venerdì 28 ottobre 2016

I miei 10 motivi per votare NO al referendum costituzionale

Credo che la Costituzione si possa cambiare solo con la somma di tutte le forze politiche e non con la divisione voluta da chi comanda per farne una battaglia personale.
Io voterò NO perché credo che la Costituzione si possa cambiare solo con la somma di tutte le forze politiche e non con la divisione voluta da chi comanda per farne una battaglia personale.
Io voterò NO perché vorrei che la sovranità appartenesse al popolo e non gli venisse tolta con una sottrazione di democrazia compiuta da politici autoritari.
Io voterò NO perché penso che, in una fase di crisi della partecipazione, di astensionismo e di allontanamento dei cittadini dalla politica, occorra moltiplicare le occasioni di democrazia invece che ridurle.
Io voterò NO perché questa cosiddetta riforma renderà sempre più difficile la partecipazione delle persone alla vita politica triplicando il numero di firme necessarie per presentare le Leggi di Iniziativa Popolare (da 50 mila a 150 mila) ed aumentando notevolmente quelle per i Referendum (da 500 mila ad 800 mila).
Io voterò NO perché intervenire su 47 articoli della Costituzione su un totale di 135 vuol dire inevitabilmente metter in discussione anche i Principi Fondamentali e la Parte Prima sui diritti e doveri dei cittadini.
Io voterò NO perché non mi interessa risparmiare 50 milioni sulla democrazia se poi bisognerà pagare un prezzo spropositato per subire una oligarchia; inoltre preferirei risparmiare quei soldi sull'acquisto di un aereo da guerra F35 che avere un Parlamento con meno senatori eletti.
Io voterò NO perché non mi piace che lo Stato possa intervenire sulle tante materie di competenza delle Regioni in ragione di un interesse nazionale deciso da pochi interessati.
Io voterò NO perché non mi interessano quelli che semplificano la realtà per confonderti; preferisco quelli che si impegnano per spiegarti la complessità.
Io voterò NO perché non mi piacciono quelli che si presentano come "buoni, nuovi e rinnovatori" ed indicano come "cattivi, vecchi e conservatori" quelli che non la pensano come loro.
Io voterò NO perché non credo alle bugie dei potenti che dicono che "se vince il NO" succederanno disastri perché in tal modo usano l'arma di distrazione di massa della cattiva informazione per nascondere i disastri che hanno già provocato intervenendo in maniera dispotica nella scuola, nella sanità, nel lavoro e nella vita quotidiana delle persone.

