lunedì 27 febbraio 2017

Chi usa i voucher? Ecco la lista segreta dell’Inps

McDonald’s, Sisal, Manpower, Adecco, Chef Express. C’è anche la Juventus. I maggiori utilizzatori di voucher in Italia sono grossi gruppi che operano nel commercio, nella ristorazione, nell’organizzazione di eventi culturali e sportivi. La lista dei primi duecento è stata fornita nei giorni scorsi dall’Inps alla Cgil, dopo mesi di scontri e polemiche, e il manifesto oggi pubblica i 15 che stanno in cima: con tanto di importo lordo in euro e prestatori (i lavoratori cioè retribuiti con i ticket). Si tratta del 2016, anno dell’introduzione della cosiddetta «tracciabilità»: che ha rallentato la crescita, è vero, ma il fenomeno resta preoccupante perché i buoni staccati l’anno scorso sono stati circa 135 milioni (+24% rispetto ai 115 del 2015, cifre che verranno consolidate nei rapporti di marzo).
SE SCENDIAMO SOTTO la quindicesima posizione troviamo altri nomi noti: si va da Burger King alla Rinascente, da Bottega verde ad altre squadre come Lazio, Fiorentina e Chievo. Ma compaiono anche soggetti pubblici: il primo è il Comune di Benevento, chissà cosa potrebbe dirci il sindaco Clemente Mastella. Il pubblico però non fa solo ricorso diretto ai voucher: spesso infatti per eventi culturali, fiere o festival si assumono voucheristi attraverso alcune società che stanno in cima alla graduatoria, e che hanno nomi perlopiù sconosciuti. Ci sono infatti aziende ormai specializzate nel fornire questo tipo di lavoratori «usa e getta» sotto forma di steward, hostess, addetti alla sicurezza, camerieri ai buffet. Alcune voci della lista l’Inps le ha coperte per la legge sulla privacy.
La prima dell’elenco – la Best Union Company – risulta essere infatti una società specializzata nella biglietteria e nell’organizzazione di eventi. Idem per la quinta, la Winch srl, che opera nel campo del security steward e welcoming. E molto probabilmente la stessa Juventus (come le altre squadre di calcio) ricorre ai voucher per retribuire gli steward tra gli spalti nei giorni delle partite.
ALL’OLIMPICO DI ROMA, ci spiega il segretario del Nidil Cgil Claudio Treves, si muovono invece gli steward di un’altra delle 15 big, la Manpower Group Solutions Sport and Events: «Non si tratta però della Manpower interinale, ma di una sotto società del gruppo: fornisce addetti che costano meno rispetto a quelli in somministrazione». Lo stesso meccanismo, ma stavolta con la Manpower Group Solutions, si è utilizzato all’Expo di Milano.
«Al padiglione della Gran Bretagna servivano un tot di persone – spiega Treves – e ci si è appoggiati alla Manpower GS: prima si è risparmiato applicando un contratto “pirata” firmato da un sindacato non rappresentativo, poi la società ha adottato i contratti dei lavoratori delle pulizie, pescando guarda caso dalla sua casa madre. Ma evidentemente lavora parecchio anche con i voucher».
UN GROVIGLIO IN CUI le società di lavoro interinale generano altre piccole ditte, che poi affittano a loro volta lavoratori dalla madre. Così la Adecco Professional Solutions sotto Natale ha fornito una ventina di imbustatori di prosciutto alla Fratelli Beretta, in uno stabilimento di Varese, permettendo di applicare il meno costoso contratto del commercio. Con i ticket siamo certi che è diventata ancor più competitiva.
Ricco il capitolo ristorazione, dove compare oltre a Chef Express (fast food in stazioni e autogrill) e Cigierre (specializzata nei ristoranti etnici, dalle Wiener Haus all’Old Wild West), il sempreverde McDonald’s: secondo Cristian Sesena, segretario Filcams Cgil, a fare maggiore uso di voucheristi sono i franchisee. «La Company gestisce solo il 20% dei locali italiani, e ha limitato l’uso dopo una denuncia a Milano – spiega – La periferia dell’impero è meno controllabile».
PERCHÉ LA CGIL ha insistito tanto con il presidente dell’Inps Tito Boeri per avere questa lista? Per dimostrare che una parte rilevante del lavoro prestato attraverso i voucher fa capo a grosse aziende (oltre che al pubblico), dove è altamente probabile che si stia operando una vera e propria sostituzione non solo del lavoro stabile, ma anche di quello flessibile. Perché l’ormai famigerato ticket da 10 euro, non prevedendo l’applicazione di contratti, ferie, tfr e tutte le altre tutele, cannibalizza rapporti prima in voga (già cheap) come l’associazione in partecipazione, lo stagionale, il lavoro a chiamata.
Tania Scacchetti, la segretaria confederale che per conto della Cgil ha acquisito la lista e l’ha poi diffusa a tutte le categorie, ci spiega questo meccanismo: «Prendiamo ad esempio aziende come Stroili Oro, Diffusione Italiana Preziosi o Bottega Verde – dice – Sono catene che operano molto nei centri commerciali e spesso attraverso il franchising: ebbene, in passato segnavano i propri commessi come associati in partecipazione, oggi possono risparmiare ancora di più grazie ai voucher». Lo stesso accade con gli eventi culturali, o con gli operatori del turismo.
«LE SOCIETÀ SPORTIVE non hanno già presente a inizio anno il calendario delle partite? – chiede Scacchetti – Quindi dov’è la prestazione occasionale? Potrebbero benissimo contrattualizzare gli steward. E nel turismo, negli alberghi, nei ristoranti, quando parliamo di grosse catene, perché non si fa ricorso agli strumenti di flessibilità che già ci sono? I lavoratori si vedrebbero applicato il contratto, con tutte le tutele, e avrebbero diritto alla Naspi. Non dimentichiamo poi la pensione: sono pochissimi i voucheristi che riescono, in un intero anno, a totalizzare il reddito sufficiente per farsi segnare un solo mese dall’Inps».
In questo caso ci soccorre uno studio dell’Inps riferito agli anni 2008-2015: i percettori di voucher nel 2015 sono stati 1,4 milioni, con una media di 66 ticket riscossi nell’anno (pari a 660 euro lordi medi). Per totalizzare un mese di contribuzione all’Inps servono però almeno 3 mila euro di reddito annui. Ormai solo l’8% di voucheristi è costituito da over 60: la media di età si è infatti concentrata sui 36 anni. Ed è di 22/23 anni l’età media di chi non aveva mai aperto una posizione previdenziale. I voucher sono quindi una piaga diffusa e riguardano non solo i giovani ma anche gli adulti che normalmente avrebbero contratti strutturati: la Cgil infatti chiede di abolirli per referendum.

