli saranno rilasciati al più presto.
Se la Russia - il quarto produttore mondiale di oro, dopo la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti - dovesse diventare realmente un importante fornitore di oro della Cina, la probabilità di uno scenario suggerito da molti negli ultimi anni, vale a dire che Pechino si prepara ad abbandonare il dollaro per l'oro, aumenta di propabilità.
Bypassare il dollaro USA sembra dare i primi frutti: secondo la cinese State Administration of Taxation, il fatturato del commercio tra la Cina e la Russia è aumentato del 34% nel mese di gennaio. Gli scambi bilaterali nel gennaio 2017 è stato pari a $ 6,55 miliardi di dollari. Le esportazioni della Cina verso la Russia sono cresciute del 29,5%, raggiungendo i $ 3.41 miliardi di dollari, mentre le importazioni dalla Russia sono aumentate del 39,3%, a $ 3.14 miliardi di dollari.
La creazione, infine, di un centro di compensazione permette ai due paesi di aumentare ulteriormente il commercio bilaterale e gli investimenti, riducendo la dipendenza dal dollaro. Si creerà molto presto una grande liquidità yuan in Russia che consentirà la possibilità di operazioni finanziarie e commerciali senza problemi.
Si tratta di una sfida epocale al dollaro, creando scenari di cambiamenti epocali che potete facilmente immaginare. Non a caso, o forse solo coincidenze, proprio nel momento in cui a Pechino avvenivano questi passaggi, gli uomini degli Stati Uniti in Russia, come il blogger Navalny, decidevano di sfidare le autorità con manifestazioni non autorizzate una settimana fa. Manifestazioni non autorizzate che sono proseguite anche oggi a Mosca.