giovedì 27 ottobre 2016

I civili non sono tutti uguali

In queste ultime settimane non si fa che leggere dell’utilizzo di scudi umani in Iraq da parte dello Stato Islamico. Era dai tempi della prima guerra del Golfo che non si faceva riferimento a questa pratica vietata dalla quarta convenzione di Ginevra. Se Saddam Hussein fu il primo a ricorrere all’uso di cittadini stranieri (specialmente inglesi e americani) per proteggere i palazzi governativi dai raid della coalizione, in seguito solo sporadicamente furono avanzate accuse simili contro i Talebani, Hamas, Gheddafi e Assad, senza che ne sia però mai stata portata alcuna prova . La spiegazione infatti è abbastanza semplice: utilizzare i propri cittadini come scudi contro i bombardamenti non è funzionale neppure per il peggiore e più sanguinario regime – che anzi si regge sul consenso della propria popolazione -; ma neppure offre un gran deterrente nei confronti del nemico, che può legittimamente infischiarsene delle vittime, dal momento che non solo non sono suoi connazionali, ma può anche servirsene per denunciare l’atrocità del governo che combatte. Inoltre, anche se le leggi internazionali proibiscono l’uso di colpire i civili, è consentito agli eserciti di attaccare obiettivi sensibili e legittimi, considerando i caduti alla stregua di “danni collaterali”, a patto che questi siano proporzionali ai danni inflitti al nemico.
Già, ma chi stabilisce quale sia la corretta proporzione e soprattutto, se Saddam in questo modo voleva preservare edifici conosciuti all’intelligence occidentale, quale sarebbe invece il vantaggio per l’Isis di raggruppare inermi civili intorno obiettivi sensibili, smascherandone così il loro occultamento e la loro funzione? Come riportato da molte testate occidentali, gli uomini di al-Baghdadi starebbero rastrellando diversi villaggi per utilizzarne gli abitanti in questo modo; eppure contemporaneamente avrebbero anche giustiziato centinaia di civili, gettandoli in fosse comuni nei dintorni di Mosul. Un’evidente contraddizione: perché uccidere proprio coloro che sarebbero più utili da vivi? Certo, i miliziani del Califfato non sono iracheni né siriani, quindi tecnicamente non starebbero eliminando i propri concittadini e magari si starebbero concentrando sulle minoranze a loro sgradite; ma comunque perché proprio ora starebbero facendo fuori i loro preziosi scudi umani?
Non si parla di una nuova tregua dopo quella, unilaterale di tre giorni, decretata dai russi per consentire ai civili e ai feriti di uscire dai quartieri controllati dai miliziani islamici. Nessuno ne ha approfittato per mettersi in salvo e questo perché le bande armate che tengono Aleppo est hanno aperto il fuoco su chiunque provasse ad andarsene.
Confuse e contraddittorie sono le notizie che giungono ultimamente dal fronte iracheno: alcuni scrivono che la dirigenza dell’Isis starebbe fuggendo verso Raqqa; altri l’esatto opposto; eppure tutti concordano nel sostenere che i convogli motorizzati degli jihadisti si muovano liberamente da una parte all’altra della frontiera – forse allora carichi di scudi umani che garantiscano la sicurezza del viaggio? -; anche se resta altamente improbabile che i jet della coalizione o dei russi risparmierebbero questi facili obiettivi, se al loro interno fossero a conoscenza della presenza di importanti esponenti. Difficilmente la presenza di questi scudi umani li fermerebbe dall’eliminare il califfo in persona o i suoi luogotenenti. Sarebbe assai “proporzionale” al risultato bellico. Singolare è poi come l’utilizzo di scudi umani salti fuori proprio ora – al quinto anno di guerra -, in coincidenza con l’offensiva a Mosul, quasi – a voler pensare male – nel tentativo di “mettere le mani avanti” sulle vittime civili che i bombardamenti sulla seconda città più popolosa dell’Iraq inevitabilmente provocheranno. Eppure a ben vedere in ogni conflitto che si svolga in contesti urbani densamente abitati tutti i civili sono di fatto degli scudi umani; non occorre che le loro case siano sfruttate come depositi di munizioni o centri comando.
Gli stessi cittadini di Aleppo est non sono forse scudi umani utilizzati dai terroristi per impedire il bombardamento massiccio della città e l’ingresso dell’esercito nel quartiere? L’ultima breve tregua concessa dai russi per permettere agli abitanti di Aleppo est di abbandonare la zona dei combattimenti è fallita; non perché i residenti abbiano deciso di resistere fino all’ultimo respiro come a Leningrado o a Stalingrado, ma più semplicemente perché i cosiddetti “corridoi umanitari” da cui sarebbero dovuti uscire sono stati oggetto del continuo fuoco dei cecchini. Anche tre soldati russi sono stati feriti ai check-point. D’altronde gli abitanti di Aleppo sono preziosi per i terroristi, anche se nessuno gli chiama scudi umani. Forse perché per essere considerati tali devi essere oggetto delle bombe occidentali; mentre sotto quelle di fabbricazione russa si tratta solo di ingiustificate inermi vittime civili.

mercoledì 26 ottobre 2016

La NATO si appresta alla guerra. E ci trascina in un conflitto che non ci appartiene

