In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo
Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo
imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che
all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa
disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della
Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della
complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di
lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si
è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia. Forte mostra i
sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota
alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà –
che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a
dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita:
ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove.
Blog che parla dei fatti, degli avvenimenti e di tutto quello che riguarda il mio paese..Legnago...bisognoso di un forte rinnovamento politico ed amministrativo per potere svilupparsi e risorgere dalle paludi e dal decadimento in cui è caduto.
martedì 31 gennaio 2017
lunedì 30 gennaio 2017
Casa, metà dei proprietari denuncia affitti non pagati
Un fenomeno che la crisi ha accentuato rischia di diventare una
pericolosa abitudine: non pagare l'affitto di casa. Tanto che la metà
dei proprietari, il 51%, denuncia mensilità 'saltate'. E' quanto emerge
da un'indagine dell'Adnkronos, con il contributo delle associazioni
territoriali che rappresentano gli inquilini e i proprietari. Un dato,
per altro, che cresce leggermente rispetto alla stessa rilevazione del
marzo scorso, quando si attestava al 48%.
La situazione peggiora rispetto alla media nazionale in alcune aree del Sud, con Napoli e Palermo che arrivano a una quota di proprietari in credito vicina al 60%. Va meglio a Roma, 35%, e a Milano, dove la percentuale di proprietari che denuncia morosità si attesata al 24%.
Altrettanto eclatanti i dati che riguardano il mancato pagamento delle rate di condominio. Anche in questo caso, la crisi sembra aver contribuito a cristallizzare una cattiva abitudine. E si conferma un dato che, anche in questo caso, registra un incremento, seppure contenuto, rispetto a un anno fa: sale al 32%, dal 27%, la quota di condomini in ritardo con i pagamenti. Anche su questo fronte, le maggiori irregolarità si riscontrano al Sud. A Napoli, il 40% dei condomini è in debito con il proprio condominio. Mentre la quota scende al 23% a Roma e arriva a dimezzarsi a Milano, 18%.
La situazione peggiora rispetto alla media nazionale in alcune aree del Sud, con Napoli e Palermo che arrivano a una quota di proprietari in credito vicina al 60%. Va meglio a Roma, 35%, e a Milano, dove la percentuale di proprietari che denuncia morosità si attesata al 24%.
Altrettanto eclatanti i dati che riguardano il mancato pagamento delle rate di condominio. Anche in questo caso, la crisi sembra aver contribuito a cristallizzare una cattiva abitudine. E si conferma un dato che, anche in questo caso, registra un incremento, seppure contenuto, rispetto a un anno fa: sale al 32%, dal 27%, la quota di condomini in ritardo con i pagamenti. Anche su questo fronte, le maggiori irregolarità si riscontrano al Sud. A Napoli, il 40% dei condomini è in debito con il proprio condominio. Mentre la quota scende al 23% a Roma e arriva a dimezzarsi a Milano, 18%.
venerdì 27 gennaio 2017
LEADER UE E TRUMP: LA VERITÀ È CHE NON GLI PIACETE ABBASTANZA.
Alla
vigilia della sua presidenza, senza dire neanche una parola, Donald
Trump ha detto in faccia ai leader europei che non contano niente. Non
solo ha un’opinione sull’UE, e sulla sua rilevanza, molto diversa dalla
loro, ma non ha nemmeno dimenticato come molti di loro si sono espressi
nei suoi confronti durante la campagna elettorale.
Fatta eccezione per Nigel Farage e Marine Le Pen, tutti i leader europei hanno ridicolizzato e demonizzato apertamente Trump fin dal primo momento della sua candidatura. Gli insulti nei suoi riguardi erano simili a quelli generalmente riservati a Vladimir Putin, e, nella valanga di bufale che ha contrassegnato il 2016, i due sono spesso stati associati nei modi più disparati e per ragioni ipotizzate come evidenti, senza far mancare qua e là qualche grazioso riferimento a Hitler.
Adesso, chissà perché, sono tutti convinti che sia indispensabile incontrare Trump prima che questi incontri Putin, come se la sua concezione del mondo, e quella del suo stesso governo, fosse così instabile da potersi lasciare influenzare da un momento all’altro. Trump non ne vuole proprio sapere. E dopo essere stato paragonato a tutto il peggio possibile, chi può dargli torto?
Donald Trump ritiene, in gran parte a giusto titolo, che in troppi, soprattutto all’interno dell’UE, non si siano fatti troppi scrupoli nel disattendere il principio dell’innocenza fino a prova contraria. Di conseguenza, la verità è che oggi non gli piacciono abbastanza. Non gli hanno mostrato alcun rispetto, e lui queste cose non le dimentica. E da questo ne consegue una situazione assolutamente esilarante.
L’UE, come la cricca Obama/Clinton, si è impuntata su tutto e di più con Putin, e quindi per associazione – loro, non sua – anche con Trump. Non potevano mai immaginare che sarebbe stato eletto, e adesso non sanno più che pesci prendere (ma cominciare col chiedere scusa, ad esempio?).
AP News riferisce, anche se ancora una volta è necessario districarsi tra vaghe allusioni e supponenti scempiaggini (ma quando cresci, AP?):
Leader europei in affanno per ottenere udienza da Trump in tempi brevi
“I leader europei, preoccupati dall’imprevedibilità di Donald Trump e dalle sue amabili parole a sostegno del Cremlino, sono in affanno per cercare di ottenere un faccia a faccia con il nuovo Presidente americano prima che questi possa incontrare il Presidente russo Vladimir Putin, le cui provocazioni hanno creato scompiglio nel continente. Uno dei leader ha evocato la possibilità di un summit USA-EU per l’inizio dell’anno, ed anche il segretario generale della NATO — la potente alleanza militare considerata da Trump “obsoleta” — aspira ad incontrarlo personalmente prima che lo faccia Putin. Il Primo Ministro britannico Theresa May sta intanto organizzando un incontro a Washington poco dopo il venerdì dell’inaugurazione.
Per i Capi di stato europei, un meeting con il neo-eletto Presidente americano è un invito sempre molto ambito — e generalmente facile da ottenere. Ma Trump ha più volte infranto la prassi, e ciò li rende profondamente incerti circa la loro posizione dopo il suo insediamento. Durante tutta la sua campagna elettorale, e nelle più recenti interviste, Trump ha sempre messo in discussione la validità dell’UE e della NATO, elogiando nel contempo Putin e rivendicando posizioni in linea più con Mosca che con Bruxelles. “Sono in atto alcune iniziative da parte degli europei mirate a definire un incontro con Trump quanto prima,” ha dichiarato ad AP Norbert Roettgen, presidente della Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento tedesco e membro del partito della Cancelliera Angela Merkel.
Stando alle dichiarazioni di un funzionario dell’Unione europea, anche Donald Tusk — l’ex-Primo Ministro polacco che presiede il Consiglio europeo— mosso dal desiderio di dare una prima dimostrazione della solidarietà transatlantica, ha invitato Trump ad incontrare l’UE all’inizio del mandato. Ma un consigliere senior di Trump ha praticamente declinato l’offerta, rivelando ad AP che un tale incontro non è una priorità per il neoeletto Presidente, che preferisce concentrarsi sugli incontri con i singoli paesi, piuttosto che con il blocco di 28 nazioni.
Trump appoggia l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, individuando nei movimenti populistici anti-sistema i precursori della sua vittoria. In una recente intervista rilasciata a due quotidiani europei, parlando dell’UE Trump ha dichiarato. “non penso che conti molto per gli Stati Uniti.”
Fin qui tutto bene, ma poi ricomincia la retorica. Solo che loro chiamano ‘retorica’ le parole di Trump:
“Già soltanto la sua retorica sarebbe bastata a far suonare l’allarme in tutta Europa. Per di più, l’elogio di Trump a Putin e la promessa di rinsaldare i legami con Mosca hanno accentuato le perplessità. Trump ha evocato la possibilità di abolire le sanzioni contro Mosca ed è sembrato indifferente all’annessione territoriale dell’Ucraina da parte della Russia. L’hackeraggio degli avversari durante le elezioni presidenziali, ed il fatto che Trump abbia ignorato le segnalazioni della CIA sul ruolo della Russia, hanno poi aggiunto un tocco di spy story.
Le opinioni di Trump segnano una drammatica svolta nella visione repubblicana dell’Europa, appena una generazione dopo il famoso saluto di George H.W.Bush alla caduta della Cortina di Ferro, al grido di un’“Europa libera e unita.” Secondo quanto riportato da addetti alla fase di transizione, il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è in stretto contatto con l’ambasciatore russo negli USA, e questi dialoghi hanno per oggetto la preparazione di un incontro telefonico tra Putin ed il Presidente neo-eletto. Tuttavia, secondo un alto funzionario che ha insistito per rimanere anonimo come condizione per parlare della programmazione interna del team di transizione, Trump non prevede al momento di incontrare Putin.”
E perché mai Trump NON dovrebbe incontrare Putin? Forse per tutte le ingiurie senza fondamento con le quali i suoi avversari lo hanno subissato nel tentativo di deragliare la sua corsa? Casomai, proprio per questo dovrebbe essere ancora più determinato ad organizzare un tale incontro. Come se non bastasse, c’è parecchio lavoro di ricucitura da fare nei rapporti USA-Russia, dopo i danni causati dalla precedente amministrazione e dalla stampa, con la quale intratteneva una corrispondenza di amorosi sensi.
“[..] Alcuni membri dello staff hanno segnalato che uno dei primi incontri con Capi di stato stranieri alla Casa Bianca sarà con la May, Primo Ministro britannico insediatasi dopo il voto per l’uscita dall’UE. Il team del Presidente sta anche organizzando incontri a breve a Washington con i leader del Messico e del Canada, sempre secondo il consigliere di Trump. Salvo ulteriori preparativi, il primo incontro dell’anno tra Trump e Putin potrebbe non avvenire prima di luglio, quando i leader del Gruppo dei 20 si riuniranno ad Amburgo, in Germania — peraltro Trump non ha ancora confermato la sua presenza ai summit internazionali.
Se deciderà di esserci, alcuni leader europei potrebbero riuscire ad avere un faccia a faccia con lui a maggio, durante il previsto summit della NATO, oppure durante il meeting del più ristretto G7 in Italia. La Russia in passato ha fatto parte di quel gruppo, ma gli USA e l’Europa hanno allontanato Putin dopo l’annessione della Crimea dall’Ucraina. Se Trump dovesse adoperarsi per riportare la Russia all’interno, questa potrebbe essere una delle prime opportunità per capire da che parte sta.
“Se si inizia a porre sullo stesso piano democrazie e regimi non-democratici, alleati e avversari, si finisce col creare un pericoloso precedente,” ha detto Heather Conley, responsabile per il programma europeo del Center for Strategic and International Studies. Ha poi aggiunto che se Trump, una volta insediato, dovesse parlare con Putin prima che con gli europei, “questo dovrebbe mettere in guardia” gli alleati di lunga data degli Stati Uniti.
Gente! Avete perso! E di brutto. Datevi un contegno. Il mondo è cambiato. O vi adattate, o sparite. Ma qualcosa mi dice che il processo di adattamento potrebbe rivelarsi troppo duro per una parte degli attuali leader europei. Inevitabilmente, molti di loro non saranno leader molto a lungo.
Se Trump si avvicina a Putin, l’Europa non potrà che seguirlo. L’atteggiamento guerrafondaio dell’ultimo decennio dovrà cambiare. E non sarà certo facile per quei leader, che hanno coperto entrambi gli uomini dei peggiori insulti possibili. Chi non ce la farà sarà costretto ad andarsene. Ad esempio, Juncker:
Giù le mani dall’UE, Trump; Noi non sobilliamo l’Ohio alla secessione: Juncker
“Donald Trump dovrebbe smetterla di parlare della dissoluzione dell’Unione europea, ha detto mercoledì scorso il Capo dell’esecutivo, sottolineando che gli europei non spingerebbero mai l’Ohio ad uscire dagli Sati Uniti. Con taglienti battute fatte alla vigilia dell’inaugurazione della presidenza Trump, Jean-Claude Juncker si è detto convinto che la nuova amministrazione capirà come non sia opportuno compromettere i rapporti transatlantici, ma ha anche aggiunto che la direzione intrapresa da Trump rimane incerta.
Juncker ha dichiarato alla televisione tedesca BR, come si evince da una trascrizione dell’emittente di Monaco, di essere convinto che nessuno stato dell’UE intenda seguire l’esempio dell’Inghilterra e lasciare l’Unione, nonostante Trump abbia pronosticato nella stessa settimana che altri avrebbero abbandonato: “Trump non dovrebbe nemmeno incoraggiarli indirettamente a farlo,” ha detto Juncker. “Noi non andremmo mai ad aizzare l’Ohio perché esca dagli Stati Uniti.”
Il Presidente della Commissione europea Juncker ha poi precisato di non aver ancora parlato con Trump – contrariamente a quanto sostenuto dal neo-eletto Presidente all’inizio di questa settimana. Secondo Juncker, Trump deve averlo scambiato con il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. “Trump ha parlato con Tusk e ci ha confusi l’uno con l’altro,” ha detto Juncker, lanciando una frecciatina in riferimento alla poca dimestichezza che il miliardario americano avrebbe con il suo nuovo ruolo. “Questa è una caratteristica della politica internazionale,” ha detto. “Sta tutto nei dettagli.”
È invece lampante che, in diversi paesi, una parte crescente della società civile e delle sfere politiche stia pensando e pianificando come seguire l’esempio degli inglesi. Junker farebbe meglio ad ascoltare le loro istanze piuttosto che cercare di ignorarle e negarle, se non vuole garantirsi di ottenere l’esatto contrario di quello che auspica.
La stessa elezione di Donald Trump è un segno inequivocabile di come molte cose nel mondo stiano andando molto male. La Brexit è un altro segnale che va nella stessa direzione. Dietro l’angolo, le prossime elezioni e consultazioni europee sono in agguato. Non importa neanche chi vincerà: gli scarti rischiano in molti casi di essere troppo di misura perché l’attuale establishment possa sentirsi al sicuro.
Nel frattempo, godendosi da fuori lo spettacolo, è impossibile rimanere seri mentre la retorica e le azioni stesse del vecchio assetto mondiale oggi gli si ritorcono contro. E tutto questo non c’entra nulla con l’essere pro-Trump o pro-Le Pen.
Fatta eccezione per Nigel Farage e Marine Le Pen, tutti i leader europei hanno ridicolizzato e demonizzato apertamente Trump fin dal primo momento della sua candidatura. Gli insulti nei suoi riguardi erano simili a quelli generalmente riservati a Vladimir Putin, e, nella valanga di bufale che ha contrassegnato il 2016, i due sono spesso stati associati nei modi più disparati e per ragioni ipotizzate come evidenti, senza far mancare qua e là qualche grazioso riferimento a Hitler.
Adesso, chissà perché, sono tutti convinti che sia indispensabile incontrare Trump prima che questi incontri Putin, come se la sua concezione del mondo, e quella del suo stesso governo, fosse così instabile da potersi lasciare influenzare da un momento all’altro. Trump non ne vuole proprio sapere. E dopo essere stato paragonato a tutto il peggio possibile, chi può dargli torto?
Donald Trump ritiene, in gran parte a giusto titolo, che in troppi, soprattutto all’interno dell’UE, non si siano fatti troppi scrupoli nel disattendere il principio dell’innocenza fino a prova contraria. Di conseguenza, la verità è che oggi non gli piacciono abbastanza. Non gli hanno mostrato alcun rispetto, e lui queste cose non le dimentica. E da questo ne consegue una situazione assolutamente esilarante.
L’UE, come la cricca Obama/Clinton, si è impuntata su tutto e di più con Putin, e quindi per associazione – loro, non sua – anche con Trump. Non potevano mai immaginare che sarebbe stato eletto, e adesso non sanno più che pesci prendere (ma cominciare col chiedere scusa, ad esempio?).
AP News riferisce, anche se ancora una volta è necessario districarsi tra vaghe allusioni e supponenti scempiaggini (ma quando cresci, AP?):
Leader europei in affanno per ottenere udienza da Trump in tempi brevi
“I leader europei, preoccupati dall’imprevedibilità di Donald Trump e dalle sue amabili parole a sostegno del Cremlino, sono in affanno per cercare di ottenere un faccia a faccia con il nuovo Presidente americano prima che questi possa incontrare il Presidente russo Vladimir Putin, le cui provocazioni hanno creato scompiglio nel continente. Uno dei leader ha evocato la possibilità di un summit USA-EU per l’inizio dell’anno, ed anche il segretario generale della NATO — la potente alleanza militare considerata da Trump “obsoleta” — aspira ad incontrarlo personalmente prima che lo faccia Putin. Il Primo Ministro britannico Theresa May sta intanto organizzando un incontro a Washington poco dopo il venerdì dell’inaugurazione.
Per i Capi di stato europei, un meeting con il neo-eletto Presidente americano è un invito sempre molto ambito — e generalmente facile da ottenere. Ma Trump ha più volte infranto la prassi, e ciò li rende profondamente incerti circa la loro posizione dopo il suo insediamento. Durante tutta la sua campagna elettorale, e nelle più recenti interviste, Trump ha sempre messo in discussione la validità dell’UE e della NATO, elogiando nel contempo Putin e rivendicando posizioni in linea più con Mosca che con Bruxelles. “Sono in atto alcune iniziative da parte degli europei mirate a definire un incontro con Trump quanto prima,” ha dichiarato ad AP Norbert Roettgen, presidente della Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento tedesco e membro del partito della Cancelliera Angela Merkel.
Stando alle dichiarazioni di un funzionario dell’Unione europea, anche Donald Tusk — l’ex-Primo Ministro polacco che presiede il Consiglio europeo— mosso dal desiderio di dare una prima dimostrazione della solidarietà transatlantica, ha invitato Trump ad incontrare l’UE all’inizio del mandato. Ma un consigliere senior di Trump ha praticamente declinato l’offerta, rivelando ad AP che un tale incontro non è una priorità per il neoeletto Presidente, che preferisce concentrarsi sugli incontri con i singoli paesi, piuttosto che con il blocco di 28 nazioni.
Trump appoggia l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, individuando nei movimenti populistici anti-sistema i precursori della sua vittoria. In una recente intervista rilasciata a due quotidiani europei, parlando dell’UE Trump ha dichiarato. “non penso che conti molto per gli Stati Uniti.”
Fin qui tutto bene, ma poi ricomincia la retorica. Solo che loro chiamano ‘retorica’ le parole di Trump:
“Già soltanto la sua retorica sarebbe bastata a far suonare l’allarme in tutta Europa. Per di più, l’elogio di Trump a Putin e la promessa di rinsaldare i legami con Mosca hanno accentuato le perplessità. Trump ha evocato la possibilità di abolire le sanzioni contro Mosca ed è sembrato indifferente all’annessione territoriale dell’Ucraina da parte della Russia. L’hackeraggio degli avversari durante le elezioni presidenziali, ed il fatto che Trump abbia ignorato le segnalazioni della CIA sul ruolo della Russia, hanno poi aggiunto un tocco di spy story.
Le opinioni di Trump segnano una drammatica svolta nella visione repubblicana dell’Europa, appena una generazione dopo il famoso saluto di George H.W.Bush alla caduta della Cortina di Ferro, al grido di un’“Europa libera e unita.” Secondo quanto riportato da addetti alla fase di transizione, il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è in stretto contatto con l’ambasciatore russo negli USA, e questi dialoghi hanno per oggetto la preparazione di un incontro telefonico tra Putin ed il Presidente neo-eletto. Tuttavia, secondo un alto funzionario che ha insistito per rimanere anonimo come condizione per parlare della programmazione interna del team di transizione, Trump non prevede al momento di incontrare Putin.”