giovedì 23 febbraio 2017

L’inflazione risale e si mangia salari e pensioni

L’inflazione “cattiva” continua a risalire, si mangia i salari e peggiora le condizioni dell’economia. La fotografia scattata dall’Istat sull’andamento dei prezzi al consumo non può indurre nessuno all’ottimismo, e per fortuna che Gentiloni non ha le physique du role per interpretare la parte che è stata di Renzi.
Dopo anni di deflazione e di politiche monetarie Bce, inutilmente miranti a risollevarla fino al limite considerato “ottimale” (intorno al +2%), un rialzo dell’1% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso potrebbe sembrare una buona notizia. Ma non lo è.
Nel mese di gennaio 2017, infatti, l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC), registra un aumento dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell'1,0% nei confronti di gennaio 2016 (la stima preliminare era +0,9%), mostrando segni di accelerazione (era +0,5% a dicembre). Il problema – spiega l’Istat – è che
“il rialzo dell'inflazione è dovuto alle componenti merceologiche i cui prezzi presentano maggiore volatilità. Si tratta in particolare della netta accelerazione della crescita tendenziale dei Beni energetici non regolamentati (+9,0%, da +2,4% del mese precedente) e degli Alimentari non lavorati (+5,3%, era +1,8% a dicembre), cui si aggiunge il ridimensionamento della flessione dei prezzi degli Energetici regolamentati (-2,8%, da -5,8%)”.
In pratica, anche a gennaio, l’aumento dei prezzi non è dipeso da una crescita dei consumi, ma esclusivamente da fattori esterni all’economia italiana (come i prezzi petroliferi, saliti in virtù dell’accordo tra Opec e Russia per diminuire la produzione giornaliera) oppure per la speculazione sui prodotti agricoli in seguito alle nevicate di gennaio. La situazione non potrà che peggiorare a breve termine, visto che il governo sta preparadando una "manovra correttiva" da 3,4 miliardi per rispettare i diktat dell'Unione Europea; e si sa già che questa manovra conterrà tagli alla spesa pubblica e aumento delle accise sui carburanti (che entrano nella formazione del prezzo di tutte le merci).
Sempre l’Istat spiega che l'"inflazione di fondo" – se non si calcolano questi due fattori – addirittura “rallenta, seppur di poco, portandosi a +0,5%, da +0,6% del mese precedente”.
Stesso discorso nel settore dei servizi, dove l’aulmento dei prezzi rallenta (+0,7%, da +0,9% del mese precedente). Di conseguenza, rispetto a dicembre, il differenziale inflazionistico tra servizi e beni torna negativo dopo 46 mesi portandosi a meno 0,5 punti percentuali. Tradotto: i prodotti reali insostituibili (energia e alimentari freschi) aumentano di prezzo molto più rapidamente di quelli di cui si può fare a meno e ancora più rapidamente dei servizi, che avvertono meno la pressione dei prodotti energetici.
I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona aumentano infatti dell'1,1% su base mensile e dell'1,9% su base annua (era solo +0,6%, in dicembre).
I prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto – il cosiddetto “carrello della spesa” – aumentano dello 0,9% in termini congiunturali e registrano una crescita su base annua del 2,2%, dall'1,0% del mese precedente. Sono questi a pesare effettivamente su salari e pensioni, già compressi fino al livello della povertà relativa.
Peggio ancora. L'indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) – quello su cui si basa il “recupero automatico dell’inflazione” nei contratti nazionali di lavoro – diminuisce dell'1,7% su base congiunturale e aumenta dell'1,0% in termini tendenziali. Il che significa che avrà un effetto, nel migliore dei casi, pari a zero in quelli che una volta sarebbero stati definiti “aumenti salariali monetari”. Il potere d’acquisto insomma scende perché salari e pensioni restano inchiodati mentre i prezzi riprendono a salire per i motivi sbagliati.

mercoledì 22 febbraio 2017

Di cosa abbiamo (davvero) bisogno

Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.
La transizione ecologica chiede di fare scelte nel campo dei consumi. Ma su quale base? Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia (1).
Un negaWatt è un’unità di energia risparmiata – «nega» sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici e all’accorciamento dei circuiti economici, è possibile secondo gli autori mettere in piedi un sistema economico ecologicamente sostenibile a scala nazionale e anche oltre. Anche allo stato attuale della tecnologia, la nostra società già dispone di importanti «giacimenti di negaWatt».
Il consumismo non è sostenibile, perché aumenta continuamente i flussi di materie prime e il consumo di energia. I suoi effetti alienanti sulle persone, inoltre, non hanno più bisogno di essere dimostrati. Una società «nega- Watt» è una società della sobrietà in cui alcune possibilità di consumo sono deliberatamente scartate perché considerate nefaste. Ma sulla base di quali criteri?
Per rispondere a questa domanda, gli autori del Manifeste distinguono fra i bisogni umani autentici, legittimi, che occorrerà dunque continuare a soddisfare, e i bisogni artificiali, illegittimi, dei quali occorrerà sbarazzarsi. Il primo gruppo comprende quelli definiti «vitali», «essenziali», «indispensabili», «utili» e «convenienti». I secondi quelli ritenuti «accessori», futili», «stravaganti», «inaccettabili», «egoisti».
A questo punto si pongono due problemi. In primo luogo, come definire un bisogno «essenziale»? Che cosa lo distingue da un bisogno «accessorio» o «inaccettabile»? E poi, chi decide?
Quali meccanismi o istituzioni conferiranno una legittimità alla scelta di soddisfare un determinato bisogno anziché un altro? Il Manifeste négaWatt non dice niente in merito.
Per rispondere a queste domande, è opportuno fare riferimento a due pensatori critici e pionieri dell’ecologia politica: André Gorz e Ágnes Heller, autori negli anni 1960 e 1970 di una teoria dei bisogni sofisticata e di grande attualità (2). Entrambi hanno affrontato questi temi a partire da una riflessione sull’alienazione, che può essere misurata sulla base dei bisogni autentici. In effetti, si è alienati rispetto a uno stato ideale al quale si cerca di tornare, o che si cerca di raggiungere.
Il concetto indica il processo mediante il quale il capitalismo suscita bisogni artificiali che ci allontanano da questo stato. Oltre a essere alienanti, la maggior parte di questi bisogni sono ecologicamente irrealistici
Un compito urgentissimo del nostro tempo
Che cos’è un bisogno «autentico»? Si pensa naturalmente alle esigenze dalle quali dipendono la sopravvivenza e il benessere dell’organismo: mangiare, bere, proteggersi dal freddo, ad esempio. Nei paesi del Sud del mondo, e anche del Nord, alcuni di questi bisogni elementari non sono soddisfatti. Altri, che lo erano prima, lo sono sempre meno. Fino a tempi recenti era normale respirare un’aria non inquinata; ma nelle megalopoli contemporanee è diventato difficile. Vale anche per il sonno.
Oggi, a causa dell’inquinamento luminoso, molte persone stentano ad addormentarsi, perché l’onnipresenza della luce nelle città ritarda la sintesi della melatonina (chiamata «ormone del sonno»). In alcuni paesi, la lotta contro l’inquinamento luminoso ha portato alla nascita di movimenti sociali che rivendicano il «diritto al buio» e chiedono la creazione di «parchi stellati» non inquinati dalla luce artificiale (3 ).
Anche l’esempio dell’inquinamento sonoro è molto significativo per tanti cittadini. Somme di denaro sempre maggiori sono destinate all’insonorizzazione delle abitazioni, per soddisfare un bisogno – il silenzio – prima gratuito. Queste nuove spese sono suscettibili di ridurre il tasso di profitto, ma al tempo stesso offrono fonti di guadagno, per esempio per le imprese specializzate.
Non tutti i bisogni «autentici» sono di ordine biologico. Amare ed essere amati, acquisire conoscenze, dare prova di autonomia e creatività manuale e intellettuale, prendere parte alla vita pubblica, contemplare la natura... Sul piano fisiologico, se ne può certo fare a meno. Ma questi bisogni sono contestuali a una vita umana degna di essere vissuta. André Gorz li chiama «bisogni qualitativi»; Ágnes Heller, «bisogni radicali».
I bisogni qualitativi o radicali si fondano su un paradosso. Il capitalismo, benché sfrutti e alieni, produce alla lunga un certo benessere materiale per importanti settori della popolazione. In tal modo libera gli individui dall’obbligo di lottare quotidianamente per assicurarsi la sopravvivenza.
Nuove aspirazioni, qualitative, acquistano dunque importanza. Ma, man mano che diventa più potente, il capitalismo ne impedisce la piena realizzazione. La divisione del lavoro chiude la persona in funzioni e competenze anguste per tutta la vita, impedendo il libero sviluppo della gamma delle facoltà umane. Al tempo stesso, il consumismo seppellisce i bisogni autentici sotto bisogni fittizi. Raramente l’acquisto di una merce soddisfa una vera mancanza. Procura una soddisfazione momentanea; poi il desiderio che la merce aveva creato si rivolge a un’altra vetrina.
I bisogni autentici, costitutivi del nostro essere, non possono trovare soddisfazione all’interno dell’attuale sistema economico. Ecco perché sono il fermento di movimenti di emancipazione. «Il bisogno è rivoluzionario in nuce», diceva André Gorz (4). La ricerca del suo soddisfacimento porta presto o tardi gli individui a sottoporre a critica il sistema.
I bisogni qualitativi evolvono storicamente. Viaggiare, per esempio, permette all’individuo di arricchire le proprie conoscenze e aprirsi all’alterità. Fino alla metà del XX secolo, viaggiavano solo le élite. Adesso è una pratica resa democratica. Si potrebbe definire il progresso sociale con la comparsa di bisogni sempre più arricchenti e sofisticati, e accessibili ai più.
Ma ecco gli aspetti nefasti. Il trasporto aereo proposto da compagnie low cost contribuisce certo a rendere il viaggio accessibile alle classi popolari, ma emette anche enormi quantità-di gas serra, e distrugge le zone dove i turisti corrono in massa... a guardare altri turisti che stanno guardando quel che c’è da guardare. Viaggiare è diventato un bisogno autentico; ma occorrerà inventare nuovi modi di spostarsi, adatti al mondo di domani.
Se il progresso sociale provoca talvolta effetti perversi, certi bisogni nefasti all’origine possono, al contrario, diventare sostenibili con il tempo. Oggi il possesso di uno smartphone è un bisogno egoista. Questi telefoni contengono «minerali di sangue» – tungsteno, tantalio, stagno e oro –, la cui estrazione provoca conflitti armati e gravi danni ambientali. Ma il problema non è l’apparecchio in sé. Se nascerà uno smartphone «equo» – il Fairphone sembra prefigurarlo (5) –, non c’è ragione perché questo oggetto sia bandito nelle società future. Tanto più che ha portato a forme di socialità nuove, con il continuo accesso alle reti sociali, e grazie al suo utilizzo fotografico. Che incoraggi il narcisismo o produca nevrosi negli utenti non è certo inevitabile. In questo senso, non si può escludere che lo smartphone, attraverso alcuni suoi utilizzi, si trasformi progressivamente in bisogno qualitativo, come è già avvenuto per il viaggio.
Secondo André Gorz, il motto della società capitalista è: « Quello che è buono per tutti non vale nulla. Sei rispettabile solo se hai “meglio” degli altri» (6). Gli si può contrapporre un motto ecologista: « È degno di te solo quello che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né avvilisce nessuno». Agli occhi di Gorz, la particolarità di un bisogno qualitativo è quella di non lasciare spazio alla «distinzione». Nel regime capitalista, il consumo ha in effetti una dimensione di ostentazione.
Acquistare l’ultimo modello di automobile equivale a esibire uno status sociale (reale o presunto). Un bel giorno, tuttavia, il modello passa di moda e il suo potere distintivo viene meno, provocando il bisogno di un altro acquisto. Questa fuga in avanti insita nell’economia di mercato costringe le imprese che si fanno concorrenza a produrre merci sempre nuove.
Come farla finita con questa logica di distinzione produttivistica? Per esempio, allungando la durata di vita degli oggetti. Una petizione lanciata da Amis de la Terre (Amici della Terra) chiede che si porti da due a dieci anni la garanzia per le merci un obbligo sancito da leggi europee (7).
Oltre l’80% degli oggetti in garanzia viene riparato; la percentuale scende a meno del 40% una volta scaduta la garanzia. Morale: più la garanzia è lunga, più gli oggetti durano, e la quantità di merci vendute e dunque prodotte diminuisce, limitando in tal modo le logiche di distinzione che spesso si basano sull’effetto novità. La garanzia è la lotta di classe applicata alla durata di vita degli oggetti.
Chi determina il carattere legittimo o no di un bisogno? Qui c’è un pericolo, che Ágnes Heller chiama la «dittatura dei bisogni» (8), analoga a quella che vigeva nell’Urss. Se è una burocrazia di esperti autoproclamati a decidere quali sono i bisogni «autentici», e di conseguenza le scelte di produzione e di consumo, queste hanno poche possibilità di essere giudiziose e legittime.
Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.
È difficile immaginare questo meccanismo. Tracciarne i contorni è un compito urgente del nostro tempo; da questo dipende la costruzione di una società giusta e sostenibile. Il potere pubblico ha certamente un ruolo da giocare, per esempio tassando i bisogni futili per democratizzare i bisogni autentici, regolando le scelte dei consumatori. Ma si tratta di convincere della futilità di diversi bisogni; e per questo, occorre un meccanismo posto il più vicino possibile alle persone. Occorre sottrarre il consumatore al suo testa a testa con la merce e riorientare la libido consumandi verso altri desideri.
La transizione ecologica ci invita a fondare una democrazia diretta, più deliberativa che rappresentativa. L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova «critica della vita quotidiana»; una critica elaborata in maniera collettiva.