Nell’estate 2016, la NATO ha già dispiegato 4 battaglioni, che comprendono 1000 uomini l’uno, rispettivamente in Polonia, Lettonia, Lituania ed Estonia. È stato dichiarato che i battaglioni saranno costantemente riforniti di militari provenienti dai Paesi di tutto il blocco NATO.
Tuttavia, questi battaglioni non rappresentano una reale minaccia per la Russia. Alle esercitazioni militari dell’esercito russo di quest’anno hanno, infatti, partecipato oltre 100 mila soldati — una spiacevole sorpresa per i generali della NATO.
In caso di un eventuale conflitto, tuttavia, gli unici a trarne qualche beneficio sarebbero i Paesi Baltici: Lettonia, Lituania ed Estonia, infatti, sono i Paesi più filo-americani dell’Unione Europea e, trovandosi direttamente a confine con la Russia, intendono apparire come “eroi” impegnati in prima fila a proteggere la UE dalla “minaccia russa”.
Una guerra aperta con la Russia sarebbe però estremamente dannosa per tutti i Paesi coinvolti, e soprattutto per i Paesi dell’Unione Europea, che sarebbero costretti a confrontarsi con il colosso militare russo.
L’Italia, inoltre, non avrebbe alcun interesse a schierarsi militarmente contro la Russia in un conflitto aperto; in quel caso, la posizione italiana sarebbe accolta molto negativamente in Russia, anche se si tratterebbe solo di una puntura di zanzara e non di un vero pericolo per l’esercito russo.
Già una volta, nella Seconda Guerra Mondiale, l’Italia aveva fatto parte di una coalizione militare contro la Russia, con risultati disastrosi per le truppe italiane, mentre l’Unione Sovietica sedeva al tavolo dei vincitori al termine del conflitto.

martedì 25 ottobre 2016

IL PILOTA AUTOMATICO DELLA NATO

Le campagne presidenziali negli USA non hanno mai toccato vette entusiasmanti, ma la disputa Trump-Clinton esibisce un livello talmente basso da rappresentare una delle peggiori cadute di immagine del sistema americano. Bisogna comunque ammettere che la polemica tra la Clinton e Trump presenta qua e là toni veritieri che non temono smentita. Hillary accusa Trump di essere un satiro che usa i suoi soldi per molestare le donne, e Hillary se ne intende di satiri, visto che ne ha sposato uno. Donald accusa la Clinton di essere una psicopatica che va avanti a botte di psicofarmaci, ed ha sicuramente ragione anche lui.
Nel 2013 il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ai giornalisti che gli chiedevano un parere sulle incertezze della situazione politica in Italia, rispose che, quale che fosse il governo italiano che si andava a formare, ormai per le “riforme strutturali” era stato inserito il pilota automatico. Oggi un emulo americano di Mario Draghi potrebbe da un momento all’altro venire a rassicurarci rivelandoci che, quale che sia il presidente in carica, la politica “estera” (ovvero imperialistica) degli USA non cambierà, dato che anche lì è stato ormai inserito il pilota automatico. E pare proprio che nel programma del pilota automatico ci sia la rotta di collisione con la Russia.
Dal segretario generale della NATO abbiamo anche appreso che tra le truppe schierate a “difesa” dei Paesi Baltici vi sarà una presenza “simbolica” dell’esercito italiano. Ma i simboli sono più che sufficienti per inguaiarsi, vista la reazione di Mosca nei confronti del governo italiano.
Perché poi i Paesi Baltici avrebbero bisogno di essere “difesi”? Ci viene detto che essi temono l’effetto-Crimea, cioè di essere nuovamente annessi all’impero russo. Ma un rischio del genere è semmai attivato dall’eccesso di “difesa”.
La lobby russa dell’export di gas e petrolio ha spinto per il ridimensionamento dell’impero in quanto voleva trasformare gli ex sudditi, già consumatori a sbafo, in clienti paganti. Su questa base commerciale l’azienda russa Gazprom è riuscita a costruire le prime risorse finanziarie che le hanno permesso negli anni di diventare un soggetto affaristico del tutto autonomo, anzi rampante. E proprio il fatto che gli obiettivi affaristici di Gazprom siano stati raggiunti, ha comportato l’irritazione delle multinazionali statunitensi e quindi le provocazioni della NATO in Ossezia nel 2008 ed in Ucraina nel 2013, dove si è verificato nientemeno che un colpo di Stato nel quale sono risultati determinanti elementi nazisti. Le successive sanzioni economiche di USA e UE contro la Russia sono andate a colpire ovviamente l’export di materie prime, perciò ad indebolire la relativa lobby rafforzando le posizioni dell’esercito russo. Oggi Gazprom non ha più a disposizione la valanga di soldi che le consentiva di corrompere e tenere buoni i generali, i quali, ovviamente, fanno la voce sempre più grossa, sino a resuscitare sogni imperiali per ricostituire attorno alla Russia una “fascia di sicurezza”.
La disciplina di marca NATO delle sanzioni economiche dell’Unione Europea alla Russia presenta intanto delle crepe evidenti. Il governo tedesco ha addirittura approfittato delle condizioni contrattuali più favorevoli che la Russia era costretta a concedere a causa delle sanzioni. La Germania ha così potuto migliorare le condizioni finanziarie ed infrastrutturali del suo approvvigionamento di gas russo, cosa che ha provocato le proteste del governo più ligio alle sanzioni stesse, cioè quello italiano, che però è anche il governo che conta meno nelle decisioni.
Quindi, se l’obiettivo della NATO era quello di puntellare la disciplina UE, ci si è riusciti solo con il Paese politicamente più debole.
Matteo Renzi ha acquisito molto del suo stile dall’amico Roberto Benigni, un comico caratterizzatosi per un esteriore atteggiamento trasgressivo ed un sostanziale servilismo. Non per niente Renzi ha voluto esibire Benigni nella visita a Obama come vanto dell’italian style.
Il problema è che la messinscena euro-renziana del piglio baldanzoso e delle brache calate sta trasformando l’economia italiana in una mina vagante che potrebbe deflagrare prima del previsto, ed in tal caso non ci sarebbero “quantitative easing” o troike che tengano. Paesi come la Spagna sono invece riusciti a barcamenarsi ignorando le euro-restrizioni più suicide. Ma la Spagna non ha sul suo territorio basi NATO e USA del peso strategico di quelle italiane, ed inoltre la sua economia ha un ruolo periferico. Il pilota automatico imposto ai governi italiani sta rivelandosi più minaccioso per la sopravvivenza dell’UE dell’indisciplina degli altri Paesi.
Ai vertici della NATO e del Pentagono non vi sono delle cime, ma constatazioni del genere sono comunque alla loro portata. Probabilmente però c’è ancora chi pensa che una nuova guerra fredda possa compattare un’Unione Europea traballante e quindi preservare questa storica appendice della NATO. C’è sicuramente anche chi pensa di spingere sull’acceleratore delle provocazioni per favorire una dissoluzione della Russia, da sostituire con una serie di petro-staterelli, altrettanti feudi delle multinazionali del petrolio. Altri pensano che non si potrà indefinitamente tenere a freno lo sviluppo della Russia e della Cina imponendo al mondo altri decenni di stagnazione economica, perciò tanto vale affrontare adesso lo shock bellico. Altri ancora, più saggiamente, non pensano nulla, perché è comunque il pilota automatico a comandare.