E perché mai Trump NON dovrebbe incontrare Putin? Forse per tutte le ingiurie senza fondamento con le quali i suoi avversari lo hanno subissato nel tentativo di deragliare la sua corsa? Casomai, proprio per questo dovrebbe essere ancora più determinato ad organizzare un tale incontro. Come se non bastasse, c’è parecchio lavoro di ricucitura da fare nei rapporti USA-Russia, dopo i danni causati dalla precedente amministrazione e dalla stampa, con la quale intratteneva una corrispondenza di amorosi sensi.
“[..] Alcuni membri dello staff hanno segnalato che uno dei primi incontri con Capi di stato stranieri alla Casa Bianca sarà con la May, Primo Ministro britannico insediatasi dopo il voto per l’uscita dall’UE. Il team del Presidente sta anche organizzando incontri a breve a Washington con i leader del Messico e del Canada, sempre secondo il consigliere di Trump. Salvo ulteriori preparativi, il primo incontro dell’anno tra Trump e Putin potrebbe non avvenire prima di luglio, quando i leader del Gruppo dei 20 si riuniranno ad Amburgo, in Germania — peraltro Trump non ha ancora confermato la sua presenza ai summit internazionali.
Se deciderà di esserci, alcuni leader europei potrebbero riuscire ad avere un faccia a faccia con lui a maggio, durante il previsto summit della NATO, oppure durante il meeting del più ristretto G7 in Italia. La Russia in passato ha fatto parte di quel gruppo, ma gli USA e l’Europa hanno allontanato Putin dopo l’annessione della Crimea dall’Ucraina. Se Trump dovesse adoperarsi per riportare la Russia all’interno, questa potrebbe essere una delle prime opportunità per capire da che parte sta.
“Se si inizia a porre sullo stesso piano democrazie e regimi non-democratici, alleati e avversari, si finisce col creare un pericoloso precedente,” ha detto Heather Conley, responsabile per il programma europeo del Center for Strategic and International Studies. Ha poi aggiunto che se Trump, una volta insediato, dovesse parlare con Putin prima che con gli europei, “questo dovrebbe mettere in guardia” gli alleati di lunga data degli Stati Uniti.
Gente! Avete perso! E di brutto. Datevi un contegno. Il mondo è cambiato. O vi adattate, o sparite. Ma qualcosa mi dice che il processo di adattamento potrebbe rivelarsi troppo duro per una parte degli attuali leader europei. Inevitabilmente, molti di loro non saranno leader molto a lungo.
Se Trump si avvicina a Putin, l’Europa non potrà che seguirlo. L’atteggiamento guerrafondaio dell’ultimo decennio dovrà cambiare. E non sarà certo facile per quei leader, che hanno coperto entrambi gli uomini dei peggiori insulti possibili. Chi non ce la farà sarà costretto ad andarsene. Ad esempio, Juncker:
Giù le mani dall’UE, Trump; Noi non sobilliamo l’Ohio alla secessione: Juncker
“Donald Trump dovrebbe smetterla di parlare della dissoluzione dell’Unione europea, ha detto mercoledì scorso il Capo dell’esecutivo, sottolineando che gli europei non spingerebbero mai l’Ohio ad uscire dagli Sati Uniti. Con taglienti battute fatte alla vigilia dell’inaugurazione della presidenza Trump, Jean-Claude Juncker si è detto convinto che la nuova amministrazione capirà come non sia opportuno compromettere i rapporti transatlantici, ma ha anche aggiunto che la direzione intrapresa da Trump rimane incerta.
Juncker ha dichiarato alla televisione tedesca BR, come si evince da una trascrizione dell’emittente di Monaco, di essere convinto che nessuno stato dell’UE intenda seguire l’esempio dell’Inghilterra e lasciare l’Unione, nonostante Trump abbia pronosticato nella stessa settimana che altri avrebbero abbandonato: “Trump non dovrebbe nemmeno incoraggiarli indirettamente a farlo,” ha detto Juncker. “Noi non andremmo mai ad aizzare l’Ohio perché esca dagli Stati Uniti.”
Il Presidente della Commissione europea Juncker ha poi precisato di non aver ancora parlato con Trump – contrariamente a quanto sostenuto dal neo-eletto Presidente all’inizio di questa settimana. Secondo Juncker, Trump deve averlo scambiato con il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. “Trump ha parlato con Tusk e ci ha confusi l’uno con l’altro,” ha detto Juncker, lanciando una frecciatina in riferimento alla poca dimestichezza che il miliardario americano avrebbe con il suo nuovo ruolo. “Questa è una caratteristica della politica internazionale,” ha detto. “Sta tutto nei dettagli.”
È invece lampante che, in diversi paesi, una parte crescente della società civile e delle sfere politiche stia pensando e pianificando come seguire l’esempio degli inglesi. Junker farebbe meglio ad ascoltare le loro istanze piuttosto che cercare di ignorarle e negarle, se non vuole garantirsi di ottenere l’esatto contrario di quello che auspica.
La stessa elezione di Donald Trump è un segno inequivocabile di come molte cose nel mondo stiano andando molto male. La Brexit è un altro segnale che va nella stessa direzione. Dietro l’angolo, le prossime elezioni e consultazioni europee sono in agguato. Non importa neanche chi vincerà: gli scarti rischiano in molti casi di essere troppo di misura perché l’attuale establishment possa sentirsi al sicuro.
Nel frattempo, godendosi da fuori lo spettacolo, è impossibile rimanere seri mentre la retorica e le azioni stesse del vecchio assetto mondiale oggi gli si ritorcono contro. E tutto questo non c’entra nulla con l’essere pro-Trump o pro-Le Pen.
giovedì 26 gennaio 2017
Orgoglio civile
Si parla di protezione civile solo in occasione dei disastri
ambientali ai quali purtroppo l’Italia ci sta insegnando ad abituarci
sempre più spesso. Nel dettaglio il Dipartimento della Protezione Civile
è la struttura preposta al coordinamento delle politiche e delle
attività in tema di protezione civile, fa capo alla Presidenza del
Consiglio e si occupa a livello nazionale della previsione, prevenzione,
gestione e superamento di disastri, calamità, umane e naturali, di
situazioni di emergenza. Sono numerosi i fallimenti attribuiti alla
protezione civile negli ultimi mesi, a cominciare dalla promessa mancata
di dare le case ai terremotati del 24 agosto, ai clamorosi ritardi dei
soccorsi degli ultimi giorni. Ma è veramente colpa degli uomini della
protezione civile? Il governo Monti nel 2012, tra le altre cose, varò
una riforma strutturale della protezione civile modificandone risorse e
organizzazione. Rispetto alla precedente legge 225/1992, viene
introdotta una durata di riferimento (non tassativa) e l’obbligo di
accordo con la Regione interessata, circa la proclamazione dello stato
d’emergenza. La norma limita anche l’utilizzo delle ordinanze emanate
dalla protezione civile. La protezione civile di oggi non ha nulla a che
fare con quella di Bertolaso e di Berlusconi, quella dei Grandi Eventi.
A quei tempi da istituto privato di diritto pubblico, la protezione
civile poteva continuare ad emettere ordinanze immediatamente esecutive e
a trattare in modo paritetico con le pubbliche amministrazioni
italiane, senza essere più soggetta all’obbligo dell’assunzione
esclusivamente tramite concorso pubblico, ma anche con chiamata diretta e
nominativa, alle leggi antitrust per le gare d’appalto e al controllo
preventivo contabile della Corte dei conti. La possibilità di derogare i
concorsi pubblici secondo alcuni favorirebbe la meritocrazia e risorse
umane di valore, per altri un sistema clientelare privo di controlli,
come si è verificato spesso con la privatizzazione di società
municipalizzate. Con Bertolaso le cose andavano diversamente da adesso,
nel bene e nel male: i troppi poteri nelle sue mani hanno fatto sì che
ci fossero problemi con le gare e gli appalti nel caso del terremoto de
L’Aquila, ma il grande potere di cui disponeva ha fatto in modo di
consegnare ai terremotati d’Abruzzo la famigerata “new town” in appena
100 giorni. In poco più di tre mesi furono realizzate 5.653 abitazioni,
4.449 in muratura, 1.204 in legno per circa 25 mila sfollati (più del
doppio rispetto a quelli del terremoto di questi mesi).
Le case della “new town” realizzate per un uso temporaneo sono ad oggi risultate di grande utilità per i loro residenti, del progetto C.A.S.A infatti, hanno scritto di tutto, ma non che permette a gente che ha vissuto l’inferno di dormire sonni tranquilli in delle case, magari non bellissime, ma costruite con l’ultima tecnologia antisismica ed oggi è l’unica cosa che conta. I terremoti recenti, non accennano a diminuire e con le scosse anche l’emergenza che ne deriva. A fronte di una situazione decisamente più precaria e instabile le risposte delle istituzioni sono invece tardive e di pura facciata. Nomine su nomine, che vanno a sovrapporre i poteri e a rendere la catena di comando sempre più confusionaria e complicata. L’ex direttore generale della protezione civile Agostino Miozzo, chiarisce brevemente il problema che si è andato a creare dopo la nomina di Vasco Errani a commissario speciale: “la gestione dell’emergenza non è un tavolo di discussione politica, la gestione dell’emergenza non può essere configurata come una democrazia assembleare: non c’è democrazia nel governo delle emergenze. E ci deve essere una sola persona che prende decisioni, che comanda, per poi rispondere e dar conto delle decisioni prese, ed eventualmente pagare se ha sbagliato”. Anche il depotenziamento dei poteri decisionali della protezione civile ha avuto i suoi effetti: “Se si considerava necessario disporre di dieci o venti turbine il capo della Protezione civile avrebbe dovuto essere nelle condizioni di poterle comprare, affittare o persino requisire alle regioni del nord, per esempio, dove oggi non c’è una necessità immediata. Se le previsioni dicono che arriveranno due metri di neve, allora devi prepararti e portare i mezzi necessari dal nord o dal sud Italia, o magari richiederli dall’estero. Questo potere deve essere in mano al capo della Protezione civile”.
Finita l’epoca di Bertolaso la Protezione Civile nazionale è stata smantellata, Sindaci e Regioni si sono ritrovate troppe responsabilità. Non è colpa degli uomini e delle donne della Protezione civile italiana e dei loro ottimi dirigenti, ma senza fondi e senza poteri esecutivi non si riesce a dare il supporto immediato e di impatto che serve ai cittadini colpiti dal terremoto. Un altro problema che ricade direttamente sulle emergenze è quello dei vincoli europei sugli investimenti e sul Patto di stabilità che impedisce alle strutture pubbliche centrali e periferiche di fare la manutenzione necessaria a prevenire i rischi sismici e idrogeologici. L’Italia rischia moltissimo e diventa fondamentale risolvere il problema di escludere dai vincoli dell’Euro tutti gli interventi necessari non solo per l’emergenza, ma per la ricostruzione e soprattutto per la prevenzione. Le scelte politiche fatte in questi anni, drammaticamente, si ripercuotono non solo sulle nostre tasche, ma anche sulla vita della popolazione, in un Paese in cui l’emergenza terremoto sta diventando quotidianità. Se il terremoto non si può prevedere, il maltempo, quello sì. Sembra diventata una cantilena, ma è tristemente vero: perché le strade sono rimaste ricoperte di neve così a lungo? I comuni colpiti dal sisma non hanno né soldi né competenze, perché la responsabilità è della Protezione civile, che oggi deve accordarsi con gli enti, un tempo la competenza sarebbe stata quasi sempre delle Province, le stesse soppresse dal governo Renzi, lasciando le regioni e i comuni a scambiarsi oneri e colpe. Oggi invece, niente responsabili, niente direttive e niente fondi.
Ancora peggio è stata gestita l’emergenza del Rigopiano, l’albergo sommerso da una valanga prevista da un’emergenza valanghe 4 su 5. La tragedia ancora non si è finita di compiere perché dopo quasi una settimana, le operazioni di soccorso, e forse tristemente di recupero cadaveri oramai, sono ancora in alto mare e questo per tantissimi motivi. Al di là delle polemiche sui panini con la nutella dati da mangiare agli operatori della protezione civile, il dramma vero è rappresentato dal fatto che i pompieri inviati sul luogo della disgrazia sono solo 40, il personale è talmente poco che una “vasta area dell’hotel non è stata ancora battuta”. “Ci vorrebbe un esercito”, si sfogano i pompieri. E invece niente esercito, come manca la luce di notte senza la quale non si può lavorare. “Eppure – denuncia Marco Piergallini, pompiere e sindacalista Conapo – basterebbe mettere delle torri-luce per lavorare anche la notte. Siamo sempre gli stessi, ogni tanto chi si stancava a riposare un’oretta. Non c’è nemmeno un bagno chimico, e siamo in tanti qui, tra carabinieri, guardia di finanza, volontari, poliziotti, soccorso alpino e noi pompieri. La pipì la facciamo nella neve, per tutto il resto c’è il bosco”.
Gli eroi della protezione civile, perché così vanno chiamati, non fanno questo mestiere certamente per i soldi. Il governo in un solo anno ha tagliato 71 milioni di fondi e lo stipendio medio, anche a fine carriera non supera i 1800 euro mensili. Inoltre i vigili del fuoco, quelli che più rischiano la vita per proteggere la popolazione sono il corpo meno retribuito e più penalizzato in quanto a pensioni. In un sistema che non funziona sono gli uomini a funzionare e a colmare le lacune che le istituzioni hanno creato. Nell’incredibilità di questa situazione, 12 soccorritori hanno percorso chilometri sotto la tormenta in salita con gli sci ai piedi, diretti verso l’albergo ricoperto dalla slavina, altrimenti irraggiungibile. E non sono i soli a compiere ogni giorno sforzi sovrumani per puro senso di comunità e altruismo
Non sono mancati in questi giorni gli episodi di sciacallaggio politico e o di strumentalizzazione. Da Salvini che accusa il governo di politicizzare la protezione civile, dichiarandola inefficiente, allo stesso governo che difende il proprio lavoro svolto arrampicandosi sugli specchi e scaricando le responsabilità. Come reagisce a tutto questo il premier Gentiloni? Predisponendo un ampliamento dei poteri alla protezione civile e al commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani, non capendo che questa decisione non comporterà nessun miglioramento della situazione. La responsabilità del disastro emergenziale tra le migliaia di persone isolate a causa della neve, la tragedia della slavina all’albergo Rigopiano e tutte le polemiche che ne sono susseguite non sono da imputare alle responsabilità del singolo, ma ad un sistema che si sta dimostrando sempre più inesorabilmente fallimentare. E come spesso è capitato, di questo bisogna ringraziare il governo Monti
Le case della “new town” realizzate per un uso temporaneo sono ad oggi risultate di grande utilità per i loro residenti, del progetto C.A.S.A infatti, hanno scritto di tutto, ma non che permette a gente che ha vissuto l’inferno di dormire sonni tranquilli in delle case, magari non bellissime, ma costruite con l’ultima tecnologia antisismica ed oggi è l’unica cosa che conta. I terremoti recenti, non accennano a diminuire e con le scosse anche l’emergenza che ne deriva. A fronte di una situazione decisamente più precaria e instabile le risposte delle istituzioni sono invece tardive e di pura facciata. Nomine su nomine, che vanno a sovrapporre i poteri e a rendere la catena di comando sempre più confusionaria e complicata. L’ex direttore generale della protezione civile Agostino Miozzo, chiarisce brevemente il problema che si è andato a creare dopo la nomina di Vasco Errani a commissario speciale: “la gestione dell’emergenza non è un tavolo di discussione politica, la gestione dell’emergenza non può essere configurata come una democrazia assembleare: non c’è democrazia nel governo delle emergenze. E ci deve essere una sola persona che prende decisioni, che comanda, per poi rispondere e dar conto delle decisioni prese, ed eventualmente pagare se ha sbagliato”. Anche il depotenziamento dei poteri decisionali della protezione civile ha avuto i suoi effetti: “Se si considerava necessario disporre di dieci o venti turbine il capo della Protezione civile avrebbe dovuto essere nelle condizioni di poterle comprare, affittare o persino requisire alle regioni del nord, per esempio, dove oggi non c’è una necessità immediata. Se le previsioni dicono che arriveranno due metri di neve, allora devi prepararti e portare i mezzi necessari dal nord o dal sud Italia, o magari richiederli dall’estero. Questo potere deve essere in mano al capo della Protezione civile”.
Finita l’epoca di Bertolaso la Protezione Civile nazionale è stata smantellata, Sindaci e Regioni si sono ritrovate troppe responsabilità. Non è colpa degli uomini e delle donne della Protezione civile italiana e dei loro ottimi dirigenti, ma senza fondi e senza poteri esecutivi non si riesce a dare il supporto immediato e di impatto che serve ai cittadini colpiti dal terremoto. Un altro problema che ricade direttamente sulle emergenze è quello dei vincoli europei sugli investimenti e sul Patto di stabilità che impedisce alle strutture pubbliche centrali e periferiche di fare la manutenzione necessaria a prevenire i rischi sismici e idrogeologici. L’Italia rischia moltissimo e diventa fondamentale risolvere il problema di escludere dai vincoli dell’Euro tutti gli interventi necessari non solo per l’emergenza, ma per la ricostruzione e soprattutto per la prevenzione. Le scelte politiche fatte in questi anni, drammaticamente, si ripercuotono non solo sulle nostre tasche, ma anche sulla vita della popolazione, in un Paese in cui l’emergenza terremoto sta diventando quotidianità. Se il terremoto non si può prevedere, il maltempo, quello sì. Sembra diventata una cantilena, ma è tristemente vero: perché le strade sono rimaste ricoperte di neve così a lungo? I comuni colpiti dal sisma non hanno né soldi né competenze, perché la responsabilità è della Protezione civile, che oggi deve accordarsi con gli enti, un tempo la competenza sarebbe stata quasi sempre delle Province, le stesse soppresse dal governo Renzi, lasciando le regioni e i comuni a scambiarsi oneri e colpe. Oggi invece, niente responsabili, niente direttive e niente fondi.
Ancora peggio è stata gestita l’emergenza del Rigopiano, l’albergo sommerso da una valanga prevista da un’emergenza valanghe 4 su 5. La tragedia ancora non si è finita di compiere perché dopo quasi una settimana, le operazioni di soccorso, e forse tristemente di recupero cadaveri oramai, sono ancora in alto mare e questo per tantissimi motivi. Al di là delle polemiche sui panini con la nutella dati da mangiare agli operatori della protezione civile, il dramma vero è rappresentato dal fatto che i pompieri inviati sul luogo della disgrazia sono solo 40, il personale è talmente poco che una “vasta area dell’hotel non è stata ancora battuta”. “Ci vorrebbe un esercito”, si sfogano i pompieri. E invece niente esercito, come manca la luce di notte senza la quale non si può lavorare. “Eppure – denuncia Marco Piergallini, pompiere e sindacalista Conapo – basterebbe mettere delle torri-luce per lavorare anche la notte. Siamo sempre gli stessi, ogni tanto chi si stancava a riposare un’oretta. Non c’è nemmeno un bagno chimico, e siamo in tanti qui, tra carabinieri, guardia di finanza, volontari, poliziotti, soccorso alpino e noi pompieri. La pipì la facciamo nella neve, per tutto il resto c’è il bosco”.