martedì 21 febbraio 2017

Spese militari in Italia, al giorno: 64 milioni di euro

64 milioni di euro al giorno, 23 miliardi l’anno: sono queste le cifre che presenta il rapporto 2016 del Mil€x, l’Osservatorio sulle spese militari italiane. Praticamente l’1,4% del Pil, una cifra cresciuta solo nell’ultimo decennio del 21%. Nel particolare ciò in cui spendiamo maggiormente sono gli armamenti, +10% nell’ultimo anno, +85% in 10 anni e le missioni all’estero, +7% rispetto lo scorso anno.
Questo è quanto emerso in soldoni rispetto a quanto ha speso l’Italia nell’ultimo anno con la scusante del terrorismo, dell’immigrazione e del rischio criminalità. Scusante perché, come lo stesso Mil€x sottolinea nel suo rapporto, siamo sempre più immersi in una “democrazia” manipolatoria dell’opinione pubblica dove, per giustificare l’acquisto di nuovi armamenti o il potenziamento di sistemi di difesa, si fa leva sulla paura o su cronache che fanno scalpore.
Terrorismo, immigrazione, criminalità sono tra gli argomenti più gettonati, ma se analizzati non giustificano affatto tali spese, in particolar modo il loro aumento: se per far fronte al terrorismo vengono acquistati i famosi caccia F-35, cosa si pensa di ottenere col loro impiego? Ulteriori bombardamenti, distruzione e morti tra le popolazioni locali non faranno che accrescere l’odio verso l’Occidente. L’acquisto di navi da guerra per il contrasto all’immigrazione poi, in che modo lo farebbero? A colpi di cannone? C’è già la guardia costiera, piuttosto si acquistino navi di soccorso. Per non parlare dell’operazione “strade sicure” con mezzi blindati e militari schierati con tanto di enormi mitragliatori nei centri città: pura operazione d’immagine.
Questi sono gli espedienti cui i governi ricorrono per continuare i loro scellerati sperperi di denaro pubblico. L’industria delle armi rappresenta da sempre una delle maggiori sfere di potere, d’altronde chi controlla le armi controlla i governi e le lobby delle armi rappresentano quei pochi settori che della crisi non ne ha risentito, anzi, ne ha tratto profitto come le banche. Anzi da questo ragionamento un altro dato curioso da leggere sono i tassi d’interesse con cui il governo paga le aziende che vanno dal 30 al 40%!
Addirittura, visto che la crisi pesa, ulteriori pressioni sono arrivate in questi giorni da Nato e Usa con la richiesta di alzare il budget al 2% del Pil! Se per l’Italia c’è stata una bacchettata negativa visto il suo “scarso” 1,4% (in realtà 1,1 secondo stime Nato), un plauso c’è stato per la Grecia al 2,4%!
Questo fa ben capire a chi dobbiamo i nostri indebitamenti visto che nonostante la situazione Greca sia la più tragica fra gli stati Europei, il budget in spese militari è enorme e continua ad essere ingiustificabile nonché a strozzare la stessa.
Agli antipodi, quindi paradossale, è la spesa per la “cyber-difesa” e quella informatica che nonostante gli attacchi recenti subiti da uomini politici ed imprenditori. Oltre i casi più grandi scoppiati da Wikileaks in avanti, spende ancora cifre quasi “irrisorie”. Se, chiaramente, dal punto di vista capitalistico, le guerre del futuro saranno sempre più combattute attraverso strumenti informatici, risulta paradossale l’acquisto ulteriore di mezzi come carri armati se non per sottolineare ulteriormente quanto le industrie delle armi siano importanti.
I paragoni per queste cifre sono per i forti di stomaco: se da un lato abbiamo 23 miliardi di euro spesi in materia di armi nell’ultimo anno, dall’altro siamo costretti a tagliare da scuole, ospedali, posti di lavoro, la messa in sicurezza dei territori. Ancora, da un lato carri armati scintillanti, cacciabombardieri dall’enorme potenza di fuoco da utilizzare in chissà quali altre guerre; dall’altro scuole in cui crollano i soffitti, ospedali che tagliano posti letto o chiudono intere cliniche, territori che franano causando centinaia di morti perché non esiste la messa in sicurezza degli stessi.
Ma il nodo allo stomaco arriva quando si legge, esattamente due giorni fa, che la protezione civile ha stimato i danni subiti dai territori di Amatrice per le scosse di terremoto in esattamente quegli stessi 23 miliardi di euro. Basterebbe fermare un anno dei cingoli per fare un favore al centro Italia e vederlo rinascere. Evidentemente le priorità sono altre.

lunedì 20 febbraio 2017

La Grecia è l'unico paese Ue dove il salario minimo è più basso del 2008

Dati Eurostat appena rilasciati sui salari minimi nazionali nell'Unione europea hanno dimostrato che, mentre il salario minimo è aumentato in tutti i paesi dell'UE, in Grecia è diminuito ad livello inferiore rispetto al 2008.
In dieci paesi, dei 22 che hanno un salario minimo nazionale, l'importo è pari a meno di € 500 al mese. In altri sette, non si può guadagnare meno di circa 1.500 euro al mese.
Il salario minimo lordo è stato ridotto nel febbraio 2011 come uno dei presupposti del primo piano di salvataggio. Scopo della riduzione è stato quello di aumentare la competitività.
580 € al mese è per un lavoro a tempo pieno e per i lavoratori sopra i 25 anni di età. Quelli sotto i 25 ricevono 510 € lordi.
L'unica competitività potenziata in Grecia è la competizione tra i disoccupati che consente ai datori di lavoro di ridurre salari e stipendi.

mercoledì 15 febbraio 2017

Perché gli Stati Uniti perdono le guerre che provocano?