lunedì 24 ottobre 2016

Gli USA si sono resi conto da 2 anni che non possono deporre Assad

Secondo l’ex ambasciatore Usa in Arabia Saudita, da due anni il governo degli Stati Uniti è certo che non si può deporre il presidente siriano Bashar al-Assad.
"Gli Stati Uniti hanno realizzato due anni fa, che non avrebbero potuto rovesciare il presidente siriano, Bashar al-Assad, e che è meglio scegliere una soluzione diplomatica al conflitto siriano", ha dichiarato l'ex ambasciatore degli Stati Uniti i in Arabia Saudita Richard W. Murphy in un'intervista con il quotidiano libanese Al-Akhbar.
Egli ha aggiunto che alcuni paesi arabi del Golfo cercano di riprodurre lo scenario afgano per abbattere Al-Assad. Tuttavia, gli Stati Uniti d'America si sono resi conto che non è possibile deporre il presidente siriano perché Washington ritiene che Al-Assad potrebbe essere parte di un futuro processo politico, anche se non tutti sono d&#
39;accordo con questo punto di vista.
"Bashar al-Assad è un fattore chiave nella crisi siriana da non sottovalutare e che nessuno può ignorare questo", ha ammesso Murphy.
Alla domanda circa l'offensiva saudita in Yemen l'ex diplomatico statunitense ritiene che il fallimento dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati in Yemen gioca a favore della Siria e di Al-Assad.
"I sauditi sono caduti nella trappola dello Yemen e questo ha ridotto il loro margine di manovra in Siria. Con la guerra in Yemen, i paesi arabi del Golfo Persico hanno perso la possibilità di sconfiggere al-Assad ", ha aggiunto.