Gli eroi della protezione civile, perché così vanno chiamati, non fanno questo mestiere certamente per i soldi. Il governo in un solo anno ha tagliato 71 milioni di fondi e lo stipendio medio, anche a fine carriera non supera i 1800 euro mensili. Inoltre i vigili del fuoco, quelli che più rischiano la vita per proteggere la popolazione sono il corpo meno retribuito e più penalizzato in quanto a pensioni. In un sistema che non funziona sono gli uomini a funzionare e a colmare le lacune che le istituzioni hanno creato. Nell’incredibilità di questa situazione, 12 soccorritori hanno percorso chilometri sotto la tormenta in salita con gli sci ai piedi, diretti verso l’albergo ricoperto dalla slavina, altrimenti irraggiungibile. E non sono i soli a compiere ogni giorno sforzi sovrumani per puro senso di comunità e altruismo
Non sono mancati in questi giorni gli episodi di sciacallaggio politico e o di strumentalizzazione. Da Salvini che accusa il governo di politicizzare la protezione civile, dichiarandola inefficiente, allo stesso governo che difende il proprio lavoro svolto arrampicandosi sugli specchi e scaricando le responsabilità. Come reagisce a tutto questo il premier Gentiloni? Predisponendo un ampliamento dei poteri alla protezione civile e al commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani, non capendo che questa decisione non comporterà nessun miglioramento della situazione. La responsabilità del disastro emergenziale tra le migliaia di persone isolate a causa della neve, la tragedia della slavina all’albergo Rigopiano e tutte le polemiche che ne sono susseguite non sono da imputare alle responsabilità del singolo, ma ad un sistema che si sta dimostrando sempre più inesorabilmente fallimentare. E come spesso è capitato, di questo bisogna ringraziare il governo Monti
mercoledì 25 gennaio 2017
Il resort costruito sui detriti
Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide
di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio
territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e
dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra
come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche,
dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla
superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto.
Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo
ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che
sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto
idrogeologico.
Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia.
«L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage.
A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione».
L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali.
I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente.
La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo».
Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.
Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia.
«L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage.
A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione».
L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali.
I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente.
La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo».
Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.
martedì 24 gennaio 2017
Ricchi e poveri
Otto persone, da sole, possiedono quattrocentoventisei miliardi di
dollari, tanto quanto la metà più povera dell’intera umanità. I mille e
ottocentodieci miliardari della lista Forbes 2016, hanno seimila e
cinquecento miliardi di dollari, di cui un terzo dei patrimoni è
ereditato (e non frutto di duro lavoro) e il 43 per cento riconducibile a
clientelismo, tanto quanto il 70 per cento meno abbiente della
popolazione mondiale.
Per la natura stessa delle nostre economie e per i principi alla base dei nostri sistemi, la crescita va a vantaggio dei più ricchi, generando un mondo in cui, secondo quanto si legge nel rapporto “Un’economia per il 99 per cento”, redatto da Oxfam, l’1 per cento dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99 per cento. Producendo, oltre a un divario sempre più marcato fra abbienti e non, stagnazione dei salari e precarietà del lavoro.
Così, reddito e ricchezza, invece, di diffondersi a cascata verso il basso, vengono risucchiati dal vertice della piramide sociale: in primo luogo perché le grandi multinazionali (che, da sole, incassano più di centottanta Paesi più poveri messi insieme) per trovare profitti a breve termine a vantaggio degli azionisti, ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti.
Lo fanno utilizzando attivamente la rete globale dei paradisi fiscali, stratagemmi contabili, scappatoie legali o sfruttando accordi preferenziali e tregue fiscali concessi da vari Paesi. Inoltre, i redditi degli alti dirigenti sono, il più delle volte, pagati in azioni e crescono vertiginosamente mentre le retribuzioni dei lavoratori, sempre più spremuti fino al lavoro forzato, diminuiscono per effetto della compressione del costo del lavoro, con costi umani elevatissimi.
La compressione del costo del lavoro e dei costi di produzione, insieme alla minimizzazione delle imposte, consente alle grosse compagnie di destinare una quota sempre più consistente di profitti ai propri titolari; mentre, per lavoratori, c’è solo il vedersi ridurre il potere di contrattazione collettiva.
Potere che, invece, è nelle mani dei super ricchi che influenzano le definizioni di politiche volte a favorire l’accumulazione delle loro ricchezze e a mantenerle. Determinando la struttura delle nostre società, sempre più contraddistinte da disuguaglianza economica che è anche la peggiore minaccia alla stabilità sociale. Essa infatti causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza, le quali pregiudicano l’esito della lotta alla povertà, perché la risposta popolare all’ingiustizia esaspera le divisioni.
In Italia, nel 2016, la ricchezza dell’1 per cento più ricco - in possesso del 25 per cento di ricchezza nazionale netta - è oltre trenta volte la ricchezza del 30 per cento più povero degli abitanti del Belpaese. Quanto al reddito, tra il 1988 e il 2011, il 10 per cento più ricco ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. Poveri noi
Per la natura stessa delle nostre economie e per i principi alla base dei nostri sistemi, la crescita va a vantaggio dei più ricchi, generando un mondo in cui, secondo quanto si legge nel rapporto “Un’economia per il 99 per cento”, redatto da Oxfam, l’1 per cento dell’umanità controlla la stessa quantità di ricchezza del restante 99 per cento. Producendo, oltre a un divario sempre più marcato fra abbienti e non, stagnazione dei salari e precarietà del lavoro.
Così, reddito e ricchezza, invece, di diffondersi a cascata verso il basso, vengono risucchiati dal vertice della piramide sociale: in primo luogo perché le grandi multinazionali (che, da sole, incassano più di centottanta Paesi più poveri messi insieme) per trovare profitti a breve termine a vantaggio degli azionisti, ricorrono a pratiche di elusione fiscale, evitando di pagare imposte che andrebbero a beneficio di tutti.
Lo fanno utilizzando attivamente la rete globale dei paradisi fiscali, stratagemmi contabili, scappatoie legali o sfruttando accordi preferenziali e tregue fiscali concessi da vari Paesi. Inoltre, i redditi degli alti dirigenti sono, il più delle volte, pagati in azioni e crescono vertiginosamente mentre le retribuzioni dei lavoratori, sempre più spremuti fino al lavoro forzato, diminuiscono per effetto della compressione del costo del lavoro, con costi umani elevatissimi.
La compressione del costo del lavoro e dei costi di produzione, insieme alla minimizzazione delle imposte, consente alle grosse compagnie di destinare una quota sempre più consistente di profitti ai propri titolari; mentre, per lavoratori, c’è solo il vedersi ridurre il potere di contrattazione collettiva.
Potere che, invece, è nelle mani dei super ricchi che influenzano le definizioni di politiche volte a favorire l’accumulazione delle loro ricchezze e a mantenerle. Determinando la struttura delle nostre società, sempre più contraddistinte da disuguaglianza economica che è anche la peggiore minaccia alla stabilità sociale. Essa infatti causa un aumento della criminalità e dell’insicurezza, le quali pregiudicano l’esito della lotta alla povertà, perché la risposta popolare all’ingiustizia esaspera le divisioni.
In Italia, nel 2016, la ricchezza dell’1 per cento più ricco - in possesso del 25 per cento di ricchezza nazionale netta - è oltre trenta volte la ricchezza del 30 per cento più povero degli abitanti del Belpaese. Quanto al reddito, tra il 1988 e il 2011, il 10 per cento più ricco ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. Poveri noi
lunedì 23 gennaio 2017
Nel Piano del lavoro, tra i filoni strategici dove intervenire,
avevamo indicato la messa in sicurezza del territorio. Di fronte alle
calamità per neve e per terremoto, le nostre raccomandazioni sono più
che mai attuali"
Nel Piano del lavoro la Cgil aveva indicato, tra i filoni strategici dove intervenire, la messa in sicurezza del territorio. "Di fronte all’emergenza per neve e per terremoto di questi giorni, le nostre raccomandazioni sono più che mai attuali. Detto questo, non farei ulteriori polemiche in queste ore, per far sì che ci si concentri tutti sul fatto di far arrivare al più presto luce e riscaldamento alle popolazioni sofferenti, e anche per rispetto verso tutte quelle forze di polizia e di protezione civile che stanno lavorando giorno e notte per salvare chi è in difficoltà”. Così il segretario confederale Cgil, Vincenzo Colla, oggi ai microfoni di Italia parla, la rubrica di RadioArticolo1.
Sul fatto che Enel e Terna non riescano ancora a ripristinare le utenze elettriche nell’Italia centrale colpita dalle calamità naturali, "lasciando 60.000 famiglie al buio e al freddo, rispondo che le politiche energetiche sono un tratto fondamentale per l’Italia. Noi dobbiamo pensare a un Paese dove l’energia diventa un diritto di cittadinanza, Non si può vivere senza avere la certezza energetica; così come non è possibile che, di fronte a fatti di tale portata, non ci siano capacità d’intervento che abbiano quell’immediatezza per dare risposte nel merito. La politica energetica è un fatto basilare. Sperò che nella discussione che si farà sul tema, in occasione del G7 convocato ad aprile, si tenga conto di tutto questo, non solo sul piano teorico, ma anche su quello pratico, che riguarda poi le popolazioni”, ha rilevato il dirigente sindacale.
L’emergenza più lunga è quella economica, con l’Unione europea che ci chiede ora ufficialmente di mettere a posto i conti. Così Colla: "Mi sembra evidente che per un periodo abbiamo messo la polvere sotto il tappeto. Sapevamo che non avrebbe funzionato, ma noi lo scontro politico con l’Ue dobbiamo farlo per cambiare la politica economica, non tanto per limare decimali e fare arrotondamenti. Ricordiamoci che ci sono multinazionali che nel cuore dell’Europa posizionano una ragione sociale e non pagano tasse per miliardi: questo non è possibile, perché è in gioco la tenuta della democrazia e il potere della giustizia”, ha continuato il sindacalista.
Tornando a casa nostra, s’ipotizza che per il reperimento delle risorse chieste dall’Unione, potrebbe slittare di otto mesi l’Ape agevolata e sarebbe a rischio anche la quattordicesima per i pensionati. "Se fosse confermato, tutto ciò sarebbe inaccettabile: innanzitutto, perché abbiamo fatto un accordo sindacale in merito, che dà risposte ai più poveri e ai pensionati. Ci sono tante modalità per trovare le risorse, dal tema dell’evasione fiscale al far pagare un po’ di più coloro che dentro questa crisi ci stanno guadagnando come non mai”, ha detto ancora l’esponente Cgil.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, "gli ultimi dati Inps confermano che il Jobs Act è morto. Finiti gli sgravi alle imprese, in crescita ci sono solo i licenziamenti e i voucher. E di fronte a questo, c’è una reazione sociale sotto i palazzi della politica, ma che rischia di scavalcare anche il sindacato, dal punto di vista della rappresentanza. Quando uno perde il posto di lavoro, non è che gli puoi dire stai calmo che poi arriviamo noi, perché a quel punto è già entrato nella fascia di povertà, con tutto quel che ne consegue”, ha aggiunto il segretario confederale.
Il voto al referendum del 4 dicembre "è stato molto importante, perché la gente ha capito il valore della nostra Costituzione. E anche noi, quando abbiamo messo a punto la nostra Carta dei diritti universali, abbiamo scritto che era di rango costituzionale, così come lo sono il diritto del lavoro e il diritto di cittadinanza. I nostri due referendum hanno molto consenso, perché è evidente che i voucher sono diventati un marchio negativo e negli appalti ci passa ogni tipo di nefandezza legata alle condizioni di lavoro e alla legalità. Spero che la politica capisca tutto questo e sia in grado di evitare i referendum, tramite delle nuove leggi. In particolare, sugli appalti, noi vorremmo ritornare alla legge Prodi, mentre sui voucher ci vuole una nuova norma che disciplini la materia. Spero che il Parlamento apra un nuovo capitolo: ne abbiamo tutti bisogno”, ha concluso Colla.
Nel Piano del lavoro la Cgil aveva indicato, tra i filoni strategici dove intervenire, la messa in sicurezza del territorio. "Di fronte all’emergenza per neve e per terremoto di questi giorni, le nostre raccomandazioni sono più che mai attuali. Detto questo, non farei ulteriori polemiche in queste ore, per far sì che ci si concentri tutti sul fatto di far arrivare al più presto luce e riscaldamento alle popolazioni sofferenti, e anche per rispetto verso tutte quelle forze di polizia e di protezione civile che stanno lavorando giorno e notte per salvare chi è in difficoltà”. Così il segretario confederale Cgil, Vincenzo Colla, oggi ai microfoni di Italia parla, la rubrica di RadioArticolo1.
Sul fatto che Enel e Terna non riescano ancora a ripristinare le utenze elettriche nell’Italia centrale colpita dalle calamità naturali, "lasciando 60.000 famiglie al buio e al freddo, rispondo che le politiche energetiche sono un tratto fondamentale per l’Italia. Noi dobbiamo pensare a un Paese dove l’energia diventa un diritto di cittadinanza, Non si può vivere senza avere la certezza energetica; così come non è possibile che, di fronte a fatti di tale portata, non ci siano capacità d’intervento che abbiano quell’immediatezza per dare risposte nel merito. La politica energetica è un fatto basilare. Sperò che nella discussione che si farà sul tema, in occasione del G7 convocato ad aprile, si tenga conto di tutto questo, non solo sul piano teorico, ma anche su quello pratico, che riguarda poi le popolazioni”, ha rilevato il dirigente sindacale.
L’emergenza più lunga è quella economica, con l’Unione europea che ci chiede ora ufficialmente di mettere a posto i conti. Così Colla: "Mi sembra evidente che per un periodo abbiamo messo la polvere sotto il tappeto. Sapevamo che non avrebbe funzionato, ma noi lo scontro politico con l’Ue dobbiamo farlo per cambiare la politica economica, non tanto per limare decimali e fare arrotondamenti. Ricordiamoci che ci sono multinazionali che nel cuore dell’Europa posizionano una ragione sociale e non pagano tasse per miliardi: questo non è possibile, perché è in gioco la tenuta della democrazia e il potere della giustizia”, ha continuato il sindacalista.
Tornando a casa nostra, s’ipotizza che per il reperimento delle risorse chieste dall’Unione, potrebbe slittare di otto mesi l’Ape agevolata e sarebbe a rischio anche la quattordicesima per i pensionati. "Se fosse confermato, tutto ciò sarebbe inaccettabile: innanzitutto, perché abbiamo fatto un accordo sindacale in merito, che dà risposte ai più poveri e ai pensionati. Ci sono tante modalità per trovare le risorse, dal tema dell’evasione fiscale al far pagare un po’ di più coloro che dentro questa crisi ci stanno guadagnando come non mai”, ha detto ancora l’esponente Cgil.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, "gli ultimi dati Inps confermano che il Jobs Act è morto. Finiti gli sgravi alle imprese, in crescita ci sono solo i licenziamenti e i voucher. E di fronte a questo, c’è una reazione sociale sotto i palazzi della politica, ma che rischia di scavalcare anche il sindacato, dal punto di vista della rappresentanza. Quando uno perde il posto di lavoro, non è che gli puoi dire stai calmo che poi arriviamo noi, perché a quel punto è già entrato nella fascia di povertà, con tutto quel che ne consegue”, ha aggiunto il segretario confederale.
Il voto al referendum del 4 dicembre "è stato molto importante, perché la gente ha capito il valore della nostra Costituzione. E anche noi, quando abbiamo messo a punto la nostra Carta dei diritti universali, abbiamo scritto che era di rango costituzionale, così come lo sono il diritto del lavoro e il diritto di cittadinanza. I nostri due referendum hanno molto consenso, perché è evidente che i voucher sono diventati un marchio negativo e negli appalti ci passa ogni tipo di nefandezza legata alle condizioni di lavoro e alla legalità. Spero che la politica capisca tutto questo e sia in grado di evitare i referendum, tramite delle nuove leggi. In particolare, sugli appalti, noi vorremmo ritornare alla legge Prodi, mentre sui voucher ci vuole una nuova norma che disciplini la materia. Spero che il Parlamento apra un nuovo capitolo: ne abbiamo tutti bisogno”, ha concluso Colla.
mercoledì 18 gennaio 2017
Ticketlandia. Il patrimonio artistico svenduto sul mercato
Il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, alcuni giorni fa,
ha rilasciato una dichiarazione che ha suscitato, giustamente,
polemiche e giudizi negativi: introdurre un biglietto di ingresso al
Pantheon. “Penso che entro la fine della legislatura per visitare il
Pantheon si pagherà il biglietto, magari anche basso” (fonte Ansa.it),
ha dichiarato il Ministro, aggiungendo che i proventi derivanti dalla
vendita dei biglietti potranno servire per il mantenimento ed i
restauri, ordinari e straordinari della struttura. Oppure potrebbero
essere versati per il 20% nel fondo di solidarietà del Ministero stesso.
Contrari a questa ipotesi si sono già detti il vicesindaco Bergamo e
il decano dei giornalisti della Capitale, Vittorio Emiliani (per anni
direttore deIl Messaggero).
Il Pantheon si calcola che venga visitato ogni anno da oltre 7 milioni di persone (sui 13 milioni di turisti che visitano annualmente Roma). Si ripropone nuovamente la contraddizione tra le possibilità offerte dai siti storici, artistici e archeologici di Roma – ma anche di altre città – e la destinazione/appropriazione dei proventi che ne derivano. Si, perché è da tempo che annusando l’aria e guardando i conti ci si è accorti che sui beni archeologici, museali e artistici ci si ingrassano i privati lasciando al pubblico (il Ministero Beni Culturali) spesso solo gli oneri.
Ogni anno i 420 istituti dello Stato registrano un incasso totale di biglietteria che nel 2014 si è aggirato sui 111 milioni. Questa cifra (niente affatto straordinaria) è al netto dell'aggio concesso ai privati ai quali sono stati dati in concessione i servizi museali e dei beni archeologici. Infatti se lo Stato incassa 111 milioni ben 49 milioni, sempre nel 2014, sono stati incassati solo dai servizi aggiuntivi (audioguide, bookshop, gadget, caffetterie, prenotazioni e prevendite, ristoranti e visite guidate) gestiti dai privati. Di questi proventi , solo 7 milioni sono finiti nelle casse statali.
E’ dal 1993 con la legge Ronchey è stata aperta la porta ai privati nella gestione del patrimonio artistico pubblico. Il risultato è stata spartizione della torta tra pochi eletti. I pincipali "privati del patrimonio", sono Civita Cultura, Electa, Coop. Si tratta di società che in questi anni si sono sostituite allo Stato nella gestione di biglietterie, servizi di prenotazione, ristoranti, audioguide, cataloghi, sicurezza e personale, con percentuali sugli incassi estremamente vantaggiose: oltre l'85% sui servizi aggiuntivi, il 30% sulla biglietteria, il 100% sulla prevendita.
Oggi infatti in molti siti archeologici e museali (dal Colosseo agli Uffizi) la biglietteria è affidata a concessionari privati che, secondo la legge hanno il loro “aggio” ma non possono trattenere oltre il 30% del costo del biglietto. In compenso possono incassare integralmente i diritti di prevendita che, per esempio, per gli Uffizi di Firenze arrivano fino a 4 euro. Agli Uffizi il servizio è stato finora gestito da Civita Cultura che ha ereditato un contratto di appalto, ormai scaduto, risalente agli anni ’90 e siglato con Firenze Musei. Facendo la stima che agli Uffizi ci sia una media di 5000 presenze giornaliere, per ben 3500 ci sono le prenotazioni, dunque la prevendita gestita dai privati. In pratica 14mila euro ogni 24 ore.