Dalla fine della seconda guerra mondiale nel 1945, l'esercito degli Stati Uniti è stato impegnato in numerose guerre dove è uscito perdente, per determinati motivi.
Utilizzando la fine della seconda guerra mondiale come punto di partenza, gli Stati Uniti hanno partecipato a guerre e conflitti armati significativi e interventi militari, tra le quali la guerra di Corea (1950-1953), quella del Vietnam (1959- 1974) e successivamente in Somalia, Afghanistan, Iraq, Siria e Yemen.
In totale, il paese del Nord America ha partecipato a 37 guerre negli ultimi 72 anni dove migliaia di soldati, marines e aviatori sono rimasti uccisi o feriti, ha dichiarato in un articolo il principale consigliere dell'istituto degli affari esteri del Consiglio Atlantico a Washington Harlan Ullman, pubblicato dall'agenzia statunitense, UPI.
Il principale elemento che ha causato questi fallimenti è stata l'incapacità in sede di attuazione di un piano solido e strategico nelle nostre politiche. L'inesperienza presidenziale e le aspirazioni irraggiungibili hanno causato il fallimento nel pensare una strategia", si legge nell&#
39;articolo, e, a tal proposito, come riferimento si citano le amministrazioni di John F. Kennedy nella guerra del Vietnam e quella di George W. Bush nelle guerre che ha iniziato in Oriente Medio.
D'altra parte, si sottolinea in questa fallimenti la mancanza di conoscenza e comprensione delle condizioni in cui l'esercito statunitense è intervenuto militarmente, aggravata da casi di estrema ignoranza verso le culture straniere.
Su questa linea, l'autore ha evidenziato la mancanza di conoscenza circa la situazione nelle società in Afghanistan e in Iraq dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, che ha preceduto l'intervento militare degli Stati Uniti in entrambi i paesi.
Nell'articolo, si lamenta il fatto che pochi nordamericani sollevano la questione su come o perché la più grande forza militare del mondo, nonostante la sua straordinaria macchina da guerra abbia un record di fallimenti nei conflitti e interventi armati.

martedì 14 febbraio 2017

Il Paese reale continua a perdere fiducia.

Il 'Rapporto sulla qualita' dello sviluppo in Italia', realizzato da Tecne' e dalla Fondazione Di Vittorio, parla innanzitutto di disuguaglianze territoriali. L'indice generale - in un anno - scende da 100 a 99, con un peggioramento, in particolare nel nord e nel centro, e con il mezzogiorno che continua a essere in grave ritardo rispetto al resto del Paese. Ma i motivi di interesse per questo documento rigurdano anche le disuguaglianze economiche e la concentrazione della ricchezza. Si conferma, quindi, che la crisi ha generato un ceto medio piu' fragile, aumentato i poveri e i bassi salari, mentre il lavoro e' percepito piu' instabile e nel complesso e' piu' difficile migliorare le proprie condizioni. In tutto questo, le scelte del Governo stavano andando nella proroga della
DIS-COL, l'indennita' di disoccupazione per i co.co.pro e co.co.co. Così, 300.000 lavoratori precari hanno rischiato di veder saltare la protezione o il sostegno in caso di perdita di lavoro. Commentando questi dati Susanna Camusso ha detto: "Rispetto al 2015- sottolinea il leader della Cgil- nel 2016 calano drasticamente le previsioni sulla crescita economica dell'Italia, quelle sulla propria situazione personale e sulle prospettive di crescita dell'occupazione. Come pure diminuisce notevolmente il concetto di partecipazione sociale".
Come fa l'Istat a prevedere un aumento dell'attività economicagià nei prossimi tre mesi?
Dall'indagine Tecné-Fdv esce il qudro di un Paese che rimane preda di un sentimento di diffuso pessimismo sul futuro e in una crescente sfiducia economica. In particolare, solo il 31% pensa che la situazione economica dell'Italia migliorera' nei prossimi 12 mesi (era il 44% nel 2015) e se si guarda alla situazione personale appena l'11% si attende un miglioramento (era il 13%).
Non va meglio sul fronte del lavoro: solo il 24% pensa che l'occupazione crescera' (era il 31% nel 2015). Una dinamica che segnala, inoltre, un ripiegamento nel privato e un indebolimento della propensione sociale partecipativa. Il nord, dove e' maggiore nel 2016 il calo dell'indice, resta comunque l'area del Paese dove il livello di disuguaglianza economica e' inferiore, mentre nel mezzogiorno, sia per quanto riguarda la distribuzione dei redditi che per quanto riguarda la concentrazione della ricchezza, il livello di iniquita' sale moltissimo.
La fiducia e' uno dei motori piu' importanti della crescita economica, senza la quale non solo diventa difficile fare progetti di vita, ma anche i consumi e gli investimenti tendono a comprimersi o a dilatarsi in attesa di tempi migliori. Non va meglio sul fronte del lavoro: solo il 24% pensa che l'occupazione crescera' (era il 31% nel 2015).
Una dinamica che segnala, inoltre, un ripiegamento nel privato e un indebolimento della propensione sociale partecipativa.
Il nord, dove e' maggiore nel 2016 il calo dell'indice, resta comunque l'area del Paese dove il livello di disuguaglianza economica e' inferiore, mentre nel mezzogiorno, sia per quanto riguarda la distribuzione dei redditi che per quanto riguarda la concentrazione della ricchezza, il livello di iniquita' sale moltissimo.

lunedì 13 febbraio 2017

Rimpatrio oro: preparativi per lancio nuovo marco?

Secondo indiscrezioni riportate da Reuters è anche possibile che tutto faccia parte di un piano: il piano di Berlino di reimpossessarsi di tutte quelle riserve per utilizzarle come garanzia di un nuovo marco che verrebbe emesso, nel caso di rottura dell’Eurozona.
Dopo aver già rimpatriato 583 tonnellate da New York e Parigi, la Bundesbank che la metà del suo oro si trovi a Francoforte entro la fine del 2017, dunque tre anni prima della scadenza che era stata fissata al 2020.
Il resto dovrebbe essere spartito tra la Federal Reserve Bank di New York e la Bank of England. Così il membro del consiglio della Bundesbank, Carl Ludwig Thiele, ha detto nel corso di una conferenza:
“Ci stiamo confrontando molto con il presidente americano Donald Trump, riguardo alle implicazioni sulla politica monetaria, sulla macroeconomia, etc..ma noi abbiamo fiducia nella banca centrale degli Usa”. E ancora: “Trump non ha alimentato nessuna discussione sui forzieri di New York“.
Oro ed euro. La Germania ha paura
Reuters ricorda come la fiducia nell’euro, già ai minimi storici, abbia vacillato ancora di più con le dichiarazioni di Marine Le Pen, candidata all’Eliseo, e del M5S, che hanno invocato l’uscita dall’euro rispettivamente di Francia e Italia. Il tutto, mentre i tedeschi sono sempre più stanchi di dover portare sulle loro spalle il peso dei problemi delle economie più vulnerabili dell’Eurozona.
Thiele ha aggiunto che la Brexit non ha avuto alcuna influenza nella decisione di affrettare il piano di rimpatrio dell’oro, dal momento che Londra rimane comunque un mercato chiave per il trading del metallo prezioso, e dunque un posto sicuro dove trasferirlo.
Nel tentativo di placare le polemiche sul mistero dell’oro – alcuni cittadini tedeschi negli ultimi anni si erano anche chiesti se queste riserve di oro davvero esistessero – la Bundesbank ha diffuso nel 2015 un comunicato di 2.300 pagine, con la lista dei lingotti d’oro, promettendo una maggiore trasparenza.
Nel periodo della Guerra Fredda, il 98% dell’oro tedesco venne trasferito all’estero.
Il maggior rimpatrio è avvenuto nel 2000, con 931 tonnellate tornate ‘a casa’ dopo essere state immagazzinate presso la Bank of England.
Una volta che il piano sarà completato – 300 tonnellate verranno rimpatriate da New York e altre 374 tonnellate da Parigi – 1.236 tonnellate rimarranno a New York, 432 tonnellate a Londra e il resto a Francoforte