venerdì 21 ottobre 2016

Un capo dello stato embedded

Nel confronto televisivo con Luciano Violante e poi successivamente in vari articoli, Tomaso Montanari ha giustamente evidenziato uno dei paradossi più clamorosi della deforma costituzionale nel suo intreccio con l’Italicum. Che consiste nella possibilità che l’elezione del capo dello stato dal settimo scrutinio in poi possa essere opera dei soli appartenenti al partito di maggioranza relativa, essendo questi comunque superiori ai tre quinti dei votanti.
Tralasciamo pure per un attimo il caso limite per cui, trattandosi di votanti e non di membri dell’assemblea, il nuovo capo dello stato potrebbe venire eletto con tre voti su cinque, purché gli altri parlamentari garantiscano il numero legale. Spostiamo invece l’attenzione su un altro articolo della nostra Costituzione – che la Renzi-Boschi non tocca e quindi ha richiamato minore attenzione – ovvero il 90, che disciplina la messa in stato d’accusa del capo dello stato dal parlamento in seduta comune.
Qui emerge un’altra possibilità inquietante. Fantapolitica? Di fronte alla totale irragionevolezza della modifica costituzional-elettorale in corso, sarebbe ingenuo invocare il principio di realtà. E’ vero che l’impeachment nella storia italiana è stato più evocato che attuato. I casi sono tre. Quello di Leone che minacciato di tale provvedimento a seguito dello scandalo Lockheed (l’acquisto dell’Italia di velivoli da guerra statunitensi) si dimise prima che il Pci desse corso alla procedura. Quello che sfiorò Scalfaro, a seguito dello scandalo Sisde, cui rispose a reti unificate con il famoso: «Non ci sto». Ma soprattutto quello antecedente riguardante Cossiga, che approdò alla presentazione formale della messa di stato d’accusa sulla vicenda Gladio, da parte del Pds, della Rete e di Rifondazione comunista, richiesta poi respinta dal Parlamento nel 1991. L’anno seguente lo stesso Violante, Pannella, Orlando e Dalla Chiesa chiesero nuovamente la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione, senza però che questa approdasse al voto, perché Cossiga si dimise il 28 aprile del 1992. Come si vede qualche precedente c’è, e anche succoso.
Se vincesse il Sì il 4 dicembre e quindi l’Italicum rimanesse in vita – simul stabunt simul cadent – la maggioranza assoluta alla Camera sarebbe assicurata al partito di maggioranza relativa e il senato sarebbe composto da 100 membri. Per la eventuale messa in stato d’accusa del presidente della repubblica basterebbero altri 26 voti per raggiungere la soglia dei 366, che corrisponderebbe alla maggioranza assoluta dei membri del parlamento in seduta comune. E sarebbe davvero difficile – qui sì fantapolitico – che il partito di maggioranza relativa non disponesse di tali voti nel Senato dei dopolavoristi, anche se escludiamo dal novero per evidenti motivi i 5 senatori nominati dal capo dello stato.
La morale della favola è semplice, quanto sconcertante. Gli effetti dello sconvolgimento costituzional-istituzionale in corso rispetto alla massima carica dello Stato – comandante delle Forze Armate, presidente del Consiglio supremo di difesa, che dichiara lo stato di guerra deliberato dalla Camera, presidente del consiglio superiore della magistratura, dotato del potere di scioglimento delle camere – non sarebbero solo quelli che esso può essere eletto dal settimo scrutinio dai parlamentari di un solo partito, nel caso estremo nel numero più esiguo immaginabile, ma che potrebbe essere dismesso per volontà sempre dello stesso partito – il cui segretario coincide con la figura del Presidente del consiglio da lui indicato – e che opererebbe sotto questa spada di Damocle. Un vero e totale capovolgimento.

giovedì 20 ottobre 2016

Stay Renzi, be foolish and visit Obama: inclinazioni pericolose una volta superato il muro del ridicolo