Inoltre, in alcuni casi la Corte dei Conti ha denunciato che nemmeno la soglia del 30% spesso viene rispettata. Al Colosseo, infatti, sui 12 euro a biglietto, alla Soprintendenza invece che il 70%, arriva solo il 30%. Il restante va alla società privata Electa in base ad accordi e concessioni su cui ancora non si riesce a venire a capo e che risalgono, sempre tra proroghe e ricorsi, al 1997, quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge Ronchey e la bellezza di 20 anni fa.
Si calcola che nel 2014 i visitatori al Colosseo sino stati 6 milioni e 181mila, con un introito lordo totale di 41 milioni e 440mila euro. Nel 2015, si è registrato un incremento di visitatori, saliti a 6milioni e 551mila e gli introiti lordi sono saliti a 44 milioni e 613mila. Ma Il deputato di Scelta Civica, Andrea Mazziotti, ha scoperto che allo Stato, dal 2001 a oggi (da quando i dati sono disponibili), non sarebbe andato il 30,2 per cento ma solo l’11,9 per cento.” Perché lo Stato avrebbe incassato quasi il 19 per cento in meno rispetto a quanto previsto dall’unico accordo vigente? Su 74milioni di euro di incasso lordo maturato dalla gestione dei ‘servizi aggiuntivi’ denuncia Mazziotti in una interrogazione parlamentare.
Nel 2013 la Corte dei Conti aveva richiesto esplicitamente di istituire nuove gare per le concessioni e con criteri trasparenti. Negli anni precedenti c’erano stati dei tentativi delle precedenti amministrazioni , che erano però falliti sotto una raffica di ricorsi al Tar impugnati dai "soliti" concessionari privati che vedevano minacciati i loro oligopoli, i quali molto spesso hanno il piede sia nel pubblico che nel privato. Un palese conflitto di interessi.
Il dott. Albino Ruberti, ad esempio, è amministratore delegato sia di Civita Cultura che di Zètema, società del Comune di Roma che nominalmente dovrebbe essere concorrente di Civita Cultura. Ruberti, in una intervista a La Repubblica, ci tiene a sottolineare ch ad esempio e “I ricavi sono molti bassi e il modello in essere non offre possibilità di fare investimenti. Siamo solo dei concessionari che guadagnano sui biglietti e i servizi aggiuntivi, ma non possiamo decidere né il prezzo né una strategia di marketing”.
Eppure a guardare i dati, la società Civita Cultura, che è presente in ben 82 musei ( fra i quali gli Uffizi di Firenze) e nel 2014 ha fatturato circa 70 milioni di euro. Un'altra società privata come Coop Culture, che insieme alla Electa gestisce il Colosseo, è presente in 13 regioni italiane (tra cui la contestata Reggia di Venaria e i Musei civici di Torino) e ha chiuso il 2014 con ricavi per 43 milioni di euro. L’Electa, nel 2002 è stata acquisita dalla Mondadori.
La quota di ricavi provenienti dalla gestione dei beni pubblici che finisce nelle tasche di queste società private, non è poca roba. Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (ex presidente Confindustria e poi Bnl Paribas), ha chiuso il 2014 con 9,6 milioni di euro di ricavi, gestendo da sola 13 musei in Campania, 14 nel Lazio, 32 in Toscana, 11 in Veneto, 3 in Lombardia, 2 nelle Marche, 2 in Sicilia, 4 in Umbria, 1 in Piemonte. Ma a Firenze, il fiore all’occhiello di Civita Cultura è la prestigiosa Opera Laboratori Fiorentini, (un posto dove si restaurano i Leonardo da Vinci per intendersi) controllata all’80% dalla società romana e che vede anche qui il sott. Albino Ruberti, sedere sulla poltrona di amministratore delegato. Opera Laboratori Fiorentini gestisce di fatto il Polo Museale di Firenze e ha chiuso il 2014 con ricavi per 53 milioni di euro.
“Il risultato è che i nostri musei non sono più centri di produzione e redistribuzione della conoscenza (come invece il Louvre, o il British Museum, o il Prado), ma fatiscenti “discount della bellezza”, proni ad un turismo mordi e fuggi” denuncia lo storico dell’arte Alberto Montanari, precisando che un dogma a cui non crede proprio quello secondo cui “il patrimonio culturale deve sottostare alle regole del mercato”. Scrive Montanari: “Personalmente sono in radicale disaccordo con questo dogma (perché il fine ultimo del patrimonio è il pieno sviluppo della persona umana, un valore che non deve stare sul mercato)”. Come dargli torto? Ed è proprio da qui che occorre ripartire per una visione emancipatrice dell’accesso e della gestione di un inestimabile patrimonio archeologico, artistico come quello di Roma e del nostro paese nel suo complesso.
Il Pantheon si calcola che venga visitato ogni anno da oltre 7 milioni di persone (sui 13 milioni di turisti che visitano annualmente Roma). Si ripropone nuovamente la contraddizione tra le possibilità offerte dai siti storici, artistici e archeologici di Roma – ma anche di altre città – e la destinazione/appropriazione dei proventi che ne derivano. Si, perché è da tempo che annusando l’aria e guardando i conti ci si è accorti che sui beni archeologici, museali e artistici ci si ingrassano i privati lasciando al pubblico (il Ministero Beni Culturali) spesso solo gli oneri.
Ogni anno i 420 istituti dello Stato registrano un incasso totale di biglietteria che nel 2014 si è aggirato sui 111 milioni. Questa cifra (niente affatto straordinaria) è al netto dell'aggio concesso ai privati ai quali sono stati dati in concessione i servizi museali e dei beni archeologici. Infatti se lo Stato incassa 111 milioni ben 49 milioni, sempre nel 2014, sono stati incassati solo dai servizi aggiuntivi (audioguide, bookshop, gadget, caffetterie, prenotazioni e prevendite, ristoranti e visite guidate) gestiti dai privati. Di questi proventi , solo 7 milioni sono finiti nelle casse statali.
E’ dal 1993 con la legge Ronchey è stata aperta la porta ai privati nella gestione del patrimonio artistico pubblico. Il risultato è stata spartizione della torta tra pochi eletti. I pincipali "privati del patrimonio", sono Civita Cultura, Electa, Coop. Si tratta di società che in questi anni si sono sostituite allo Stato nella gestione di biglietterie, servizi di prenotazione, ristoranti, audioguide, cataloghi, sicurezza e personale, con percentuali sugli incassi estremamente vantaggiose: oltre l'85% sui servizi aggiuntivi, il 30% sulla biglietteria, il 100% sulla prevendita.
Oggi infatti in molti siti archeologici e museali (dal Colosseo agli Uffizi) la biglietteria è affidata a concessionari privati che, secondo la legge hanno il loro “aggio” ma non possono trattenere oltre il 30% del costo del biglietto. In compenso possono incassare integralmente i diritti di prevendita che, per esempio, per gli Uffizi di Firenze arrivano fino a 4 euro. Agli Uffizi il servizio è stato finora gestito da Civita Cultura che ha ereditato un contratto di appalto, ormai scaduto, risalente agli anni ’90 e siglato con Firenze Musei. Facendo la stima che agli Uffizi ci sia una media di 5000 presenze giornaliere, per ben 3500 ci sono le prenotazioni, dunque la prevendita gestita dai privati. In pratica 14mila euro ogni 24 ore.
Inoltre, in alcuni casi la Corte dei Conti ha denunciato che nemmeno la soglia del 30% spesso viene rispettata. Al Colosseo, infatti, sui 12 euro a biglietto, alla Soprintendenza invece che il 70%, arriva solo il 30%. Il restante va alla società privata Electa in base ad accordi e concessioni su cui ancora non si riesce a venire a capo e che risalgono, sempre tra proroghe e ricorsi, al 1997, quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge Ronchey e la bellezza di 20 anni fa.
Si calcola che nel 2014 i visitatori al Colosseo sino stati 6 milioni e 181mila, con un introito lordo totale di 41 milioni e 440mila euro. Nel 2015, si è registrato un incremento di visitatori, saliti a 6milioni e 551mila e gli introiti lordi sono saliti a 44 milioni e 613mila. Ma Il deputato di Scelta Civica, Andrea Mazziotti, ha scoperto che allo Stato, dal 2001 a oggi (da quando i dati sono disponibili), non sarebbe andato il 30,2 per cento ma solo l’11,9 per cento.” Perché lo Stato avrebbe incassato quasi il 19 per cento in meno rispetto a quanto previsto dall’unico accordo vigente? Su 74milioni di euro di incasso lordo maturato dalla gestione dei ‘servizi aggiuntivi’ denuncia Mazziotti in una interrogazione parlamentare.
Nel 2013 la Corte dei Conti aveva richiesto esplicitamente di istituire nuove gare per le concessioni e con criteri trasparenti. Negli anni precedenti c’erano stati dei tentativi delle precedenti amministrazioni , che erano però falliti sotto una raffica di ricorsi al Tar impugnati dai "soliti" concessionari privati che vedevano minacciati i loro oligopoli, i quali molto spesso hanno il piede sia nel pubblico che nel privato. Un palese conflitto di interessi.
Il dott. Albino Ruberti, ad esempio, è amministratore delegato sia di Civita Cultura che di Zètema, società del Comune di Roma che nominalmente dovrebbe essere concorrente di Civita Cultura. Ruberti, in una intervista a La Repubblica, ci tiene a sottolineare ch ad esempio e “I ricavi sono molti bassi e il modello in essere non offre possibilità di fare investimenti. Siamo solo dei concessionari che guadagnano sui biglietti e i servizi aggiuntivi, ma non possiamo decidere né il prezzo né una strategia di marketing”.
Eppure a guardare i dati, la società Civita Cultura, che è presente in ben 82 musei ( fra i quali gli Uffizi di Firenze) e nel 2014 ha fatturato circa 70 milioni di euro. Un'altra società privata come Coop Culture, che insieme alla Electa gestisce il Colosseo, è presente in 13 regioni italiane (tra cui la contestata Reggia di Venaria e i Musei civici di Torino) e ha chiuso il 2014 con ricavi per 43 milioni di euro. L’Electa, nel 2002 è stata acquisita dalla Mondadori.
La quota di ricavi provenienti dalla gestione dei beni pubblici che finisce nelle tasche di queste società private, non è poca roba. Civita Cultura, il cui presidente è Luigi Abete (ex presidente Confindustria e poi Bnl Paribas), ha chiuso il 2014 con 9,6 milioni di euro di ricavi, gestendo da sola 13 musei in Campania, 14 nel Lazio, 32 in Toscana, 11 in Veneto, 3 in Lombardia, 2 nelle Marche, 2 in Sicilia, 4 in Umbria, 1 in Piemonte. Ma a Firenze, il fiore all’occhiello di Civita Cultura è la prestigiosa Opera Laboratori Fiorentini, (un posto dove si restaurano i Leonardo da Vinci per intendersi) controllata all’80% dalla società romana e che vede anche qui il sott. Albino Ruberti, sedere sulla poltrona di amministratore delegato. Opera Laboratori Fiorentini gestisce di fatto il Polo Museale di Firenze e ha chiuso il 2014 con ricavi per 53 milioni di euro.
“Il risultato è che i nostri musei non sono più centri di produzione e redistribuzione della conoscenza (come invece il Louvre, o il British Museum, o il Prado), ma fatiscenti “discount della bellezza”, proni ad un turismo mordi e fuggi” denuncia lo storico dell’arte Alberto Montanari, precisando che un dogma a cui non crede proprio quello secondo cui “il patrimonio culturale deve sottostare alle regole del mercato”. Scrive Montanari: “Personalmente sono in radicale disaccordo con questo dogma (perché il fine ultimo del patrimonio è il pieno sviluppo della persona umana, un valore che non deve stare sul mercato)”. Come dargli torto? Ed è proprio da qui che occorre ripartire per una visione emancipatrice dell’accesso e della gestione di un inestimabile patrimonio archeologico, artistico come quello di Roma e del nostro paese nel suo complesso.
martedì 17 gennaio 2017
Manovra bis. Il conto andrebbe presentato a Renzi
Servono circa 3,4 miliardi di euro, una manovra bis che vale lo 0,2
per cento del Prodotto interno lordo. Ce la chiede l’Europa. Dovrebbe
pagarli Renzi di tasca sua in realtà, ma questo è un altro discorso. E
sorprende che nell’intervista a Repubblica uscita ieri l’argomento non
viene quasi per nulla toccato. Eppure questo “deficit” è stato in parte
accumulato grazie all’helycopter money che il premier si era costruito
in casa per tentare di vincere il referendum distribuendo elemosine a
destra e a manca.
Qualcuno aveva preventivato che l’Europa a marzo ci avrebbe presentato il conto. E invece la tirata d’orecchie è arrivata molto prima. La richiesta è piombata su Roma giusto la scorsa settimana e questa volta l’esecutivo non può più rinviare, dovrà mettere mano al portafoglio. Anche perché in caso contrario — la Commissione europea lo ha messo ben in chiaro nei contatti riservati delle ultime ore con il Tesoro — è pronta una procedura d’infrazione per deficit eccessivo a carico dell’Italia per il mancato rispetto della regola del debito.
lo scorso autunno da Bruxelles, infatti, il deficit italiano viaggerà intorno al 2,4 per cento del Pil, due decimali al di sopra del target concordato a Bratislava e di quello che la Commissione considera il tetto massimo per evitare una micidiale bocciatura dell’Italia da parte dell’Eurogruppo, il tavolo dei ministri delle Finanze della moneta unica dominato dai rigoristi Dijsselbloem e Schaeuble. Renzi, sempre per stare ai documenti storici, fece un po’ di teatro tirando fuori la storia dell’ondata dei migranti, per fronteggiare la quale sarebbero serviti ben 4 miliardi (!); senza contare il fiume di lacrime, e di visite ufficiali di tutte le più alte cariche dello Stato, sull’altro grande dramma vissuto “dal Governo”, quello del terremoto. Risultato, l’Europa ci chiede i soldi e un bel gruppo di terremotati hanno protestato ieri ad Accumoli perché si sentono abbandonati.
"Sono in corso in questi giorni contatti con la Commissione europea per valutare i passi opportuni per evitare l'apertura di una procedura di infrazione", fanno trapelare dal Mef a proposito della manovra aggiuntiva. E al tempo stesso, insistono da via XX Settembre, i contatti in corso servono anche per "scongiurare il rischio che interventi restrittivi sul bilancio compromettano la crescita riavviata nell'economia nazionale a partire dal 2014 ma ancora debole". Peraltro, "non e' ancora pervenuta alcuna lettera", sottolineano le stesse fonti. Non c’è dubbio ma che Padoan stia passando un brutto quarto d’ora è poco ma è sicuro. Perché nella partita c’è anche lui, suo malgrado. Doveva essere lui “l’oggetto di scambio” con Bruxelles. Solo che l’ex sindaco di Firenze non si fidava abbastanza. Si sarebbe fatto da parte, come pare aver garantito Gentiloni, al momento giusto?
Polemiche e spigolature che in realtà nascondono il nodo vero: l'Italia non ce la fa ad agganciare la ripresa. E questo perché la crisi ha letteralmente stravolto, senza difesa alcuna, i suoi connotati economici.
Intanto, le classifiche internazionali di cui si parlerà in questi giorni a Davos ci collocano ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. E poi alcune contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta, e per usare un linguaggio da “esperti”: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa. Secondo il premio Nobel Spence, “l’Italia si deve dotare di una struttura imprenditoriale dinamica e flessibile, orientata all’innovazione di prodotto e di processo, recettiva delle novità sul fronte tecnologico e con un’etica del business contrapposta alla corruzione e ad altre pratiche illecite. E
con lei lo Stato”. E poi ci meravigliamo perché arrivano le bocciature delle agenzie di rating? E non è finita. “I problemi che affliggono il sistema bancario – aggiunge Spence – smaltire quelli che sono i debiti tossici,
ricapitalizzare le banche e ristabilire fiducia nei confronti degli istituti di credito”.
Qualcuno aveva preventivato che l’Europa a marzo ci avrebbe presentato il conto. E invece la tirata d’orecchie è arrivata molto prima. La richiesta è piombata su Roma giusto la scorsa settimana e questa volta l’esecutivo non può più rinviare, dovrà mettere mano al portafoglio. Anche perché in caso contrario — la Commissione europea lo ha messo ben in chiaro nei contatti riservati delle ultime ore con il Tesoro — è pronta una procedura d’infrazione per deficit eccessivo a carico dell’Italia per il mancato rispetto della regola del debito.
lo scorso autunno da Bruxelles, infatti, il deficit italiano viaggerà intorno al 2,4 per cento del Pil, due decimali al di sopra del target concordato a Bratislava e di quello che la Commissione considera il tetto massimo per evitare una micidiale bocciatura dell’Italia da parte dell’Eurogruppo, il tavolo dei ministri delle Finanze della moneta unica dominato dai rigoristi Dijsselbloem e Schaeuble. Renzi, sempre per stare ai documenti storici, fece un po’ di teatro tirando fuori la storia dell’ondata dei migranti, per fronteggiare la quale sarebbero serviti ben 4 miliardi (!); senza contare il fiume di lacrime, e di visite ufficiali di tutte le più alte cariche dello Stato, sull’altro grande dramma vissuto “dal Governo”, quello del terremoto. Risultato, l’Europa ci chiede i soldi e un bel gruppo di terremotati hanno protestato ieri ad Accumoli perché si sentono abbandonati.
"Sono in corso in questi giorni contatti con la Commissione europea per valutare i passi opportuni per evitare l'apertura di una procedura di infrazione", fanno trapelare dal Mef a proposito della manovra aggiuntiva. E al tempo stesso, insistono da via XX Settembre, i contatti in corso servono anche per "scongiurare il rischio che interventi restrittivi sul bilancio compromettano la crescita riavviata nell'economia nazionale a partire dal 2014 ma ancora debole". Peraltro, "non e' ancora pervenuta alcuna lettera", sottolineano le stesse fonti. Non c’è dubbio ma che Padoan stia passando un brutto quarto d’ora è poco ma è sicuro. Perché nella partita c’è anche lui, suo malgrado. Doveva essere lui “l’oggetto di scambio” con Bruxelles. Solo che l’ex sindaco di Firenze non si fidava abbastanza. Si sarebbe fatto da parte, come pare aver garantito Gentiloni, al momento giusto?
Polemiche e spigolature che in realtà nascondono il nodo vero: l'Italia non ce la fa ad agganciare la ripresa. E questo perché la crisi ha letteralmente stravolto, senza difesa alcuna, i suoi connotati economici.
Intanto, le classifiche internazionali di cui si parlerà in questi giorni a Davos ci collocano ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. E poi alcune contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta, e per usare un linguaggio da “esperti”: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa. Secondo il premio Nobel Spence, “l’Italia si deve dotare di una struttura imprenditoriale dinamica e flessibile, orientata all’innovazione di prodotto e di processo, recettiva delle novità sul fronte tecnologico e con un’etica del business contrapposta alla corruzione e ad altre pratiche illecite. E
con lei lo Stato”. E poi ci meravigliamo perché arrivano le bocciature delle agenzie di rating? E non è finita. “I problemi che affliggono il sistema bancario – aggiunge Spence – smaltire quelli che sono i debiti tossici,
ricapitalizzare le banche e ristabilire fiducia nei confronti degli istituti di credito”.
lunedì 16 gennaio 2017
Fiat-Fca alle corde per le emissioni truccate
Una bastonata da paura. Fiat/Fca si è ritrovata ieri sotto accusa da
parte dell'Epa – l'ente per la protezione ambientale statunitense – per
non aver comunicato l'utilizzo di un software in grado di modificare le
emissioni del motore diese montato su due modelli venduti in 104.000
esemplari negli Stati Uniti.