venerdì 10 febbraio 2017

Finché Europa non si separi

Francia e Germania hanno da sempre rappresentato poli alternativi e confliggenti dell’Europa. È avvenuto per secoli, da quando si sono divise per sempre a livello dinastico e culturale, definendo nel Reno non solo i confini fra due Stati, ma anche il confine fra due visioni dell’Europa a volte diametralmente opposte, tanto da rendere ineluttabile il destino dello scontro bellico. Solo per rimanere nel Novecento, senza addentrarci nella storia del nostro continente, questi due Stati hanno rappresentato le parti principali, almeno all’inizio, dei peggiori conflitti che hanno insanguinato l’Europa. La linea Maginot, l’Alsazia e la Lorena, sono ancora oggi quei punti fermi nella lettura della Storia dell’Occidente e sono quei simboli di un continente che ha deciso, da quel momento, di porre fine, almeno in questi termini, al conflitto che da sempre coinvolge questi due popoli.
francia vs germania
Parigi e Berlino, un tempo nemici storici, hanno nel corso degli anni conformato i propri interessi nel grande calderone d’Europa, rendendo di fatto l’Unione creata a Roma, un’Unione fortemente nordica, quasi atlantica, il cui asse poggia sullo stesso asse che un tempo era stata la rotta di eserciti che dall’Est all’Ovest invadevano la Francia per unirla indissolubilmente allo Stato teutonico. Passati ormai molti decenni dall’ultimo conflitto mondiale, lo scontro tra Germania e Francia si è molto assopito, rendendo di fatto le due potenze europee un soggetto unico nel panorama politico mondiale, tanto da definire l’Unione Europea la cosiddetta “Europa franco-tedesca”.
È cronaca degli ultimi anni il fatto che la Germania ha poi surclassato definitivamente la Francia nel ruolo di guida dell’Europa unita. Con l’avvento di Angela Merkel, e la crisi finanziaria che ha falcidiato la pur solida (ma non solidissima) economia francese, Parigi ha definitivamente abdicato al ruolo di guida dell’UE di fatto cedendo terreno, nuovamente, a Berlino, in una versione 2.0, senza spargimenti di sangue, ma non di meno tragica per certi versi, di una guerra universale tra Stati d’Europa. Dalla guerra con gli eserciti alla guerra con i numeri, la Francia sembra comunque dover di nuovo soccombere ai dettami tedeschi. In quest’ottica, la presidenza Hollande altro non ha fatto che condannare la Francia a questa situazione. La sua pochezza politica, il suo essere totalmente privo di carisma e caratura politica, il suo convincimento nella capacità dell’Europa di regolare in fondo tutto, ha fatto sì che non solo diventasse il Presidente più odiato della storia della Quinta Repubblica, ma soprattutto, che lasciasse definitivamente la leadership del Continente al nemico-amico germanico.
hollande europa
Curiosamente, l’anno della fine di Hollande coincide anche con l’ultimo anno di cancellierato per Angela Merkel. Con una differenza sostanziale: mentre Hollande non si ricandiderà (prima volta della storia francese di un presidente che non si ricandida per il suo partito dopo il primo mandato), Merkel è di nuovo stata eletta dall’assemblea della CDU quale candidato al ruolo di Cancelliere per le prossime elezioni. I due leader non lasciano soltanto i propri Stati in maniera completamente diversa, ma anche i loro stessi partiti vivono di una fortuna totalmente inversa. Angela Merkel, pur non senza problemi interni dettati dalla volontà di emersione di una nuova generazione, lascia sostanzialmente la CDU come primo partito di Germania, ma la rimonta di Schulz potrebbe far cambiare il programma della Cancelliera nelle prossime settimane. Al netto di elezioni regionali con l’avvento di nuovi movimenti e la crescita delle frange più radicali, la CDU insieme al suo degno sodale, l’SPD, sono saldamente i primi partiti di Germania e, seppur esista il rischio di vedere sorgere un nuovo governo di matrice socialdemocratica, difficilmente si potrà vedere un governo di stampo sovranista/populista con Alternative fur Deutschland.
Hollande, al contrario, lascia un Paese e un partito devastati da anni di politiche infime che hanno condotto la sua presidenza al baratro politico. Il partito socialista, dopo decenni di assoluta forza all’interno del Paese, oggi rasenta il 15% nei sondaggi. A pochissimi mesi dal primo turno elettorale, il nuovo leader, Benoit Hamon, rischia di veder naufragare il proprio partito al quarto posto, con numeri quasi pari a quelli della sinistra radicale di Mélenchon. Un disastro politico che si ripercuote nella frenesia degli ultimi tempi dl panorama dei partiti francesi, dove a fare la voce grossa, per ora, sono due partiti: il Front National di Marine Le Pen, ed il nuovo partito liberale fondato da Macron, “En Marche!”. Due partiti totalmente diversi tra loro e che per la prima volta si scontrano per l’Eliseo.
Spiegel Gespraech mit Martin SchulzPraesident des Europaeischen Parlamentesund Jean Claude Juncker, Praesident der Europaeischen Kommission
Oggi come sempre, pertanto, Germania e Francia rappresentano non soltanto due diversi modi di intendere la vita politica, ma anche due modi diversi di intendere l’Europa, e il proprio posto all’interno dell’Europa. Da una parte, la Germania è salda nella sua volontà di rimanere alla guida dell’Europa e con partiti che rappresentano un continuum con la politica tedesca degli ultimi decenni. Che sia nuovamente la CDU di Angela Merkel o che sia il socialdemocratico Schulz, poco cambia. Non c’è distinzione. Schulz e Merkel sono esattamente i prototipi di una politica in cui la Germania si pone sempre alla guida dell’Europa, ed entrambi rappresentano, seppur con differenze sostanziali riguardo alcuni punti, gli alfieri di un’Europa in cui il centralismo tedesco non può essere superato né può esserne superata la visione continentale. Per entrambi il Vecchio Continente è il Lebensraum della Germania in cui innestare la propria politica economica e sono entrambi consapevoli che sia quello il mercato da cui ripartire. Si possono modificare i parametri socio-culturali, neanche troppo visto come poi CDU e SPD abbiano governato così tanto insieme da essere diventati un’unica cosa in tema di politica interna, ma difficilmente i due candidati rappresenteranno una rivoluzione a Berlino.
Se solo mettessimo a confronto questi due candidati tedeschi con una fra tutti quelli francesi, ovvero Marine Le Pen, è del tutto evidente come ci si trovi di fronte a posizioni distanti anni luce l’una dall’altra. Isolazionismo contro europeismo; da una parte l’uscita dalla NATO dall’altra il rafforzamento della politica occidentale; da una parte il referendum sull’euro, dall’altra la nazione che più ha guadagnato e guadagna dalla moneta unica; da una parte la chiusura delle frontiere, dall’altra chi le ha aperte urbi et orbi rendendo di fatto la Germania un hub del mercato dell’immigrazione. Francia e Germania, in caso di vittoria di Marine Le Pen all’Eliseo (ipotesi improbabile se Macron diventasse la seconda forza del ballottaggio), si ritroverebbero nel giro di pochi mesi non più a contendersi la leadership dell’Unione Europea, ma a contendersi direttamente la leadership europea nella grande “guerra” del Terzo Millennio, fra sovranisti e globalisti. La Francia diventerebbe paladina di un’Europa che ritorna alla Nazione, e che seguirebbe il filone Brexit e l’isolazionismo d’Oltreoceano. La Germania, dal canto suo, diventerebbe la culla dell’europeismo e la paladina di chi cede sovranità in cambio di un continente più unito e fortemente votato alla logica del mercato.
La visione dell’Europa di Marine Le Pen
Non sarà, di certo uno scontro facile. Se non altro perché l’ascesa di Macron, con le sue politiche fortemente volte all’Europa e al liberismo, di certo inciderà sulla vittoria di Marine Le Pen. Ma è chiaro che, comunque vada, Francia e Germania rappresenteranno le due visioni del mondo dei popoli europei del nostro tempo. Se i galli rappresenteranno un popolo che dubita di questo mondo germanocentrico, i teutoni, ancora una volta, saranno i portabandiera della granitica certezza nell’avvenire, dove il proprio mondo a dettare le regole sugli altri. L’isolazionismo francese contro l’Europa al ritmo tedesco sarà quanto di più metaforico dei dubbi e delle diverse sensibilità dei popoli europei. Non a caso, se la Germania è a spinta atlantica, e a Sud è chiusa dal muro delle Alpi, quasi a significare uno stacco importante anche solo a livello geografico, la Francia è quel Paese dove allo spirito nordico, atlantico e più germanico, si contrappone quell’afflato emotivo, ribelle e anche più incostante di matrice mediterranea. La sfida dunque sarà soltanto una: comprendere se la Francia “mediterranea” sconfiggerà la Francia “atlantica”, e si contrapporrà, definitivamente, al senso tedesco di unire l’Europa sotto la sua ala protettrice; oppure se, al contrario, e come probabile, la Francia atlantica, europeista e a stretto contatto con la Germania confermerà l’oblio nei confronti del suo senso di isolazionismo e ribellione, tornando a voler condividere la leadership dell’Unione Europea con Berlino e dimenticandosi della possibilità di guidare un’altra Europa rispetto a quella che viviamo a trazione tedesca.