Inevitabile il parallelo con lo scandalo Volkswagen, anche se per ora la contestazione dell'Epa riguarda solo la “mancata comunicazione”, senza alcun giudizio sul funzionamento effettivo del software sulle emissioni finali. In teoria, dunque, que dispositivo potrebbe addirittura aver avuto “effetti benefici”. Ancora non si sa, ma conoscendo le modalità d'azione dei costruttori di automobili è difficile pensare a questa ipotesi “benefica”, visto l'atteggiamento tenuto di fronte a ogni nuova legislazione tesa a ridurre le emissioni nocive, in qualsiasi parte del mondo.
Schermata del 2017-01-13 10:19:04I due modelli sono il Grand Cherokee e il Ram 1500 (un pickup praticamente ignoto in Italia)-, che montano l'identico motore da 3 litri, con 240 cavalli di potenza. Proprio i motori a gasolio, negli Usa, sono sotto la lente molto attenta dell'Epa per l'evidente impatto ambientale. Non a caso le vendite di auto su quel mercato premiano o i motori a benzina o – sempre più frequentemente, specie in stati “virtuosi” come la California – quelli ibridi (elettrico-benzina).
Nei giorni scorsi la Volkswagen aveva concluso un accordo per pagare una multa da 4,3 miliardi di dollari (partendo da una richiesta governativa di 17); e questo potrebbe essere il costo che anche Fca si potrebbe dover trovare a sopportare. Molti analisti fanno però osservare che il numero di veicoli sotto accusa è molto inferiore a quello contestato ai tedeschi (alcuni milioni di vetture), quindi la cifra finale dovrebbe essere molto più bassa.
Il titolo Fca è comunque crollato immediatamente a Wall Street, dove ha perso in pochi minuti anche l'11,8%, mentre a Piazza Affari è sceso del 16%. L'entità del ribasso è in relazione con l'importanza che il mercato americano riveste nelle strategie e nelle vendite del gruppo diretto da Sergio Marchionne, molto più alta di quanto avveniva per Volkswagen. Anche se il numero di vetture tedesche “incriminate” è ben superiore, gli Usa rappresentano soltanto il 10% delle vendite di Volfsburg, mentre per Fca – dopo aver acquisito Chrysler grazie agli incentivi dell'amministrazione Obama – è di fatto il mercato principale. La crisi di immagine innescata da questa incriminazione può dunque avere pesanti conseguenze – potenzialmente letali – sulle vendite e i bilanci del gruppo.
La reazione di Marchionnne è stata particolarmente violenta: "questo atteggiamento moralista verso le case automobilistiche mi rompe veramente l'anima", "il nostro caso non ha nulla in comune con Volkswagen", "i nostri sistemi di controllo delle emissioni rispettano le normative applicabili", "per quanto conosco questa società, posso dire che nessuno è così stupido" da montare un software illegale, "sopravvivremo anche se saremo multati fino a 4,6 miliardi di dollari", “questa caratterizzazione di Fca come azienda che manca di moralità è la cosa più ingiusta da dire, mi sono veramente incavolato", "la nostra moralità non è da discutere, può essere l'Epa o il presidente degli Stati Uniti, non me ne frega assolutamente niente".
Fino a evocare un possibile “gombloddo” dell'amministrazione Obama nei confronti del subentrante Donald Trump, simile alle decisioni prese negli ultimi giorni (invio di truppe nei paesi baltici al confine con la Russia, abolizione dei privilegi per i cubani che sbarcano negli Usa, ecc).
Marchionne ha infatti sottolineato la “strana tempistica di un’amministrazione in scadenza”, arrivando persino a dire che “spero che non sia una conseguenza di una guerra politica fra l'amministrazione uscente e quella entrante".
Da capitalista con molto pelo sullo stomaco, sta già sulla barca del tycoon col ciuffo. E quindi ci ha tenuto a ricordare che con l'arrivo di Trump (notoriamente convinto che il “global warming” non esista) “quello dell'Agenzia per la protezione ambientale è il comportamento di un'agenzia che perderà efficacia" molto presto, grazie a normative molto più permissive nei confronti delle emissioni nocive.
Non ci sono amici (il regalo di Obama è già dimenticato), quando si parla di soldi…
Inevitabile il parallelo con lo scandalo Volkswagen, anche se per ora la contestazione dell'Epa riguarda solo la “mancata comunicazione”, senza alcun giudizio sul funzionamento effettivo del software sulle emissioni finali. In teoria, dunque, que dispositivo potrebbe addirittura aver avuto “effetti benefici”. Ancora non si sa, ma conoscendo le modalità d'azione dei costruttori di automobili è difficile pensare a questa ipotesi “benefica”, visto l'atteggiamento tenuto di fronte a ogni nuova legislazione tesa a ridurre le emissioni nocive, in qualsiasi parte del mondo.
Schermata del 2017-01-13 10:19:04I due modelli sono il Grand Cherokee e il Ram 1500 (un pickup praticamente ignoto in Italia)-, che montano l'identico motore da 3 litri, con 240 cavalli di potenza. Proprio i motori a gasolio, negli Usa, sono sotto la lente molto attenta dell'Epa per l'evidente impatto ambientale. Non a caso le vendite di auto su quel mercato premiano o i motori a benzina o – sempre più frequentemente, specie in stati “virtuosi” come la California – quelli ibridi (elettrico-benzina).
Nei giorni scorsi la Volkswagen aveva concluso un accordo per pagare una multa da 4,3 miliardi di dollari (partendo da una richiesta governativa di 17); e questo potrebbe essere il costo che anche Fca si potrebbe dover trovare a sopportare. Molti analisti fanno però osservare che il numero di veicoli sotto accusa è molto inferiore a quello contestato ai tedeschi (alcuni milioni di vetture), quindi la cifra finale dovrebbe essere molto più bassa.
Il titolo Fca è comunque crollato immediatamente a Wall Street, dove ha perso in pochi minuti anche l'11,8%, mentre a Piazza Affari è sceso del 16%. L'entità del ribasso è in relazione con l'importanza che il mercato americano riveste nelle strategie e nelle vendite del gruppo diretto da Sergio Marchionne, molto più alta di quanto avveniva per Volkswagen. Anche se il numero di vetture tedesche “incriminate” è ben superiore, gli Usa rappresentano soltanto il 10% delle vendite di Volfsburg, mentre per Fca – dopo aver acquisito Chrysler grazie agli incentivi dell'amministrazione Obama – è di fatto il mercato principale. La crisi di immagine innescata da questa incriminazione può dunque avere pesanti conseguenze – potenzialmente letali – sulle vendite e i bilanci del gruppo.
La reazione di Marchionnne è stata particolarmente violenta: "questo atteggiamento moralista verso le case automobilistiche mi rompe veramente l'anima", "il nostro caso non ha nulla in comune con Volkswagen", "i nostri sistemi di controllo delle emissioni rispettano le normative applicabili", "per quanto conosco questa società, posso dire che nessuno è così stupido" da montare un software illegale, "sopravvivremo anche se saremo multati fino a 4,6 miliardi di dollari", “questa caratterizzazione di Fca come azienda che manca di moralità è la cosa più ingiusta da dire, mi sono veramente incavolato", "la nostra moralità non è da discutere, può essere l'Epa o il presidente degli Stati Uniti, non me ne frega assolutamente niente".
Fino a evocare un possibile “gombloddo” dell'amministrazione Obama nei confronti del subentrante Donald Trump, simile alle decisioni prese negli ultimi giorni (invio di truppe nei paesi baltici al confine con la Russia, abolizione dei privilegi per i cubani che sbarcano negli Usa, ecc).
Marchionne ha infatti sottolineato la “strana tempistica di un’amministrazione in scadenza”, arrivando persino a dire che “spero che non sia una conseguenza di una guerra politica fra l'amministrazione uscente e quella entrante".
Da capitalista con molto pelo sullo stomaco, sta già sulla barca del tycoon col ciuffo. E quindi ci ha tenuto a ricordare che con l'arrivo di Trump (notoriamente convinto che il “global warming” non esista) “quello dell'Agenzia per la protezione ambientale è il comportamento di un'agenzia che perderà efficacia" molto presto, grazie a normative molto più permissive nei confronti delle emissioni nocive.
Non ci sono amici (il regalo di Obama è già dimenticato), quando si parla di soldi…
venerdì 13 gennaio 2017
L’EURO COME TECNICA DELLA VIOLENZA IMPERIALISTICA
L’accordo tra il gruppo liberal-democratico del parlamento europeo
ed il Movimento 5 Stelle alla fine è saltato; ma rimane comunque
significativo che il tentativo sia stato fatto, che cioè Grillo abbia
cercato, con il supporto della consueta farsa della “democrazia sul
web”, di far rientrare il suo movimento nei canoni della
“rispettabilità” politica. Non è affatto una sorpresa dato che molti
commentatori avevano rilevato da tempo il carattere del tutto
mistificatorio dell’euroscetticismo del M5S.
La pubblicazione del “codice di comportamento” del M5S ha suscitato scontati commenti su presunte “svolte garantiste” o su “norme salva-Raggi”, ma anche in questo caso l’adesione del grillismo agli schemi della “rispettabilità” politica rimane immutata, poiché esso continua a considerare la condanna nel giudizio di primo grado come discriminante per eventuali dimissioni. Per un movimento che si era presentato come sfida all’establishment, risulta davvero ben strana questa sudditanza morale nei confronti della magistratura, come se questa non facesse parte a sua volta dell’establishment. Per un vero movimento di opposizione sarebbe stato più logico non vincolarsi a questioni di condanna di primo grado o di condanna definitiva, ma valutare caso per caso, proprio perché nessuna sentenza può ritenersi di per sé immune dal sospetto di essere originata da manovre di lobbying.
L’affanno e l’auto-discredito crescenti del M5S sono l’effetto di contraddizioni che erano palesi da anni e che sono scoppiate non appena i successi elettorali hanno avvicinato il movimento ad una possibilità di accedere al governo. La pretesa di risolvere le questioni con un presunto “onestismo” ha rappresentato per molti militanti del movimento la benda sugli occhi per evitare di prendere atto della violenza del contesto coloniale. A riguardo vi è nel 1976 il precedente del PCI di Enrico Berlinguer, che si arrese allo strapotere imperialistico della NATO adottando slogan diversivi come la “questione morale” ed il “governo degli onesti”: lo stesso mito di quella che si potrebbe chiamare “ortocrazia”, oggi invocata anche dal M5S.
Viene da supporre che lo stesso Grillo sia in realtà costretto a muoversi sotto la pressione di minacce alla sua persona, con la conseguenza di procedere per dichiarazioni stentoree e passetti ambigui. La proposta del M5S di sottoporre la questione della moneta unica ad un referendum consultivo restituisce appieno la dimensione di un’opposizione che non si oppone, che fa finta di non accorgersi che un eventuale referendum del genere si svolgerebbe sotto il ricatto di tempeste finanziarie e sotto l’attacco ad un debito pubblico al quale nei prossimi mesi verrà a mancare anche il peloso ombrello del Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi.
Da un punto di vista tecnico il venir meno della tutela di Draghi non dovrebbe preoccupare i nostri governi, in quanto non vi è nessun bisogno di collocare i nuovi titoli del debito pubblico sul “mercato” alla mercé degli speculatori. Un governo italiano potrebbe semplicemente emettere titoli a tasso zero ed usarli per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione. Da un punto di vista formale si tratterebbe di “prestiti forzosi”, ma in effetti si potrebbe considerarli come una vera e propria emissione della tanto agognata “moneta sovrana”.
Sennonché non si vive in un mondo ideale fatto di astratte scelte tecnico-economiche, bensì nel mondo materiale della concreta tecnica della violenza imperialistica, cioè della violenza nella sua accezione più diretta e brutale. Nel febbraio del 2003 il quotidiano britannico “The Guardian” ci informava dei vantaggi finanziari che il governo iracheno di Saddam Hussein stava riscuotendo facendosi pagare il petrolio in euro, accumulando anche crediti sulle banche francesi. Del resto tanti Paesi europei avevano desiderato di far parte dell’Eurozona proprio illudendosi di poter comprare petrolio ed altre materie prime in euro e non più in dollari.
Ma nel marzo del 2003 l’Iraq veniva invaso dagli Stati Uniti e l’inganno si svelava: gli USA avevano imposto la moneta unica europea in funzione del rafforzamento della disciplina della NATO in Europa e non perché avessero intenzione di tollerare la nascita di una valuta di riserva che facesse concorrenza al dollaro. La Francia, dapprima illusa e poi umiliata nelle sue ambizioni di leadership finanziaria, ha esibito dopo Chirac soltanto presidenti da pochade, i vari Sarkozy e Hollande, umili zerbini degli USA. Dopo Monti, Letta e Renzi, anche Gentiloni è corso in Francia ad inaugurare l’ennesimo “asse” con Hollande in funzione anti-austerity, ed i giornali fanno persino finta di crederci, come se ormai non si sapesse che Hollande in Europa, e non solo in Europa, è solo un passacarte. Delusa nelle aspirazioni globali, l’oligarchia francese se la prende con l’Italia, trasformata in una colonia finanziaria come le ex (?) colonie africane. Gentiloni ovviamente non ha perso occasione per ringraziare ufficialmente la Francia di questa colonizzazione (pardon, di questi “investimenti”).
A contrastare l’euro rimarrebbe la Lega di Salvini. Ma non è che la Lega adotta una battaglia giusta solo per usarla come veicolo per tutt’altri messaggi? Le ambiguità della Lega riguardano soprattutto il tema dell’immigrazione, ancora rappresentata come un fenomeno dovuto ad una sorta di “troppobuonismo” dei governi, mentre invece la mobilità internazionale della forza-lavoro costituisce una diretta conseguenza della mobilità internazionale dei capitali.
Poco più di un anno fa Matteo Salvini fu anche protagonista di una provocazione contro la Nigeria, da lui accusata di avergli negato il visto di entrata per una missione per “aiutare gli Africani a casa loro”, ovviamente portando investimenti. In realtà la Nigeria è una colonia come l’Italia e, come l’Italia, non soffre per la presunta mancanza di investimenti esteri, semmai per il contrario. Per aiutare gli Africani a casa loro e noi a casa nostra, occorrerebbe intanto bloccare quella “libera circolazione dei capitali” (alias imperialismo) di cui anche l’euro è un’espressione.
Anche la demagogia anti-immigrazione si risolve quindi in un espediente per non prendere atto della violenza del contesto coloniale. Viste le premesse, la “strategia” della Lega si riduce ad aspettarsi il regalo dal Babbo Natale Trump, o meglio, dalla lobby che lo ha spinto alla presidenza, sperando che sia davvero una lobby anti-globalizzazione.
La pubblicazione del “codice di comportamento” del M5S ha suscitato scontati commenti su presunte “svolte garantiste” o su “norme salva-Raggi”, ma anche in questo caso l’adesione del grillismo agli schemi della “rispettabilità” politica rimane immutata, poiché esso continua a considerare la condanna nel giudizio di primo grado come discriminante per eventuali dimissioni. Per un movimento che si era presentato come sfida all’establishment, risulta davvero ben strana questa sudditanza morale nei confronti della magistratura, come se questa non facesse parte a sua volta dell’establishment. Per un vero movimento di opposizione sarebbe stato più logico non vincolarsi a questioni di condanna di primo grado o di condanna definitiva, ma valutare caso per caso, proprio perché nessuna sentenza può ritenersi di per sé immune dal sospetto di essere originata da manovre di lobbying.
L’affanno e l’auto-discredito crescenti del M5S sono l’effetto di contraddizioni che erano palesi da anni e che sono scoppiate non appena i successi elettorali hanno avvicinato il movimento ad una possibilità di accedere al governo. La pretesa di risolvere le questioni con un presunto “onestismo” ha rappresentato per molti militanti del movimento la benda sugli occhi per evitare di prendere atto della violenza del contesto coloniale. A riguardo vi è nel 1976 il precedente del PCI di Enrico Berlinguer, che si arrese allo strapotere imperialistico della NATO adottando slogan diversivi come la “questione morale” ed il “governo degli onesti”: lo stesso mito di quella che si potrebbe chiamare “ortocrazia”, oggi invocata anche dal M5S.
Viene da supporre che lo stesso Grillo sia in realtà costretto a muoversi sotto la pressione di minacce alla sua persona, con la conseguenza di procedere per dichiarazioni stentoree e passetti ambigui. La proposta del M5S di sottoporre la questione della moneta unica ad un referendum consultivo restituisce appieno la dimensione di un’opposizione che non si oppone, che fa finta di non accorgersi che un eventuale referendum del genere si svolgerebbe sotto il ricatto di tempeste finanziarie e sotto l’attacco ad un debito pubblico al quale nei prossimi mesi verrà a mancare anche il peloso ombrello del Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi.
Da un punto di vista tecnico il venir meno della tutela di Draghi non dovrebbe preoccupare i nostri governi, in quanto non vi è nessun bisogno di collocare i nuovi titoli del debito pubblico sul “mercato” alla mercé degli speculatori. Un governo italiano potrebbe semplicemente emettere titoli a tasso zero ed usarli per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione. Da un punto di vista formale si tratterebbe di “prestiti forzosi”, ma in effetti si potrebbe considerarli come una vera e propria emissione della tanto agognata “moneta sovrana”.
Sennonché non si vive in un mondo ideale fatto di astratte scelte tecnico-economiche, bensì nel mondo materiale della concreta tecnica della violenza imperialistica, cioè della violenza nella sua accezione più diretta e brutale. Nel febbraio del 2003 il quotidiano britannico “The Guardian” ci informava dei vantaggi finanziari che il governo iracheno di Saddam Hussein stava riscuotendo facendosi pagare il petrolio in euro, accumulando anche crediti sulle banche francesi. Del resto tanti Paesi europei avevano desiderato di far parte dell’Eurozona proprio illudendosi di poter comprare petrolio ed altre materie prime in euro e non più in dollari.
Ma nel marzo del 2003 l’Iraq veniva invaso dagli Stati Uniti e l’inganno si svelava: gli USA avevano imposto la moneta unica europea in funzione del rafforzamento della disciplina della NATO in Europa e non perché avessero intenzione di tollerare la nascita di una valuta di riserva che facesse concorrenza al dollaro. La Francia, dapprima illusa e poi umiliata nelle sue ambizioni di leadership finanziaria, ha esibito dopo Chirac soltanto presidenti da pochade, i vari Sarkozy e Hollande, umili zerbini degli USA. Dopo Monti, Letta e Renzi, anche Gentiloni è corso in Francia ad inaugurare l’ennesimo “asse” con Hollande in funzione anti-austerity, ed i giornali fanno persino finta di crederci, come se ormai non si sapesse che Hollande in Europa, e non solo in Europa, è solo un passacarte. Delusa nelle aspirazioni globali, l’oligarchia francese se la prende con l’Italia, trasformata in una colonia finanziaria come le ex (?) colonie africane. Gentiloni ovviamente non ha perso occasione per ringraziare ufficialmente la Francia di questa colonizzazione (pardon, di questi “investimenti”).
A contrastare l’euro rimarrebbe la Lega di Salvini. Ma non è che la Lega adotta una battaglia giusta solo per usarla come veicolo per tutt’altri messaggi? Le ambiguità della Lega riguardano soprattutto il tema dell’immigrazione, ancora rappresentata come un fenomeno dovuto ad una sorta di “troppobuonismo” dei governi, mentre invece la mobilità internazionale della forza-lavoro costituisce una diretta conseguenza della mobilità internazionale dei capitali.
Poco più di un anno fa Matteo Salvini fu anche protagonista di una provocazione contro la Nigeria, da lui accusata di avergli negato il visto di entrata per una missione per “aiutare gli Africani a casa loro”, ovviamente portando investimenti. In realtà la Nigeria è una colonia come l’Italia e, come l’Italia, non soffre per la presunta mancanza di investimenti esteri, semmai per il contrario. Per aiutare gli Africani a casa loro e noi a casa nostra, occorrerebbe intanto bloccare quella “libera circolazione dei capitali” (alias imperialismo) di cui anche l’euro è un’espressione.
Anche la demagogia anti-immigrazione si risolve quindi in un espediente per non prendere atto della violenza del contesto coloniale. Viste le premesse, la “strategia” della Lega si riduce ad aspettarsi il regalo dal Babbo Natale Trump, o meglio, dalla lobby che lo ha spinto alla presidenza, sperando che sia davvero una lobby anti-globalizzazione.
giovedì 12 gennaio 2017
La Cia che lamenta ingerenze esterne è come se la mafia chiedesse legalità
Non ho alcuna simpatia per Trump, ma le denunce della CIA sulle
interferenze di Putin nella sua elezione, a naso mi sentono di bufala.
Ciò che più mi colpisce però è che l'agenzia di spionaggio del paese più
potente del mondo lamenti le ingerenze di una potenza estera sulla
politica interna. Se fosse vero sarebbe il segno di una crisi
dell'impero più potente della storia umana, una sorta di legge del contrappasso che colpisce gli autori di 70 anni di crimini contro la democrazia.
Dal 1945 ad oggi la CIA è intervenuta in tutti i continenti, in decine e decine di paesi, per condizionarne le scelte politiche, rovesciarne i governi, ucciderne i leader. Chi in Asia, Africa, America Latina rappresentasse la libertà e l'indipendenza economica dalle multinazionali USA, entrava nella lista nera dell'Agenzia, che faceva di tutto per eliminarlo. Sono tanti gli assassinati per opera o con il supporto della CIA,possono formare un galleria intera di martiri della democrazia e del socialismo, tra essi Ernesto Che Guevara e Salvador Allende. Fidel Castro è arrivato a 90 anni sventando decine di tentativi dell'Agenzia di eliminarlo. Accanto agli omicidi dei leader ci sono state le stragi di massa, milioni di persone vittime dei massacri nei golpe sostenuti dalla CIA in tutto il mondo. Nel nome della lotta al comunismo nella "civilissima" Europa la CIA ha organizzato veri colpi di stato, come quello dei colonnelli in Grecia nel 1967, e promosso e finanziato interferenze e azioni sporche continue nelle vicende politiche e sindacali, come in Italia prima di tutto.
Crollati l'Urss e il blocco sovietico, la CIA e le altre creature dell'impero americano si sono riconvertite nella lotta al terrorismo e per l'esportazione della democrazia. Gli effetti di queste azioni li subiamo con la guerra mondiale a pezzi in cui ci hanno precipitato. Per non perdere la vecchia mano però, la CIA ha continuato le sue guerre sporche in America Latina e contro la Russia, paese oggi capitalista che nulla ha che vedere con il socialismo reale, ma che comunque resta competitore della potenza USA. Così in Ucraina, grazie anche all'azione dell'Agenzia, si è installato il primo governo europeo con ministri neonazisti. E ora la CIA lamenta le interferenze degli hacker di Putin nella campagna elettorale presidenziale. Come se la mafia rivendicasse la legalità.
Ma non colpisce solo la sfacciataggine di tutto questo, ma che essa venga da uno degli strumenti cardine della capitale dell'impero. Che oggi lamenta interferenze esterne come uno dei tanti paesi sottoposti al suo dominio passato. È un segno che quello degli USA, come tutti gli altri imperi della storia umana, ha avviato il proprio declino. Impariamo ad affrontarlo.
Dal 1945 ad oggi la CIA è intervenuta in tutti i continenti, in decine e decine di paesi, per condizionarne le scelte politiche, rovesciarne i governi, ucciderne i leader. Chi in Asia, Africa, America Latina rappresentasse la libertà e l'indipendenza economica dalle multinazionali USA, entrava nella lista nera dell'Agenzia, che faceva di tutto per eliminarlo. Sono tanti gli assassinati per opera o con il supporto della CIA,possono formare un galleria intera di martiri della democrazia e del socialismo, tra essi Ernesto Che Guevara e Salvador Allende. Fidel Castro è arrivato a 90 anni sventando decine di tentativi dell'Agenzia di eliminarlo. Accanto agli omicidi dei leader ci sono state le stragi di massa, milioni di persone vittime dei massacri nei golpe sostenuti dalla CIA in tutto il mondo. Nel nome della lotta al comunismo nella "civilissima" Europa la CIA ha organizzato veri colpi di stato, come quello dei colonnelli in Grecia nel 1967, e promosso e finanziato interferenze e azioni sporche continue nelle vicende politiche e sindacali, come in Italia prima di tutto.
Crollati l'Urss e il blocco sovietico, la CIA e le altre creature dell'impero americano si sono riconvertite nella lotta al terrorismo e per l'esportazione della democrazia. Gli effetti di queste azioni li subiamo con la guerra mondiale a pezzi in cui ci hanno precipitato. Per non perdere la vecchia mano però, la CIA ha continuato le sue guerre sporche in America Latina e contro la Russia, paese oggi capitalista che nulla ha che vedere con il socialismo reale, ma che comunque resta competitore della potenza USA. Così in Ucraina, grazie anche all'azione dell'Agenzia, si è installato il primo governo europeo con ministri neonazisti. E ora la CIA lamenta le interferenze degli hacker di Putin nella campagna elettorale presidenziale. Come se la mafia rivendicasse la legalità.
Ma non colpisce solo la sfacciataggine di tutto questo, ma che essa venga da uno degli strumenti cardine della capitale dell'impero. Che oggi lamenta interferenze esterne come uno dei tanti paesi sottoposti al suo dominio passato. È un segno che quello degli USA, come tutti gli altri imperi della storia umana, ha avviato il proprio declino. Impariamo ad affrontarlo.
mercoledì 11 gennaio 2017
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione... e lo stress
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione. Una sorta
di "solidarietà espansiva" con l'obiettivo di lavorare meno e lavorare
tutti. È la proposta di legge di un consigliere della Regione Emilia
Romagna.
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione... e lo stress
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione. Una sorta di "solidarietà espansiva" con l'obiettivo di lavorare meno e lavorare tutti. Questo il tema della proposta di legge su cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva, consigliere della Regione Emilia Romagna, che propone di accorciare la settimana lavorativa per azzerare la disoccupazione, creando in questo modo "un posto di lavoro in più ogni quattro occupati". E, per attuare il modello in esame, servirebbe tagliare la settimana di lavoro da cinque a quattro giorni sfruttando uno strumento che già esiste, ossia i contratti di solidarietà espansiva, da incentivare e andando poi a coprire le ore mancanti con nuove assunzioni, con un impegno finanziario che per la Regione non sarebbe troppo oneroso. Un ritorno alla riforma sulla settimana corta degli anni Settanta. Un modello che, in caso di successo, potrebbe essere esportato in altre regioni, soprattutto in quelle che hanno grossi problemi di disoccupazione.
Nello scorso aprile dall'altra parte del mondo era venuto fuori il "Modello Venezuela", una proposta di legge presentata dal fronte di sinistra dell'erede di Hugo Chavez e attuale leader del Partito Socialista Unito Nicolas Maduro che aveva sperimentato la settimana lavorativa a 4 giorni su 7 fino a giugno. In quel caso la riduzione dell'orario di lavoro, possibilmente a parità di salario o almeno senza significative perdite a livello di retribuzione, è una delle soluzioni più radicali alla crisi in corso su scala mondiale.
Senza dimenticare che studi scientifici anche recenti dimostrano che l'aumento della produttività e le ricadute positive sulla salute dei dipendenti rendono l'opzione della settimana corta un antidoto a vecchie e nuove forme di crisi economica. Qualche tempo fa, l'Huffington Post aveva pubblicato uno studio secondo il quale la ricetta contro lo stress è, appunto, lavorare meno. A dimostrarlo scientificamente è stato uno dei medici più importanti della Gran Bretagna, il presidente della "Faculty of Public Health". La formula magica per vivere meglio è presto detta: lavorare 4 giorni a settimana, non di più. Secondo il professor John Ashton, adottando questo stile di vita, "le persone possono godersi di più il tempo libero, passare più momenti con la famiglia e ridurre i problemi di pressione che causano malattie anche mentali, dovute a un eccesso di carico di lavoro"". In un'articolata intervista a The Guardian, lo studioso aveva esposto la sua teoria evidenziando che "una cattiva distribuzione del lavoro è causa del peggioramento delle condizioni di salute di molte persone"
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione... e lo stress
Lavorare 4 giorni a settimana per ridurre la disoccupazione. Una sorta di "solidarietà espansiva" con l'obiettivo di lavorare meno e lavorare tutti. Questo il tema della proposta di legge su cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva, consigliere della Regione Emilia Romagna, che propone di accorciare la settimana lavorativa per azzerare la disoccupazione, creando in questo modo "un posto di lavoro in più ogni quattro occupati". E, per attuare il modello in esame, servirebbe tagliare la settimana di lavoro da cinque a quattro giorni sfruttando uno strumento che già esiste, ossia i contratti di solidarietà espansiva, da incentivare e andando poi a coprire le ore mancanti con nuove assunzioni, con un impegno finanziario che per la Regione non sarebbe troppo oneroso. Un ritorno alla riforma sulla settimana corta degli anni Settanta. Un modello che, in caso di successo, potrebbe essere esportato in altre regioni, soprattutto in quelle che hanno grossi problemi di disoccupazione.
Nello scorso aprile dall'altra parte del mondo era venuto fuori il "Modello Venezuela", una proposta di legge presentata dal fronte di sinistra dell'erede di Hugo Chavez e attuale leader del Partito Socialista Unito Nicolas Maduro che aveva sperimentato la settimana lavorativa a 4 giorni su 7 fino a giugno. In quel caso la riduzione dell'orario di lavoro, possibilmente a parità di salario o almeno senza significative perdite a livello di retribuzione, è una delle soluzioni più radicali alla crisi in corso su scala mondiale.
Senza dimenticare che studi scientifici anche recenti dimostrano che l'aumento della produttività e le ricadute positive sulla salute dei dipendenti rendono l'opzione della settimana corta un antidoto a vecchie e nuove forme di crisi economica. Qualche tempo fa, l'Huffington Post aveva pubblicato uno studio secondo il quale la ricetta contro lo stress è, appunto, lavorare meno. A dimostrarlo scientificamente è stato uno dei medici più importanti della Gran Bretagna, il presidente della "Faculty of Public Health". La formula magica per vivere meglio è presto detta: lavorare 4 giorni a settimana, non di più. Secondo il professor John Ashton, adottando questo stile di vita, "le persone possono godersi di più il tempo libero, passare più momenti con la famiglia e ridurre i problemi di pressione che causano malattie anche mentali, dovute a un eccesso di carico di lavoro"". In un'articolata intervista a The Guardian, lo studioso aveva esposto la sua teoria evidenziando che "una cattiva distribuzione del lavoro è causa del peggioramento delle condizioni di salute di molte persone"
martedì 10 gennaio 2017
Un segno della crisi dell'impero USA
Non ho alcuna simpatia per Trump, ma le denunce della CIA sulle
interferenze di Putin nella sua elezione a naso mi sembrano una bufala.
Ciò che più mi colpisce però è che l'agenzia di spionaggio del paese più
potente del mondo lamenti le ingerenze di una potenza estera sulla
politica interna. Se fosse vero sarebbe il segno di una crisi
dell'impero più potente della storia umana, una sorta di legge del
contrappasso che colpisce gli autori di 70 anni di crimini contro la
democrazia.
Dal 1945 ad oggi la CIA è intervenuta in tutti i continenti, in decine e decine di paesi, per condizionarne le scelte politiche, rovesciarne i governi, ucciderne i leader. Chi in Asia, Africa, America Latina rappresentasse la libertà e l'indipendenza economica dalle multinazionali USA, entrava nella lista nera dell'Agenzia, che faceva di tutto per eliminarlo. Sono tanti gli assassinati per opera o con il supporto della CIA, possono formare un galleria intera di martiri della democrazia e del socialismo, tra essi Ernesto Che Guevara e Salvador Allende. Fidel Castro è arrivato a 90 anni sventando decine di tentativi dell'Agenzia di eliminarlo. Accanto agli omicidi dei leader ci sono state le stragi di massa, milioni di persone vittime dei massacri nei golpe sostenuti dalla CIA in tutto il mondo. Nel nome della lotta al comunismo nella "civilissima" Europa la CIA ha organizzato veri colpi di stato, come quello dei colonnelli in Grecia nel 1967, e promosso e finanziato interferenze e azioni sporche continue nelle vicende politiche e sindacali, come in Italia prima di tutto.
Crollati l'Urss e il blocco sovietico, la CIA e le altre creature dell'impero americano si sono riconvertite nella lotta al terrorismo e per l'esportazione della democrazia. Gli effetti di queste azioni li subiamo con la guerra mondiale a pezzi in cui ci hanno precipitato. Per non perdere la vecchia mano però, la CIA ha continuato le sue guerre sporche in America Latina e contro la Russia, paese oggi capitalista che nulla ha che vedere con il socialismo reale, ma che comunque resta competitore della potenza USA. Così in Ucraina, grazie anche all'azione dell'Agenzia, si è installato il primo governo europeo con ministri neonazisti. E ora la CIA lamenta le interferenze degli hacker di Putin nella campagna elettorale presidenziale.
Come se la mafia rivendicasse la legalità. Ma non colpisce solo la sfacciataggine di tutto questo, ma che essa venga da uno degli strumenti cardine della capitale dell'impero. Che oggi lamenta interferenze esterne come uno dei tanti paesi sottoposti al suo dominio passato. È un segno che quello degli USA, come tutti gli altri imperi della storia umana, ha avviato il proprio declino. Impariamo ad affrontarlo.
Dal 1945 ad oggi la CIA è intervenuta in tutti i continenti, in decine e decine di paesi, per condizionarne le scelte politiche, rovesciarne i governi, ucciderne i leader. Chi in Asia, Africa, America Latina rappresentasse la libertà e l'indipendenza economica dalle multinazionali USA, entrava nella lista nera dell'Agenzia, che faceva di tutto per eliminarlo. Sono tanti gli assassinati per opera o con il supporto della CIA, possono formare un galleria intera di martiri della democrazia e del socialismo, tra essi Ernesto Che Guevara e Salvador Allende. Fidel Castro è arrivato a 90 anni sventando decine di tentativi dell'Agenzia di eliminarlo. Accanto agli omicidi dei leader ci sono state le stragi di massa, milioni di persone vittime dei massacri nei golpe sostenuti dalla CIA in tutto il mondo. Nel nome della lotta al comunismo nella "civilissima" Europa la CIA ha organizzato veri colpi di stato, come quello dei colonnelli in Grecia nel 1967, e promosso e finanziato interferenze e azioni sporche continue nelle vicende politiche e sindacali, come in Italia prima di tutto.
Crollati l'Urss e il blocco sovietico, la CIA e le altre creature dell'impero americano si sono riconvertite nella lotta al terrorismo e per l'esportazione della democrazia. Gli effetti di queste azioni li subiamo con la guerra mondiale a pezzi in cui ci hanno precipitato. Per non perdere la vecchia mano però, la CIA ha continuato le sue guerre sporche in America Latina e contro la Russia, paese oggi capitalista che nulla ha che vedere con il socialismo reale, ma che comunque resta competitore della potenza USA. Così in Ucraina, grazie anche all'azione dell'Agenzia, si è installato il primo governo europeo con ministri neonazisti. E ora la CIA lamenta le interferenze degli hacker di Putin nella campagna elettorale presidenziale.
Come se la mafia rivendicasse la legalità. Ma non colpisce solo la sfacciataggine di tutto questo, ma che essa venga da uno degli strumenti cardine della capitale dell'impero. Che oggi lamenta interferenze esterne come uno dei tanti paesi sottoposti al suo dominio passato. È un segno che quello degli USA, come tutti gli altri imperi della storia umana, ha avviato il proprio declino. Impariamo ad affrontarlo.
lunedì 9 gennaio 2017
Ecco quante bombe hanno sganciato gli Stati Uniti nel 2016
Sette anni dopo essere stato insignito del Premio Nobel per la Pace
per i suoi " straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia
internazionale e la cooperazione tra i popoli" nonostante fosse in
carica da meno di un anno e non avesse praticamente conseguito
praticamente nessun risultato tangibile nella diplomazia estera
all'epoca, il presidente Obama lascerà la Casa bianca dopo aver ordinato
il lancio di 26,171 bombe su altri paesi nel 2016 e 3.027 nel 2.015.
Secondo un'analisi del Council on Foreign Relations, la maggior parte delle bombe del 2016 di Obama sono state sganciate su Siria e Iraq. Nel frattempo, l'Afghanistan, con il presidente Obama che aveva promesso l'evacuazione totale delle truppe statunitensi entro la fine della sua presidenza, è stato bombardato oltre 1.300 volte, un aumento del 40% rispetto al 2015. Secondo quanto riporta McClatchy DC:
Gli Stati Uniti hanno sganciato il 79 per cento delle bombe della coalizione anti-ISIS in Siria e in Iraq, per un totale di 24.287. Tale cifra, insieme ad altre analizzate da CFR, è probabilmente inferiore al numero effettivo sganciato perché un attacco aereo può coinvolgere più bombe.
Obama ha fatto autorizzare un aumento delle truppe in Afghanistan - un conflitto che si era impegnato a porre fine durante la sua campagna - dove gli Stati Uniti hanno sganciato 1.337 bombe nel 2016. Ci sono attualmente 8.400 soldati nel paese, più di quanti Obama voleva inizialmente tenere lì alla fine del suo mandato. Gli Stati Uniti hanno sganciato 947 bombe in Afghanistan nel 2015.
Gli Stati Uniti hanno anche sganciato bombe in Libia nel 2016 più di quanto abbiano fatto nel 2015. Quasi 500 bombe sono state sganciate nel Paese nordafricano dalla caduta di Muammar Gheddafi nel 2011.
Secondo un'analisi del Council on Foreign Relations, la maggior parte delle bombe del 2016 di Obama sono state sganciate su Siria e Iraq. Nel frattempo, l'Afghanistan, con il presidente Obama che aveva promesso l'evacuazione totale delle truppe statunitensi entro la fine della sua presidenza, è stato bombardato oltre 1.300 volte, un aumento del 40% rispetto al 2015. Secondo quanto riporta McClatchy DC:
Gli Stati Uniti hanno sganciato il 79 per cento delle bombe della coalizione anti-ISIS in Siria e in Iraq, per un totale di 24.287. Tale cifra, insieme ad altre analizzate da CFR, è probabilmente inferiore al numero effettivo sganciato perché un attacco aereo può coinvolgere più bombe.
Obama ha fatto autorizzare un aumento delle truppe in Afghanistan - un conflitto che si era impegnato a porre fine durante la sua campagna - dove gli Stati Uniti hanno sganciato 1.337 bombe nel 2016. Ci sono attualmente 8.400 soldati nel paese, più di quanti Obama voleva inizialmente tenere lì alla fine del suo mandato. Gli Stati Uniti hanno sganciato 947 bombe in Afghanistan nel 2015.