giovedì 9 febbraio 2017

COME CI INGANNANO LE PUBBLICITÀ, RENDENDO IL CIBO IRRESISTIBILE E PERFETTO

Secondo un detto popolare "si mangia prima con gli occhi". Devono saperlo molto bene i pubblicitari del settore alimentare, che ricorrono a una serie di ingegnosi stratagemmi per rendere il cibo reclamizzato succulento e invitante. Zuppe fumanti, torte deliziose, bevande super refrigeranti in realtà non esistono.
Il cibo immortalato nelle foto o proposto negli spot televisivi non solo non sarebbe affatto invitante se lo avessimo nel piatto, ma spesso non risulterebbe neanche commestibile. Il più delle volte si tratta di bizzarre creazioni "gastronomiche" che risultano da fantasiose combinazioni tra alimenti veri e sostanze e additivi di ogni tipo.
Vediamo alcuni dei trucchi più utilizzati nelle pubblicità per rendere il cibo più attraente ai nostri occhi:
1) COLLA
Se mescolati al latte, i cereali si inzuppano rapidamente, diventando mollicci e precipitando rapidamente sul fondo della ciotola. Basta sostituire il latte con la colla liquida, e i cereali rimarranno in superficie, mantenendo l' originaria consistenza e l'inalterata croccantezza.
2) OLIO PER MOTORI
I pancake, tradizionalmente accompagnati con sciroppo d'acero, nelle pubblicità vengono serviti con ...olio per motori. Lo sciroppo d'acero infatti tende ad essere assorbito troppo rapidamente dalle frittelle e non permetterebbe scatti fotografici accattivanti.
3) VAPORE ARTIFICIALE
I piatti fumanti delle pubblicità sembrano davvero molto succulenti e appetitosi. Nella realtà, i cibi non sono neanche caldi. Oltre che attraverso photoshop, i pubblicitari ricorrono ad altri metodi per creare il vapore:
Una vaporiera: passano il cibo velocemente al suo interno per ottenere l'effetto "fumante"
Batuffoli di cotone: inumidiscono i batuffoli di cotone e li mettono nel microonde. Li nascondono all'interno nel piatto da fotografare, creando qualche minuto di fumo per i fotografi
Un simulatore di vapore.
4) LUCIDO DA SCARPE
La carne degli hamburger viene colorata col lucido da scarpe. Per evitare che si rimpiccioliscano, gli hamburger delle pubblicità non vengono mai cotti. Vengono grigliati solo per pochi secondi in modo da mantenerli grandi e appetitosi. Successivamente i fotografi li colorano col lucido da scarpe e creano i tipici segni della griglia servendosi di spiedini arroventati.
5) CARTONE
Per ottenere la giusta cremosità nella guarnizione delle torte, i pubblicitari inseriscono prezzi di cartone a mo' di cuscinetto tra i vari strati, infilzandoli con degli stuzzicadenti per mantenerli compatti. Usano lo stesso trucco nelle pubblicità di panini e hamburger.
6) DETERSIVO PER PIATTI
Negli gli scatti che ritraggono latte, caffè o birra, i fotografi aggiungono detersivo per piatti o sapone liquido. Il detersivo per piatti crea una schiuma durevole dall'aspetto "naturale" e accattivante.
7) CIBI CHE SOSTITUISCONO ALTRI CIBI
Negli studi pubblicitari il gelato tende a sciogliersi molto rapidamente sotto il calore generato dalle luci dei riflettori. I fotografi lo sostituiscono con purè colorato o con una crema formata da amido, sciroppo di mais e zucchero a velo
8) COMPRESSE EFFERVESCENTI
Le bollicine di anidride carbonica tendono a svanire rapidamente. Per creare l'effetto effervescente, i pubblicitari usano le compresse per il bruciore di stomaco. Mescolando le bibite frizzanti con queste pastiglie si innesca una reazione chimica che fa ricomparire le bollicine.
9) CARTA IGIENICA
Il pollo delle pubblicità non è mai arrostito allo spiedo. È sottoposto a una rapidissima cottura e poi spennellato di marrone. Per aumentarne il volume, i pubblicitari lo imbottiscono con carta igienica, che viene poi cucita per mantenerla ferma al suo interno.
10) CERA
Per ottenere la consistenza perfetta, i fotografi aggiungono cera fusa di differenti colori nei condimenti e nelle salse.

mercoledì 8 febbraio 2017

A chi appartiene la legge elettorale

Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.
Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi.
C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia elettorale”.
È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso.
A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria ».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti. Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.
Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è fallito.
Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile.
Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio. Del resto, ogni sistema elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle due, è meglio?

martedì 7 febbraio 2017

Italia e corruzione: in Europa peggio di noi solo Grecia e Bulgaria

Il 69% dei 176 Paesi analizzati nell’Indice di Percezione della Corruzione nel settore pubblico e politico del 2016, ha ottenuto un punteggio inferiore a 50, su una scala da 0 (molto corrotto) a 100 (per nulla corrotto), mostrando come la corruzione nel settore pubblico e nella politica sia ancora percepita come uno dei mali peggiori che infesta il mondo», si legge nel rapporto di Transparency International. Nel 2016 sono più i Paesi che hanno perso punti di quelli che ne hanno guadagnati.
A livello mondiale l’eccellenza è rappresentata da anni da Danimarca e Nuova Zelanda, seguiti da Finlandia e Svezia. Non a caso, tutti Paesi che possiedono legislazioni avanzate su accesso all’informazione, diritti civili, apertura e trasparenza dell’amministrazione pubblica.
Focus sull’Italia: la percezione della corruzione è ancora troppo alta
Nel CPI relativo all’anno 2016 l’Italia registra un lieve miglioramento rispetto all’anno precedente, passando dal 61° al 60° posto nel mondo con un miglioramento di 3 punti (oggi sono 47 su 100). Ma se confrontata agli altri Paesi europei la posizione del nostro Paese è decisamente negativa, trovandosi in coda davanti solo a Grecia e Bulgaria, rispettivamente al 69° e 75° posto della classifica mondiale.
Dal 2012, anno dell’approvazione della Legge Severino, l’Italia ha scalato 12 posizioni, passando dalla 72°, all’attuale 60°. Il nostro Paese segna quindi un miglioramento, ma ancora troppo poco per poter essere soddisfatti.
Nella classifica internazionale della percezione della corruzione, l'Italia passa dal 61° al 60° posto, ma in Europa dietro di noi ci sono solo Grecia e Bulgaria. Siamo ancora lontani da un buon risultato. Sono le conclusioni che emergono dalla pubblicazione del Corruption Perception Index 2016 a cura di Transparency International.

lunedì 6 febbraio 2017

Terremoto, beffa in busta paga. "Fisco più leggero? Non per tutti"