Gli Stati Uniti hanno anche sganciato bombe in Libia nel 2016 più di quanto abbiano fatto nel 2015. Quasi 500 bombe sono state sganciate nel Paese nordafricano dalla caduta di Muammar Gheddafi nel 2011.
giovedì 5 gennaio 2017
La crescita esponenziale delle operazioni speciali Usa in Africa
L'Africa è stata teatro del maggior dispiegamento di truppe d'elite
americane rispetto a qualsiasi altra regione del globo negli ultimi
dieci anni, stando a dati appena rilasciati.
Nel 2006, solo l'1% dei commando inviati all'estero sono stati dispiegati in Africa. Nel 2016, il 17,26% di tutte le forze Usa operazioni speciali - Navy SEALs e berretti verdi - schierati all'estero sono stati inviati in Africa, secondo i dati forniti a The Intercept dallo US Special Operations Command. Questo dato è secondo solo al Grande Medio Oriente, dove gli Stati Uniti stanno conducendo la guerra in Afghanistan, Iraq, Siria e Yemen.
"Non siamo in guerra in Africa - ma i nostri partner africani lo sono certamente", ha dichiarato il Generale Donald Bolduc, comandante dello US Special Operations Command Africa, ad African Defense, una pubblicazione americana.
Tale affermazione è in netto contrasto con le missioni di quest'anno in Somalia, dove, ad esempio, le forze speciali Usa hanno assistito commando locali nell'uccidere diversi membri del gruppo militante, al-Shabab e in Libia, dove hanno sostenuto i combattenti locali contro i membri dello Stato Islamico .Queste missioni parlano di una crescita esponenziale delle operazioni speciali nel continente.
Nel 2014, ci sono stati solo circa 700 commando americani dispiegati in Africa. Oggi, secondo Bolduc, "ci sono circa
1.700 membri delle [forze speciali] schierati ... . Questa squadra è attiva in 20 nazioni a sostegno di sette maggiori operazioni "
Utilizzando i dati forniti dallo Special Operations Command e informazioni open source, The Intercept ha scoperto che forze speciali Usa sono state effettivamente impiegate in almeno 33 nazioni africane, oltre il 60% dei 54 paesi del continente, nel 2016.
"Stiamo sostenendo la professionalizzazione militare e la capacità di costruzione degli sforzi africani", ha detto Bolduc. "La rete delle [forze speciali] contribuisce a creare una specifica formazione su misura per nazioni partner per potenziare militari e le forze dell'ordine per condurre operazioni contro le minacce comuni"
La maggior parte dei governi africani che ha ospitato i commando americani nel 2016 hanno visto le proprie forze di sicurezza citate per violazioni dei diritti umani da parte del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, tra queste l'Algeria , Botswana , Burkina Faso , Burundi , Camerun , Repubblica democratica del Congo , Gibuti , Kenya , Mali , la Mauritania , il Niger , la Nigeria e la Tanzania
Secondo i dati forniti a The Intercept dallo Special Operations Command, truppe d'elite degli Stati Uniti sono anche schierate in Sudan, una delle tre nazioni, insieme a Iran e Siria, citati dagli Stati Uniti come "sponsor del terrorismo ".
Nel 2006, solo l'1% dei commando inviati all'estero sono stati dispiegati in Africa. Nel 2016, il 17,26% di tutte le forze Usa operazioni speciali - Navy SEALs e berretti verdi - schierati all'estero sono stati inviati in Africa, secondo i dati forniti a The Intercept dallo US Special Operations Command. Questo dato è secondo solo al Grande Medio Oriente, dove gli Stati Uniti stanno conducendo la guerra in Afghanistan, Iraq, Siria e Yemen.
"Non siamo in guerra in Africa - ma i nostri partner africani lo sono certamente", ha dichiarato il Generale Donald Bolduc, comandante dello US Special Operations Command Africa, ad African Defense, una pubblicazione americana.
Tale affermazione è in netto contrasto con le missioni di quest'anno in Somalia, dove, ad esempio, le forze speciali Usa hanno assistito commando locali nell'uccidere diversi membri del gruppo militante, al-Shabab e in Libia, dove hanno sostenuto i combattenti locali contro i membri dello Stato Islamico .Queste missioni parlano di una crescita esponenziale delle operazioni speciali nel continente.
Nel 2014, ci sono stati solo circa 700 commando americani dispiegati in Africa. Oggi, secondo Bolduc, "ci sono circa
1.700 membri delle [forze speciali] schierati ... . Questa squadra è attiva in 20 nazioni a sostegno di sette maggiori operazioni "
Utilizzando i dati forniti dallo Special Operations Command e informazioni open source, The Intercept ha scoperto che forze speciali Usa sono state effettivamente impiegate in almeno 33 nazioni africane, oltre il 60% dei 54 paesi del continente, nel 2016.
"Stiamo sostenendo la professionalizzazione militare e la capacità di costruzione degli sforzi africani", ha detto Bolduc. "La rete delle [forze speciali] contribuisce a creare una specifica formazione su misura per nazioni partner per potenziare militari e le forze dell'ordine per condurre operazioni contro le minacce comuni"
La maggior parte dei governi africani che ha ospitato i commando americani nel 2016 hanno visto le proprie forze di sicurezza citate per violazioni dei diritti umani da parte del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, tra queste l'Algeria , Botswana , Burkina Faso , Burundi , Camerun , Repubblica democratica del Congo , Gibuti , Kenya , Mali , la Mauritania , il Niger , la Nigeria e la Tanzania
Secondo i dati forniti a The Intercept dallo Special Operations Command, truppe d'elite degli Stati Uniti sono anche schierate in Sudan, una delle tre nazioni, insieme a Iran e Siria, citati dagli Stati Uniti come "sponsor del terrorismo ".
mercoledì 4 gennaio 2017
Al diavolo le banche, salviamo i cittadini
La buona notizia è che in Italia si sta costituendo il Comitato per
l’abolizione dei debiti illegittimi, aderente al coordinamento
internazionale denominato CADTM. La cattiva notizia è che l’anno 2016 si
chiude con un’ulteriore aggiunta di debito illegittimo che fa
veleggiare il debito pubblico italiano verso quota 2300 miliardi.
Ormai quale sia il vero ammontare del debito pubblico italiano lo sa solo il Ministro del Tesoro, dal momento che l’Unione Europea sta autorizzando aumenti di deficit esonerati dall’obbligo di essere conteggiati nell’ammontare complessivo del debito. Una sorta di autorizzazione al falso in bilancio per permettere agli stati di spendere in sovrappiù senza dare l’impressione di avere trasgredito le regole europee che tutti considerano inattuabili. L’ultimo atto di questa farsa è il provvedimento del Parlamento italiano che autorizza altri 20 miliardi di debito per salvare le banche.
Siamo tutti indignati con l’Unione Europea che in nome della riduzione del debito ci costringe a lacrime e sangue. Ma il rifiuto dell’austerità non significa automatica legittimazione di qualsivoglia sregolatezza. Sappiamo che ogni nuovo euro di debito si traduce in una spesa più alta per interessi, per cui l’indebitamento va limitato allo stretto indispensabile per soddisfare i bisogni sociali e ambientali di tutti i cittadini, privilegiando formule che pesano il meno possibile sugli anni a venire. Tutto quel debito che non risponde a questi criteri può essere considerato illegittimo e quindi ripudiato. Le somme autorizzate per il salvataggio delle banche ricadono in questa categoria.
Perfino i fautori del capitalismo duro e puro ci danno ragione: la dottrina liberista non ammette aiuti di stato alle aziende decotte, a maggior ragione se inguaiate per bancarotta fraudolenta. E non importa se si tratta di banche: ormai è lontano il tempo in cui gli istituti di credito si potevano considerare entità sociali che svolgevano il ruolo di intermediazione fra risparmiatori e investitori. Per le attività che svolgono oggi, le banche sono più paragonabili ad associazioni a delinquere che a comitati d’affari. Il modo in cui è stata gestita Monte dei Paschi negli ultimi dieci anni è emblematica in proposito. Si continua a dire che il problema del Monte sono i 49 miliardi di crediti inesigibili, ma di che si tratta veramente? Volendo usare le vecchie categorie concettuali, potremmo pensare che si tratta di soldi dati in prestito a imprenditori che hanno difficoltà a restituirli perché colpiti dalla crisi. Ma il grande calderone può comprendere anche operazioni che niente hanno a che fare con le imprese produttive: semplici investimenti speculativi banalmente finiti male. Per non parlare del fatto che molti dirigenti di banca cedono prestiti a complici che mai li restituiranno perché il loro vero obiettivo è spartirsi il bottino a danno della banca, ossia dei risparmiatori.
Nel 2007 Monte dei Paschi comprò la Banca Antonveneta per 9 miliardi di euro, ma considerato che si portava in dote una montagna di debiti, il costo reale per il Monte fu di 17 miliardi. Semplice errore di valutazione o acquisto fatto a sommo studio per arricchire qualcuno a danno del Monte? Non si saprà mai, ma di certo si sa che il Monte ci rimise una diecina di miliardi che cercò di nascondere sotto il tappeto con altre operazioni fasulle che procurarono altre perdite ancora. Perdite che alla fine cercò di rifinanziare con prestiti ottenuti da sprovveduti risparmiatori che allettati da un tasso di interesse al 4% ignorarono la clausola secondo la quale in caso di difficoltà della banca, il loro prestito si sarebbe trasformato in partecipazione proprietaria. Un modo elegante per dire che i loro soldi sarebbero andati persi.
Quella del Monte dei Paschi è una storia di normale fraudolenza che ha visto alcuni dirigenti condannati per falso in bilancio, mentre i veri profittatori se ne stanno in libertà in perfetto anonimato. Intanto anche JP Morgan e Mediobanca hanno avuto la loro parte di guadagno per avere svolto attività di consulenza e di intermediazione tesa a trovare investitori disposti a iniettare denaro nella banca decotta. Ma ottenuta la parcella, i paventati investitori del Qatar e di altri emirati arabi si sono dissolti come nebbia al sole. Ed ecco l’arrivo dello stato, non per salvare il Monte, ma per restituire i soldi ai suoi creditori. Salvo chiedersi che fine faranno i poveri sprovveduti che hanno acquistato obbligazioni trasformabili in azioni.
Dovremmo seguire l’esempio del popolo islandese che organizzò l’insurrezione appena sentì parlare di debito pubblico per riparare le malefatte dei banchieri scappati col malloppo. Alla fine lo stato sborsò comunque qualcosa, ma solo per salvaguardare i risparmi dei cittadini. Dal che si impara che indagine e selezione sono le due parole chiave per affrontare con senso di responsabilità i buchi delle banche: i depositi dei cittadini si tutelano, i soldi prestati dai grandi investitori si lasciano al loro destino. Per loro si tratta di operazioni di mercato che possono andare bene o possono andare male. Del resto, il rischio è la ragione per cui pretendono un tasso di interesse.
Non si può continuare all’infinito a pretendere l’applicazione dei principi liberisti per i cittadini e del protezionismo per i grandi capitali. Caso mai deve essere il contrario. E visto che ci siamo, precisiamo che se le banche sono troppo importanti per lasciarle fallire, allora che siano tolte di mano ai privati e siano affidate alla collettività con due soli scopi: raccogliere il risparmio popolare e metterlo a disposizione di famiglie ed imprese per investimenti socialmente e ambientalmente responsabili. Dopo la vittoria del 4 dicembre, il perseguimento di questo obiettivo sarebbe il modo giusto per continuare la nostra battaglia a favore della piena attuazione della Costituzione.
Ormai quale sia il vero ammontare del debito pubblico italiano lo sa solo il Ministro del Tesoro, dal momento che l’Unione Europea sta autorizzando aumenti di deficit esonerati dall’obbligo di essere conteggiati nell’ammontare complessivo del debito. Una sorta di autorizzazione al falso in bilancio per permettere agli stati di spendere in sovrappiù senza dare l’impressione di avere trasgredito le regole europee che tutti considerano inattuabili. L’ultimo atto di questa farsa è il provvedimento del Parlamento italiano che autorizza altri 20 miliardi di debito per salvare le banche.
Siamo tutti indignati con l’Unione Europea che in nome della riduzione del debito ci costringe a lacrime e sangue. Ma il rifiuto dell’austerità non significa automatica legittimazione di qualsivoglia sregolatezza. Sappiamo che ogni nuovo euro di debito si traduce in una spesa più alta per interessi, per cui l’indebitamento va limitato allo stretto indispensabile per soddisfare i bisogni sociali e ambientali di tutti i cittadini, privilegiando formule che pesano il meno possibile sugli anni a venire. Tutto quel debito che non risponde a questi criteri può essere considerato illegittimo e quindi ripudiato. Le somme autorizzate per il salvataggio delle banche ricadono in questa categoria.
Perfino i fautori del capitalismo duro e puro ci danno ragione: la dottrina liberista non ammette aiuti di stato alle aziende decotte, a maggior ragione se inguaiate per bancarotta fraudolenta. E non importa se si tratta di banche: ormai è lontano il tempo in cui gli istituti di credito si potevano considerare entità sociali che svolgevano il ruolo di intermediazione fra risparmiatori e investitori. Per le attività che svolgono oggi, le banche sono più paragonabili ad associazioni a delinquere che a comitati d’affari. Il modo in cui è stata gestita Monte dei Paschi negli ultimi dieci anni è emblematica in proposito. Si continua a dire che il problema del Monte sono i 49 miliardi di crediti inesigibili, ma di che si tratta veramente? Volendo usare le vecchie categorie concettuali, potremmo pensare che si tratta di soldi dati in prestito a imprenditori che hanno difficoltà a restituirli perché colpiti dalla crisi. Ma il grande calderone può comprendere anche operazioni che niente hanno a che fare con le imprese produttive: semplici investimenti speculativi banalmente finiti male. Per non parlare del fatto che molti dirigenti di banca cedono prestiti a complici che mai li restituiranno perché il loro vero obiettivo è spartirsi il bottino a danno della banca, ossia dei risparmiatori.
Nel 2007 Monte dei Paschi comprò la Banca Antonveneta per 9 miliardi di euro, ma considerato che si portava in dote una montagna di debiti, il costo reale per il Monte fu di 17 miliardi. Semplice errore di valutazione o acquisto fatto a sommo studio per arricchire qualcuno a danno del Monte? Non si saprà mai, ma di certo si sa che il Monte ci rimise una diecina di miliardi che cercò di nascondere sotto il tappeto con altre operazioni fasulle che procurarono altre perdite ancora. Perdite che alla fine cercò di rifinanziare con prestiti ottenuti da sprovveduti risparmiatori che allettati da un tasso di interesse al 4% ignorarono la clausola secondo la quale in caso di difficoltà della banca, il loro prestito si sarebbe trasformato in partecipazione proprietaria. Un modo elegante per dire che i loro soldi sarebbero andati persi.
Quella del Monte dei Paschi è una storia di normale fraudolenza che ha visto alcuni dirigenti condannati per falso in bilancio, mentre i veri profittatori se ne stanno in libertà in perfetto anonimato. Intanto anche JP Morgan e Mediobanca hanno avuto la loro parte di guadagno per avere svolto attività di consulenza e di intermediazione tesa a trovare investitori disposti a iniettare denaro nella banca decotta. Ma ottenuta la parcella, i paventati investitori del Qatar e di altri emirati arabi si sono dissolti come nebbia al sole. Ed ecco l’arrivo dello stato, non per salvare il Monte, ma per restituire i soldi ai suoi creditori. Salvo chiedersi che fine faranno i poveri sprovveduti che hanno acquistato obbligazioni trasformabili in azioni.
Dovremmo seguire l’esempio del popolo islandese che organizzò l’insurrezione appena sentì parlare di debito pubblico per riparare le malefatte dei banchieri scappati col malloppo. Alla fine lo stato sborsò comunque qualcosa, ma solo per salvaguardare i risparmi dei cittadini. Dal che si impara che indagine e selezione sono le due parole chiave per affrontare con senso di responsabilità i buchi delle banche: i depositi dei cittadini si tutelano, i soldi prestati dai grandi investitori si lasciano al loro destino. Per loro si tratta di operazioni di mercato che possono andare bene o possono andare male. Del resto, il rischio è la ragione per cui pretendono un tasso di interesse.
Non si può continuare all’infinito a pretendere l’applicazione dei principi liberisti per i cittadini e del protezionismo per i grandi capitali. Caso mai deve essere il contrario. E visto che ci siamo, precisiamo che se le banche sono troppo importanti per lasciarle fallire, allora che siano tolte di mano ai privati e siano affidate alla collettività con due soli scopi: raccogliere il risparmio popolare e metterlo a disposizione di famiglie ed imprese per investimenti socialmente e ambientalmente responsabili. Dopo la vittoria del 4 dicembre, il perseguimento di questo obiettivo sarebbe il modo giusto per continuare la nostra battaglia a favore della piena attuazione della Costituzione.
martedì 3 gennaio 2017
Germania sempre più diseguale
Nonostante la percezione comune di un paese economicamente forte la
Germania presenta oggi un quadro sociale preoccupante che avrà una forte
influenza sulle elezioni del prossimo autunno
Nel secondo dopoguerra l’economia neoclassica definiva l‘analisi della distribuzione nazionale del reddito un’attività non degna di attenzione, alla pari dell’osservazione dell’erba che cresce, come recitava un famoso adagio dell’epoca. Oggi il tema della disuguaglianza, intesa sia come disuguaglianza funzionale, riguardante la distribuzione del reddito nazionale tra reddito da capitale e reddito da lavoro, sia come distribuzione personale, ovvero come distribuzione del reddito tra individui o famiglie, è tornato al centro del dibattito economico internazionale (1).
A Marzo 2016 è uscito in Germania Verteilungskampf. Warum Deutschland immer ungleicher wird (Lotta per la distribuzione. Perchè la Germania diventa sempre più diseguale) scritto da Marcel Fratzscher presidente del centro studi DIW ( Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung ) di Berlino. Il quadro complessivo che emerge dal libro di Fratzscher è drammatico. Il paese che dal 2010 è cresciuto in media del 2% annuo esportando all’incirca il 45% del proprio prodotto interno lordo (2), possiede una distribuzione del capitale privato estremamente diseguale. Con un capitale privato pro-capite netto tra i più bassi d’Europa, circa 55.000 euro (circa 170.000 euro in Italia), la Germania ha un indice di Gini per lo stesso indicatore pari allo 0,76 quando la media dei paesi OCSE è dello 0,67 (Italia 0,61) (3). Una ricchezza disponibile limitata quindi e disegualmente distribuita, dovuta, secondo lo stesso Fratzscher, ai bassi rendimenti dei risparmi investiti, dalla scarsa tendenza all’acquisto della casa e dalla difficile mobilità sociale che impedisce l’accumulo di ricchezza diffuso.
Anche se il paese beneficia storicamente di alti salari, in particolare se confrontati con i paesi dell’area mediterranea dell’Unione Europea, la Germania ha registrato anche su questo fronte un consistente peggioramento. Il salario reale medio odierno in Germania è più basso di quello di venticinque anni fa. Essendo stata l’inflazione in questo lasso di tempo fortemente moderata, molti lavoratori hanno assistito ad una diminuzione del proprio salario reale. Tuttavia il reddito da capitale è cresciuto fortemente nel paese. Se dal 2000 il reddito da lavoro è cresciuto solo del 6%, il reddito da capitale è cresciuto di circa il 30%.
Analizzando i dati sui redditi personali tra il 1990 ed il 2008, Fratzscher mostra come nei diversi settori dell’economia (beni per uso domestico, beni manifatturieri da esportazione e servizi da esportazione), solamente i redditi della fascia più alta dei salariati (85° percentile (4)) siano cresciuti in tutti i settori, con la crescita maggiore registrata nel settore dei beni manifatturieri da esportazione (17%). Settore manifatturiero che ha visto crescere sia il salario mediano che il salario della fascia più bassa dei lavoratori (15° percentile) rispettivamente del 10% e 4%. Mentre i redditi mediani sono rimasti sostanzialmente invariati nel settore dei beni non commerciabili e dei servizi, la fascia bassa della distribuzione ha visto la propria fetta di reddito diminuire del 7% nel primo caso e di ben 15% nel secondo (5). Fratzscher fa inoltre notare come in Germania lo Stato abbia un ruolo fondamentale nella redistribuzione del reddito. Mentre con un coefficiente di Gini pari al 0,51 il salario di mercato in Germania è nel 2012 tra i più diseguali dei paesi altamente industrializzati dell’area OCSE (Stati Uniti 5,51; Regno Unito 0,52; Francia 0,5; Svezia 0,43), il reddito disponibile è invece tra i più egalitari, con un indice di Gini pari allo 0,29 a fronte dello 0,39 degli Stati Uniti.
Chi è ricco rimane ricco. Chi è povero rimane povero. A completare il quadro è la rigidità della società tedesca che rende difficile ai figli delle famiglie meno abbienti la scalata sociale e l’accumulo di ricchezza tramite l’educazione prima la carriera lavorativa poi. È infatti lo status sociale dei genitori che influenza più di ogni altro fattore lo sviluppo psicologico, sociale ed economico dei figli, come racconta Fratzscher nella storia di Paul e Lena, i due personaggi di finzione descritti all’inizio del lavoro. Uno studio del DIW ripreso in parte anche nel libro mostra inoltre come dal 2000 al 2012 il rischio di povertà sia aumentato dal 12% al 40%. A maggior rischio sono i giovani single dai 25 ai 35 anni che hanno appena iniziato la propria carriera lavorativa. Secondo questo studio, perfino essere parte attiva della forza lavoro del paese non allontana i giovani adulti dal rischio di rimanere senza la possibilità di costruire un proprio capitale ed un proprio futuro di successo (6).
Ma quali sono le cause delle diseguaglianze crescenti? Il libro suggerisce tre cause principali: 1) fattori transnazionali o comuni ad altre realtà nazionali come la globalizzazione ed il radicale mutamento dell’economia di mercato dovuta anche al potere crescente dei mercati finanziari, la digitalizzazione e la crescente individualizzazione e precarizzazione del mondo del lavoro; 2) la mancanza di eguali opportunità per tutti, intesa come possibilità di accesso ai lavori migliori con alti salari e opportunità di carriera dovuta principalmente agli scarsi investimenti in istruzione superiore ed universitaria da parte dei cittadini meno ricchi; 3) la “fiducia cieca nello Stato” e nella sua capacità di redistribuire reddito che, sempre secondo lo stesso autore, ridurrebbe l’accumulo di capitale privato e aumenterebbe la dipendenza dal sistema di welfare (7).
La disuguaglianza riduce la partecipazione ai processi democratici, distrugge i risparmi delle famiglie, incoraggia il ricorso al debito, aumenta la dipendenza dei cittadini dallo Stato riducendo l’iniziativa personale, impedisce lo sviluppo del capitale umano, acuisce il problema della povertà ed intacca la salute dei cittadini, così Fratzscher. Ma non solo. La disuguaglianza riduce la crescita economica del paese. Su questo stesso punto è apparso sempre nel 2016 uno studio della fondazione Friedrich Ebert realizzato da un gruppo di economisti del DIW che mostra come una distribuzione diseguale del reddito abbia ridotto la crescita del prodotto interno lordo. Lo studio ricalcola il PIL del paese nel 2015 mantenendo il livello dell’indice di Gini per il reddito netto delle famiglie pari al valore del 1990. Il rapporto conclude che nel 2015 il PIL sarebbe stato di 40 miliardi più alto se la disuguaglianza non fosse aumentata negli ultimi 25 anni.
Nesso distribuzione del reddito e crescita economica ampiamente studiato nella letteratura recente (8) ma che non trova tuttavia un consenso comune tra gli economisti in Germania. Uno studio multi-paese effettuato dall’IW di Colonia ( Institut der deutschen Wirtschaft ) dimostra come le tecniche econometriche utilizzati negli studi recenti (9) tendano a sovrastimare l’impatto della disuguaglianza sulla crescita economica specialmente nei paesi avanzati come la Germania (10). Uno studio degli stessi autori condotto su dati dello stesso istituto mostra inoltre come in Germania ed in altri paesi dell’Unione Europea la disuguaglianza percepita sia maggiore della disuguaglianza reale facendo aumentare la richiesta da parte dei cittadini di politiche maggiormente redistributive (11).
In conclusione, nonostante la percezione comune di un paese economicamente forte, dagli alti redditi e dal benessere diffuso, la Germania presenta oggi un quadro sociale preoccupante che avrà insieme altri temi di recente attualità una forte influenza sulle elezioni politiche nazionali del prossimo autunno e sul futuro stesso dell’Unione Europea.
Nel secondo dopoguerra l’economia neoclassica definiva l‘analisi della distribuzione nazionale del reddito un’attività non degna di attenzione, alla pari dell’osservazione dell’erba che cresce, come recitava un famoso adagio dell’epoca. Oggi il tema della disuguaglianza, intesa sia come disuguaglianza funzionale, riguardante la distribuzione del reddito nazionale tra reddito da capitale e reddito da lavoro, sia come distribuzione personale, ovvero come distribuzione del reddito tra individui o famiglie, è tornato al centro del dibattito economico internazionale (1).
A Marzo 2016 è uscito in Germania Verteilungskampf. Warum Deutschland immer ungleicher wird (Lotta per la distribuzione. Perchè la Germania diventa sempre più diseguale) scritto da Marcel Fratzscher presidente del centro studi DIW ( Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung ) di Berlino. Il quadro complessivo che emerge dal libro di Fratzscher è drammatico. Il paese che dal 2010 è cresciuto in media del 2% annuo esportando all’incirca il 45% del proprio prodotto interno lordo (2), possiede una distribuzione del capitale privato estremamente diseguale. Con un capitale privato pro-capite netto tra i più bassi d’Europa, circa 55.000 euro (circa 170.000 euro in Italia), la Germania ha un indice di Gini per lo stesso indicatore pari allo 0,76 quando la media dei paesi OCSE è dello 0,67 (Italia 0,61) (3). Una ricchezza disponibile limitata quindi e disegualmente distribuita, dovuta, secondo lo stesso Fratzscher, ai bassi rendimenti dei risparmi investiti, dalla scarsa tendenza all’acquisto della casa e dalla difficile mobilità sociale che impedisce l’accumulo di ricchezza diffuso.
Anche se il paese beneficia storicamente di alti salari, in particolare se confrontati con i paesi dell’area mediterranea dell’Unione Europea, la Germania ha registrato anche su questo fronte un consistente peggioramento. Il salario reale medio odierno in Germania è più basso di quello di venticinque anni fa. Essendo stata l’inflazione in questo lasso di tempo fortemente moderata, molti lavoratori hanno assistito ad una diminuzione del proprio salario reale. Tuttavia il reddito da capitale è cresciuto fortemente nel paese. Se dal 2000 il reddito da lavoro è cresciuto solo del 6%, il reddito da capitale è cresciuto di circa il 30%.
Analizzando i dati sui redditi personali tra il 1990 ed il 2008, Fratzscher mostra come nei diversi settori dell’economia (beni per uso domestico, beni manifatturieri da esportazione e servizi da esportazione), solamente i redditi della fascia più alta dei salariati (85° percentile (4)) siano cresciuti in tutti i settori, con la crescita maggiore registrata nel settore dei beni manifatturieri da esportazione (17%). Settore manifatturiero che ha visto crescere sia il salario mediano che il salario della fascia più bassa dei lavoratori (15° percentile) rispettivamente del 10% e 4%. Mentre i redditi mediani sono rimasti sostanzialmente invariati nel settore dei beni non commerciabili e dei servizi, la fascia bassa della distribuzione ha visto la propria fetta di reddito diminuire del 7% nel primo caso e di ben 15% nel secondo (5). Fratzscher fa inoltre notare come in Germania lo Stato abbia un ruolo fondamentale nella redistribuzione del reddito. Mentre con un coefficiente di Gini pari al 0,51 il salario di mercato in Germania è nel 2012 tra i più diseguali dei paesi altamente industrializzati dell’area OCSE (Stati Uniti 5,51; Regno Unito 0,52; Francia 0,5; Svezia 0,43), il reddito disponibile è invece tra i più egalitari, con un indice di Gini pari allo 0,29 a fronte dello 0,39 degli Stati Uniti.
Chi è ricco rimane ricco. Chi è povero rimane povero. A completare il quadro è la rigidità della società tedesca che rende difficile ai figli delle famiglie meno abbienti la scalata sociale e l’accumulo di ricchezza tramite l’educazione prima la carriera lavorativa poi. È infatti lo status sociale dei genitori che influenza più di ogni altro fattore lo sviluppo psicologico, sociale ed economico dei figli, come racconta Fratzscher nella storia di Paul e Lena, i due personaggi di finzione descritti all’inizio del lavoro. Uno studio del DIW ripreso in parte anche nel libro mostra inoltre come dal 2000 al 2012 il rischio di povertà sia aumentato dal 12% al 40%. A maggior rischio sono i giovani single dai 25 ai 35 anni che hanno appena iniziato la propria carriera lavorativa. Secondo questo studio, perfino essere parte attiva della forza lavoro del paese non allontana i giovani adulti dal rischio di rimanere senza la possibilità di costruire un proprio capitale ed un proprio futuro di successo (6).
Ma quali sono le cause delle diseguaglianze crescenti? Il libro suggerisce tre cause principali: 1) fattori transnazionali o comuni ad altre realtà nazionali come la globalizzazione ed il radicale mutamento dell’economia di mercato dovuta anche al potere crescente dei mercati finanziari, la digitalizzazione e la crescente individualizzazione e precarizzazione del mondo del lavoro; 2) la mancanza di eguali opportunità per tutti, intesa come possibilità di accesso ai lavori migliori con alti salari e opportunità di carriera dovuta principalmente agli scarsi investimenti in istruzione superiore ed universitaria da parte dei cittadini meno ricchi; 3) la “fiducia cieca nello Stato” e nella sua capacità di redistribuire reddito che, sempre secondo lo stesso autore, ridurrebbe l’accumulo di capitale privato e aumenterebbe la dipendenza dal sistema di welfare (7).
La disuguaglianza riduce la partecipazione ai processi democratici, distrugge i risparmi delle famiglie, incoraggia il ricorso al debito, aumenta la dipendenza dei cittadini dallo Stato riducendo l’iniziativa personale, impedisce lo sviluppo del capitale umano, acuisce il problema della povertà ed intacca la salute dei cittadini, così Fratzscher. Ma non solo. La disuguaglianza riduce la crescita economica del paese. Su questo stesso punto è apparso sempre nel 2016 uno studio della fondazione Friedrich Ebert realizzato da un gruppo di economisti del DIW che mostra come una distribuzione diseguale del reddito abbia ridotto la crescita del prodotto interno lordo. Lo studio ricalcola il PIL del paese nel 2015 mantenendo il livello dell’indice di Gini per il reddito netto delle famiglie pari al valore del 1990. Il rapporto conclude che nel 2015 il PIL sarebbe stato di 40 miliardi più alto se la disuguaglianza non fosse aumentata negli ultimi 25 anni.
Nesso distribuzione del reddito e crescita economica ampiamente studiato nella letteratura recente (8) ma che non trova tuttavia un consenso comune tra gli economisti in Germania. Uno studio multi-paese effettuato dall’IW di Colonia ( Institut der deutschen Wirtschaft ) dimostra come le tecniche econometriche utilizzati negli studi recenti (9) tendano a sovrastimare l’impatto della disuguaglianza sulla crescita economica specialmente nei paesi avanzati come la Germania (10). Uno studio degli stessi autori condotto su dati dello stesso istituto mostra inoltre come in Germania ed in altri paesi dell’Unione Europea la disuguaglianza percepita sia maggiore della disuguaglianza reale facendo aumentare la richiesta da parte dei cittadini di politiche maggiormente redistributive (11).
In conclusione, nonostante la percezione comune di un paese economicamente forte, dagli alti redditi e dal benessere diffuso, la Germania presenta oggi un quadro sociale preoccupante che avrà insieme altri temi di recente attualità una forte influenza sulle elezioni politiche nazionali del prossimo autunno e sul futuro stesso dell’Unione Europea.
lunedì 2 gennaio 2017
Povertà, cresce l’esercito degli italiani
Sono 1554 le persone che nel 2015 si sono rivolte ai servizi della
Caritas. Per la prima volta cresce la percentuale degli italiani
rispetto a quella degli immigrati. Dal 2007 al 2016 i primi sono passati
dal 27,7 al 35,2%, i secondi invece fanno registrare una diminuzione
percentuale e cioè passano dal 72,3 al 64,8%. In termini assoluti però,
su 1554 persone, poco meno di 800 vengono da un Paese diverso
dall'Italia.
Rispetto agli precedenti comunque, non vi è una sostanziale differenza, la povertà si arresta ma si complica, si complica soprattutto l'uscita dallo stato di bisogno economico susseguente a perdita del lavoro e della casa. Il report, in maniera implacabile, infatti, denuncia che «le situazioni di povertà cronica, ossia di persone seguite da almeno sei anni, riguardano circa un quarto (25%) di tutte le persone incontrate. E una persona su quattro è seguita da almeno sei anni».
Anche a Pisa la povertà è una trappola che imprigiona e da cui si fatica ad emergere e a ritrovare autonomia: il 25% di tutti coloro che nel 2015 i sono rivolti ad un centro di ascolto della Caritas, è in carico alla stessa almeno dal 2009. In valore assoluto significa 389 persone (109 italiani e 280 stranieri). I "nuovi poveri", ossia coloro che hanno bussato per la prima volta alla porta delle Caritas nel 2015, invece, sono 605 persone, oltre un terzo del totale (38,9%), un'incidenza elevata ma in diminuzione rispetto al 52,3% dell'anno precedente. Il primo fattore che porta alla povertà è la perdita o mancanza di un lavoro. Tre su quattro non hanno un lavoro.
In totale, sono 1.041 le persone prive di occupazione che nel 2015 hanno chiesto l'aiuto della Caritas. Piu o meno quasi esattamente lo stesso numero dell'anno precedente quando furono 1.043. In termini percentuali significa che si trova in tale condizione circa il 70,8%. L'altra faccia della medaglia, però, è quella di chi un lavoro o, comunque, un reddito e una casa stabile ce l'hanno ma nel 2015 hanno comunque avuto bisogno della Caritas: nei precedenti dodici mesi, infatti, ha segnalato di avere un regolare rapporto di lavoro il 14,3% delle persone incontrate mentre ha un'abitazione stabile, prevalentemente in affitto o in case popolari, addirittura il 52,8% delle stesse. Tra quanti si sono rivolti alla Caritas,il 13,8% vive in condizioni di marginalità abitativa. In una baracca piuttosto che in roulotte o sotto qualche portico. Situazioni di grave marginalità abitativa insomma, e il dato è leggermente superiore alla media regionale e cresce ulteriormente con riferimento agli uomini stranieri, un quinto dei quali (20,8%) vive in una situazione del genere. La Caritas traccia anche il profilo dei nuovi poveri: si tratta di 216 persone che sono uomini soli, senza lavoro, con più di 50 anni e sono celibi o separati. Don Emanuele Morelli direttore della Caritas tira le fila del report dicendo: «I nostri servizi dovrebbero servire non a nascondere ma a far uscire le povertà invisibili e dimenticate, alla coltre di nascondimento che le pervade affinchè una maggior consapevolezza di tutti ci aiuti ad essere comunità che accoglie ed integra, e che promuove cittadinanza piena». «Papa Francesco - ha proseguito - fin dal primo giorno ci ha esortato a metterci in cammino, a raggiungere quelle periferie esistenziali dove l'umanità esclusa chiede lavoro, dignità e giustizia. Come possiamo stare tranquilli sapendo che nella nostra città ci sono ad esempio più di 400 ragazzi
che hanno minori opportunità educative, culturali e ricreative dei loro coetanei più fortunati? Non possiamo continuare ad offrire "stampelle" che generano dipendenza, servono "opportunità" che liberano dalla necessità di ricevere aiuto».
Rispetto agli precedenti comunque, non vi è una sostanziale differenza, la povertà si arresta ma si complica, si complica soprattutto l'uscita dallo stato di bisogno economico susseguente a perdita del lavoro e della casa. Il report, in maniera implacabile, infatti, denuncia che «le situazioni di povertà cronica, ossia di persone seguite da almeno sei anni, riguardano circa un quarto (25%) di tutte le persone incontrate. E una persona su quattro è seguita da almeno sei anni».
Anche a Pisa la povertà è una trappola che imprigiona e da cui si fatica ad emergere e a ritrovare autonomia: il 25% di tutti coloro che nel 2015 i sono rivolti ad un centro di ascolto della Caritas, è in carico alla stessa almeno dal 2009. In valore assoluto significa 389 persone (109 italiani e 280 stranieri). I "nuovi poveri", ossia coloro che hanno bussato per la prima volta alla porta delle Caritas nel 2015, invece, sono 605 persone, oltre un terzo del totale (38,9%), un'incidenza elevata ma in diminuzione rispetto al 52,3% dell'anno precedente. Il primo fattore che porta alla povertà è la perdita o mancanza di un lavoro. Tre su quattro non hanno un lavoro.
In totale, sono 1.041 le persone prive di occupazione che nel 2015 hanno chiesto l'aiuto della Caritas. Piu o meno quasi esattamente lo stesso numero dell'anno precedente quando furono 1.043. In termini percentuali significa che si trova in tale condizione circa il 70,8%. L'altra faccia della medaglia, però, è quella di chi un lavoro o, comunque, un reddito e una casa stabile ce l'hanno ma nel 2015 hanno comunque avuto bisogno della Caritas: nei precedenti dodici mesi, infatti, ha segnalato di avere un regolare rapporto di lavoro il 14,3% delle persone incontrate mentre ha un'abitazione stabile, prevalentemente in affitto o in case popolari, addirittura il 52,8% delle stesse. Tra quanti si sono rivolti alla Caritas,il 13,8% vive in condizioni di marginalità abitativa. In una baracca piuttosto che in roulotte o sotto qualche portico. Situazioni di grave marginalità abitativa insomma, e il dato è leggermente superiore alla media regionale e cresce ulteriormente con riferimento agli uomini stranieri, un quinto dei quali (20,8%) vive in una situazione del genere. La Caritas traccia anche il profilo dei nuovi poveri: si tratta di 216 persone che sono uomini soli, senza lavoro, con più di 50 anni e sono celibi o separati. Don Emanuele Morelli direttore della Caritas tira le fila del report dicendo: «I nostri servizi dovrebbero servire non a nascondere ma a far uscire le povertà invisibili e dimenticate, alla coltre di nascondimento che le pervade affinchè una maggior consapevolezza di tutti ci aiuti ad essere comunità che accoglie ed integra, e che promuove cittadinanza piena». «Papa Francesco - ha proseguito - fin dal primo giorno ci ha esortato a metterci in cammino, a raggiungere quelle periferie esistenziali dove l'umanità esclusa chiede lavoro, dignità e giustizia. Come possiamo stare tranquilli sapendo che nella nostra città ci sono ad esempio più di 400 ragazzi
che hanno minori opportunità educative, culturali e ricreative dei loro coetanei più fortunati? Non possiamo continuare ad offrire "stampelle" che generano dipendenza, servono "opportunità" che liberano dalla necessità di ricevere aiuto».