DUE PAROLE, solo due, e migliaia di terremotati vedono andare in fumo quello che sembrava un assodato diritto alla cosiddetta ‘busta pesante’, ovvero lo stipendio maggiorato in media del 40 per cento su scala mensile per la temporanea sospensione di tributi nazionali e locali per il periodo 1° gennaio-30 settembre 2017, con tempi e modi dell’eventuale restituzione ancora tutti da stabilire.
Per la nuova maxi beffa, nell’Italia che tanto ama complicarsi la vita, basta la dicitura «sostituto d’imposta» inserita in un articolo del testo ratificato il 15 dicembre a mettere in crisi un intero sistema di aiuti alle popolazioni più colpite dal sisma del centro Italia. Al momento della trasformazione del decreto in legge pareva, infatti, scontato che il bonus della paga maggiorata in vigore da gennaio a settembre abbracciasse tutti i terremotati residenti nelle città inserite nel cosiddetto cratere sismico. Insomma, un abitante di Arquata o Camerino, di Norcia o San Severino si sentiva al sicuro, invece ecco l’inghippo di trascrizione che rende dirimente la sede legale del cosiddetto sostituto d’imposta, ovvero l’azienda o ente che eroga la busta paga al lavoratore.
CHE SUCCEDE, quindi? Un bel pasticcio, perché l’abitante di uno qualunque dei 131 comuni del cratere di colpo vede volatizzarsi il bonus qualora la sua azienda abbia domicilio fiscale in una località non ‘craterizzata’. E, badate bene, per com’è scritto, il provvedimento non colpisce solo chi lavora fuori della propria città, magari in un capoluogo di regione, dove presta servizio in enti statali, imprese di servizi o qualunque altra realtà. No, perché la beffa bussa direttamente in casa e può capitare che un operaio vada al lavoro in fabbrica o ufficio a fianco della propria abitazione, ma l’impresa abbia la sede fiscale fuori cratere e il pasticcio è servito a domicilio con tanto di bonus volatilizzato.
Ma a far scalpore è anche la diatriba in corso in queste ultime ore: secondo diverse interpretazioni, infatti, la beffa si estenderebbe alla totalità dei pensionati delle aree flagellate dal lunghissimo sciame sismico iniziato ad agosto, perché per tutti loro il «sostituto d’imposta» è l’Inps, la cui sede centrale si trova a Roma e dunque in una località esterna al perimetro delle località agevolate. Con buona pace degli anziani che con la pensione potenziata pro tempore pensavano di poter finalmente gestire con un minimo di respiro la delicata fase di ricostruzione e lento ritorno alla normalità.
IN REALTÀ, in cinque dei 131 comuni – quelli con il maggior numero di abitanti – il benefit riguarda solo chi ha l’abitazione inagibile, ma la beffa rimane tale perché sono già svariati i casi degli sfollati che lavorano per attività domiciliate fuori perimetro. Della mini lista dei cinque fa parte anche l’anconetana Fabriano, da dove è partita la crociata dell’ex sindaco Roberto Sorci che ha scritto un’accorata lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella manifestando profili di incostituzionalità e ribattezzandola legge strabica. «Eppure – spiega Sorci – basterebbero pochi minuti di lavoro in Parlamento: si ammette l’errore, si prende atto dell’equivoco generato e si modifica la norma, stavolta scrivendola in modo corretto, cioè inserendo come discriminante la residenza del soggetto fisico e non dell’ente o azienda per cui lavora. O forse è chiedere troppo?»

venerdì 3 febbraio 2017

IL SUICIDIO DELLA SINISTRA

Che incoscienza insopportabile. Amnesty International ci dice che dobbiamo “combattere il Muslim ban” perché il bigottismo di Trump sta distruggendo vite umane. Anthony Dimaggio di CounterPunch dice che Trump dovrebbe essere messo sotto impeachment perché la sua islamofobia è una minaccia per la Costituzione. Non voglio additare questi due in particolare, perché l’incoscienza è diffusa ovunque tra coloro che ragionano per appartenenza.
Si potrebbe pensare che Amnesty International dovrebbe battersi contro le guerre ai regimi fatte da Bush/Cheney/Obama, che hanno prodotto masse di rifugiati, uccidendo e mettendo in fuga milioni di musulmani. Per esempio, l’attuale guerra di Obama con lo Yemen ha provocato la morte di un bambino yemenita ogni 10 minuti, secondo l’UNICEF. Cosa dice a riguardo Amnesty International?
E’ chiaro che le guerre americane nei paesi musulmani rovinano molte più vite di quanto faccia il divieto di Trump agli immigrati. Perché allora ci si concentra su un divieto di immigrazione e non sulle guerre che producono i rifugiati? Forse perché il responsabile delle guerre è Obama, mentre il responsabile del divieto è Trump? Non è che i liberal / progressisti / sinistrorsi stanno proiettando i mostruosi crimini di Obama su Trump? Forse il problema è che dobbiamo odiare Trump e non Obama?
L’immigrazione non è un diritto protetto dalla Costituzione degli Stati Uniti. Dov’era Dimaggio quando nel nome della “guerra al terrore” le amministrazioni di Bush e Obama hanno distrutto le libertà civili garantite dalla Costituzione degli Stati Uniti? Se Dimaggio è un cittadino americano, dovrebbe provare a immigrare nel Regno Unito, in Germania o in Francia e vedere fin dove arriva.
Il modo più facile e sicuro per l’amministrazione Trump di porre fine al problema dei rifugiati, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per l’Europa e l’Occidente in generale, è di fermare le guerre contro i paesi islamici iniziate dal suo predecessore. Le enormi cifre dilapidate in guerre inutili potrebbero invece essere date ai paesi che gli Stati Uniti e la NATO hanno distrutto. La maniera più semplice per porre fine al problema dei rifugiati è di smetterla di produrre rifugiati. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di Trump, di Amnesty International e di Dimaggio.
Sono tutti troppo impegnati a odiare qualcuno per poter fare qualcosa di utile?
E’ veramente fastidioso constatare che i liberal / progressisti / sinistrorsi preferiscono opporsi a Trump che opporsi alla guerra. In effetti, vogliono una guerra a Trump. E questo sarebbe diverso dalle guerre di Bush e Obama ai musulmani?
I liberal / progressisti / sinistrorsi dimostrano un odio incosciente per il popolo americano e per il Presidente che il popolo ha eletto. Questo odio incosciente non può ottenere altro che il discredito di una voce alternativa e l’apertura di prospettive future per gli elementi più indesiderabili della destra.
I liberal / progressisti / sinistrorsi finiranno per screditare tutti i dissidenti, facendo il gioco di coloro ai quali si oppongono con più veemenza

giovedì 2 febbraio 2017

Il cibo avvelenato: ecco quanti pesticidi mangiamo

I dati lasciano poco spazio ai dubbi: su certi alimenti ci sono fino a 21 residui di principi chimici attivi e aumentano i campioni fuorilegge. I dati di Legambiente ci aprono gli occhi. Per fortuna cresce anche il biologico.
Il tè verde fa bene alla salute. A meno che non risulti contaminato da un mix di ben 21 differenti sostanze chimiche. Anche le bacche vanno molto di moda nelle diete attuali, peccato che alcuni campioni analizzati dall’attento laboratorio della Lombardia contenessero fino a 20 molecole chimiche differenti. Residui chimici in quantità sono stati rinvenuti anche nell’uva da tavola e da vino, tutta di provenienza nazionale, contaminata anche da 7, 8 o 9 sostanze contemporaneamente. Sebbene i prodotti fuorilegge (cioè con almeno un residuo chimico che supera i limiti di legge) siano solo una piccola percentuale (l’1,2% nel 2015, era lo 0,7% nel 2014), tra verdura, frutta e prodotti trasformati, la contaminazione da uno o più residui di pesticidi riguarda un terzo dei prodotti analizzati (36,4%).
Stop pesticidi , il dossier di Legambiente che raccoglie ed elabora i risultati delle analisi sulla contaminazione da fitofarmaci nei prodotti ortofrutticoli e trasformati, realizzati dalle Agenzie per la Protezione Ambientale, Istituti Zooprofilattici Sperimentali e ASL, è stato presentato a Roma e ha subito catturato l'attenzione dei consumatori.
Nonostante la crescente diffusione di tecniche agronomiche sostenibili, l’uso dei prodotti chimici per l’agricoltura in Italia rimane significativo. Sebbene la situazione tra il 2010 e il 2013 sia migliorata con un trend di diminuzione dell’uso pari al 10%, nel 2014 si è registrata una inversione di tendenza e il consumo di prodotti chimici nelle campagne è tornato a crescere, passando da 118 a circa 130 mila tonnellate rispetto all’anno precedente. In particolare, nel 2014, sono stati distribuiti circa 65 mila tonnellate (T) di fungicidi (10,3 mila T in più rispetto al 2013), 22,3 mila T di insetticidi e acaricidi, 24,2 mila T di erbicidi e infine 18,2 mila T di altri prodotti. Nel complesso, l’Italia si piazza al terzo posto in Europa nella vendita di pesticidi (con il 16,2%), dopo Spagna (19,9%) e Francia (19%), piazzandosi però al secondo posto per l’impiego di fungicidi.
In positivo, però, va segnalata la crescita delle aziende agricole che scelgono di non far ricorso ai pesticidi e di produrre secondo i criteri biologici e biodinamici, seguendo forme di agricoltura legate alle vocazioni dei territori, operando per salvaguardare le risorse naturali e la biodiversità grazie alla ricerca e all’innovazione. La superficie agricola biologica in Italia, infatti, tra il 2014 e il 2015 ha registrato un aumento del 7,5%.
“Lo studio presentato oggi - ha dichiarato la presidente di Legambiente Rossella Muroni - evidenzia in modo inequivocabile gli effetti di uno storico vuoto normativo: manca ancora una regolamentazione specifica rispetto al problema del simultaneo impiego di più principi attivi sul medesimo prodotto. Da qui la possibilità di definire “regolari”, e quindi di commercializzare senza problemi, prodotti contaminati da più principi chimici contemporaneamente se con concentrazioni entro i limiti di legge. Senza tenere conto dei possibili effetti sinergici tra le sostanze chimiche presenti nello stesso campione sulla salute delle persone e sull’ambiente. Eppure le alternative all’uso massiccio dei pesticidi non mancano. La crescita esponenziale dell’agricoltura biologica e delle pratiche agronomiche sostenibili sta dando un contributo importante alla riduzione dei fitofarmaci e al ripristino della biodiversità e alla salute dei suoli”.
“La terra, l’aria, l’acqua, il cibo, la salute sono di tutti, non solo di una categoria economica - ha dichiarato il presidente di Alce Nero Lucio Cavazzoni - Si tratta di un diritto fondamentale per una società civile, spesso celato da normative ipocrite che trascurano l’effettiva pericolosità della diffusione di tante molecole chimiche dannose. È dovere di tutti operare a 360 gradi per ridurre l’impatto della chimica di sintesi nell’ambiente e di cibi che possono recare danno alla salute: è tempo di passare ad azioni concrete per risultati concreti. L’importante termometro di Legambiente chiama tutti ad un’azione di responsabilità: non è sufficiente produrre cibo, si deve e si può produrre cibo sano, che nutra bene e sia buono per l’uomo e per l’ambiente. Che è la casa dell’uomo".
Anche quest’anno, la quantità dei residui di pesticidi che le Agenzie per la Protezione Ambientale e Istituti Zooprofilattici Sperimentali hanno rintracciato nei prodotti da agricoltura convenzionale, nei prodotti trasformati e miele, resta elevata: salgono leggermente i campioni irregolari (1,2% nel 2015, erano lo 0,7% del 2014); mentre i prodotti contaminati da uno o più residui contemporaneamente raggiungono il 36,4% del totale, più di un terzo dei campioni analizzati (9608 campioni), in leggero calo rispetto al 2014 (41,2%). La percentuale di campioni regolari senza alcun residuo invece, in leggero rialzo rispetto al 58% del 2014, si attesta al 62,4%.
Tra i casi eclatanti, i già citati prodotti di provenienza extra Ue come il tè verde con 21 residui chimici e le bacche con 20, ma anche il cumino con 14 diverse sostanze, le ciliegie con 13, le lattughe e i pomodori con 11 o l’uva con 9 principi attivi.
Ancora una volta la frutta è il comparto dove si registrano le percentuali più elevate di multiresiduo e le principali irregolarità. Ma il massiccio impiego di pesticidi non ha ricadute significative solo sulla salute delle persone. Una maggiore attenzione deve essere rivolta anche alle ricadute negative sull’ambiente. Nuove molecole e formulati sono stati immessi sul mercato senza un'adeguata conoscenza dei meccanismi di accumulo nel suolo, delle dinamiche di trasferimento e del destino a lungo termine nell’ambiente. Occorre valutare meglio gli effetti in termini di perdita di biodiversità, di riduzione della fertilità del terreno, di accelerazione del fenomeno di erosione dei suoli. Per le sostanze su cui non esiste ancora un parere unanime del mondo scientifico sui rischi, come per il famoso Glifosato, dovrebbe valere il principio di precauzione e il divieto di utilizzo.
Tra le sostanze attive più frequentemente rilevate: il Boscalid, il Penconazolo, l’Acetamiprid, il Metalaxil, il Ciprodinil, l’Imazalil e il Clorpirifos, sostanza riconosciuta come interferente endocrino, cioè capace di alterare il normale funzionamento del sistema endocrino e dannoso per l’organismo.
I dati di Stop pesticidi sono il frutto delle analisi condotte dai diversi laboratori pubblici italiani. Come sempre, vale il principio del ‘chi cerca trova’ e così le maggiori irregolarità sono state riscontrate dai laboratori più zelanti, che conducono il maggior numero dei controlli (Lombardia e l’ottima Emilia Romagna) contemplando il più alto numero delle sostanze da ricercare. Mancano invece all’appello i dati della Calabria, che non ha fornito alcuna informazione, e della regione Toscana, che ha fornito i dati in maniera disaggregata, non assimilabile al resto del rapporto.
Nel complesso, uva, fragole, pere e frutta esotica (soprattutto banane) sono i prodotti più spesso contaminati dalla presenza di residui di pesticidi.
Circa un terzo dei campioni (30,1%) analizzati dal laboratorio del Lazio, contiene uno o più residui di sostanze attive. Si arriva a combinazioni di 21 residui in un campione di foglie di tè verde, di cui 6 superano il limite di legge (Buprofezin, Imidacloprid, Iprodione, Piridaben, Triazofos, Acetamiprid) e 14 residui in un campione di semi di cumino, di cui 9 superano il limite (Carbendazim, Esaconazolo, Imidacloprid, Miclobutanil, Profenofos, Propiconazolo, Tiametoxam, Triazofos, Acetamiprid).
Come già accennato, l’uva risulta tra i prodotti maggiormente contaminati: tutti i campioni (12) analizzati dai laboratori del Friuli Venezia Giulia presentano uno o più residui; in Valle d’Aosta si è registrata una irregolarità per superamento del limite ammesso di Clorpirifos, due campioni regolari con un residuo (Clorpirifos) e quattro campioni regolari ma con multiresiduo. In Liguria in un campione regolare sono stati rilevati fino a sette residui (Boscalid, Ciprodinil, Clorpirifos, Imidacloprid, Metossifenozide, Pirimetanil, Fludioxonil) mentre in Puglia si è arrivati anche a 9. Situazione simile anche in Sardegna, dove l’uva da tavola risulta essere sempre contaminata da più residui, in Umbria (multiresiduo in 6 campioni su 7) e Veneto, che registra la presenza di multiresiduo nel 62,5% dei campioni di uva analizzati.
In Emilia Romagna risultano contaminate il 46,1% delle insalate e l’81,6% delle fragole (multiresiduo), mentre spiccano per numero di molecole presenti contemporaneamente un campione di ciliegie e uno di uva sultanina ‘in regola’ con 13 e 14 principi attivi. 15 le irregolarità rilevate: 8 su pere locali e 7 nel comparto verdura. Cocktail di sostanze attive si trovano anche in Lombardia con due campioni di bacche provenienti dalla Cina con 12 e 20 residui, mentre irregolarità per superamento dei limiti massimi consentiti dalla legge sono state segnalate dal laboratorio abruzzese (per eccesso di Clorpirifos in 3 campioni di pesche). Anche la regione Sicilia presenta 6 campioni irregolari, uno nel comparto verdura (cereali) e cinque nel comparto frutta. La regione Puglia ha rilevato 20 irregolarità tra cui 6 su campioni di melograno provenienti dalla Turchia.
«Eppure, proprio l’agricoltura potrebbe rappresentare il più importante alleato per affrontare le attuali sfide ambientali e per lo sviluppo di una nuova economia - dice Legambiente - Il primo passo è il rilancio di buone pratiche agricole attente alla complessità dei processi naturali e soprattutto capaci di innovare e sperimentare nuove tecnologie. Il motore di questo cambiamento, che include anche la riduzione dei pesticidi, è l’agricoltura biologica, con le sue molteplici varianti, come l’agricoltura biodinamica. I criteri dell'agricoltura biologica permettono infatti di sostituire l’intervento chimico con l’utilizzo dei meccanismi naturali contribuendo alla difesa delle piante e al ripristino della fertilità dei suoli e della biodiversità. Ci sono poi prodotti innovativi, come i biofumiganti, biostimolanti e corroboranti e metodi di gestione – consociazioni, rotazioni, sovesci, semina su sodo, minime lavorazioni del terreno e diserbo meccanico – che riducono il rischio di malattie delle piante e che inducono negli anni effetti benefici sulla struttura del suolo, sulla sua capacità di ritenzione idrica e sulla salute delle piante. Governo e Regioni dovrebbero investire maggiormente in ricerca e formazione per sostenere con maggior forza questo processo di cambiamento che è stato avviato».

mercoledì 1 febbraio 2017

la sinistra «obsoleta» che protesta contro Trump

Autorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato.
Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine. I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.
Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa.
Il quadro è desolante. Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).

La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e stabilità». La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».
Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito».
Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015.
Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di sta­bi­lità e dal Mini­stero dello sviluppo economico.
L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.