Non siamo i primi, e neanche saremo gli ultimi, a ricordare che ci sono democrazie che finiscono in tragedia ed altre che finiscono in farsa. L’importante è individuare quale farsa è quella giusta, quella che, con il suo particolare svolgersi, sta esaurendo un regime democratico. E cambiare percezione: l’avvento del fascismo, così come ci è stato consegnato dalla storia del ‘900, è sempre un tema drammatico che sfocia nel tragico. Dall’avvento di Mussolini a quello di Hitler fino al colpo di stato dei colonnelli in Grecia e a quello di Pinochet. Epiloghi tragici che rappresentano efficacemente il volto oscuro, assetato di sangue del potere come principale, se non esclusiva, espressione di un regime autoritario.
Qui il dittatore se è ridicolo lo è a causa della satira non per via della percezione quotidiana. Oggi il fascismo rischia di far tornare qualcuna delle sue caratteristiche con lo scivolamento nel potere autoritario di farsa in farsa, di episodio grottesco in episodio grottesco. Episodi dove non è la forza materiale ad essere usata: è lo spettacolo grossolano ad essere impiegato come oggetto contundente per scardinare diritti. Episodi dove non c’è il confino, o il carcere, ma dove magari c’è tutta la libertà di Google di aspirare i nostri dati personali o di evadere il fisco pagando condoni light. Del resto il fascismo è stato spesso, nel ‘900, una metamorfosi delle democrazie: dalla monarchia costituzionale e parlamentare italiana alla repubblica di Weimar. Oggi il fascismo, quando c’è, sta dentro l’evoluzione di un prodotto delle democrazie: la comunicazione politica. Nelle esigenze di un premier di coprire tutte le piattaforme mediali, di togliere spazio alla concorrenza che vuol erodere spazio nei palinsesti, di inventare quella parola che funziona come killer application che azzera le invenzioni degli uffici stampa dei concorrenti di partito, dell’opposizione.
Certo la farsa è il linguaggio universale di questa renziana egemonia quantitativa nella copertura mediale a reti unificate. Renzi che imita Steve Jobs al Sant’ Anna di Pisa, sostituendo i “folli” del discorso originale con un “arroganti” che è l’unico atto di autenticità del premier da quando fa discorsi in politica, ricorda i dittatori africani che imitavano grossolanamente le vestigia del potere occidentale. Loro straziavano la complessa antropologia del potere da cui provenivano, Renzi strazia, invece, le nostre orecchie. Certo, copiare il discorso di Steve Jobs togliendo la parola più visionaria, sostituendola con “arroganti”, rivela la cifra antropologica del potere renziano: nel tentativo grossolano di stupire con una provocazione si manifesta l’originaria ed ineliminabile matrice del bullo di paese. Perchè il renzismo non ha visioni, se non acquistate all’estero o riciclate da un patriottismo da operetta, ma solo un minore e sgraziato desiderio di imporsi che tracima in ogni istante.
Siccome il cerimoniale, quello che vuole imporre linguaggi ormai logori da un lustro, non era certo finito allora Renzi è volato da Obama. Trasformando il presidente (uscente) degli Stati Uniti in un docile testimonial della campagna per il “Si”. Quando si dice che lo spettacolo della sovranità limitata, gli Usa che cercano ufficialmente di orientare il voto in Italia è roba da piena guerra fredda, rovesciato nella cerimonia di investitura di un uomo solo. Spettacolo grottesco, come il presepe dei personaggi renziani a corredo della cerimonia (la moglie, Benigni, Cantone, l’atleta paralimpica), privo di originalità quanto non privo di pericoli. Per la democrazia, perchè campagne promozionali del genere, eredità del berlusconismo più monotono, una volta occupati anche gli interstizi della comunicazione tendono a non avere una seconda fase. Quella del ritiro dagli spazi occupati. Se un critico d’arte, come è accaduto, non va in onda, fino al 4 dicembre, sul Caravaggio perché si è schierato per il no, e potrebbe essere inconsapevolmente testimonial contro Renzi, questo non è un problema contingente è un problema per la democrazia. Perchè tutti i personaggi del presepe del Si debordano tranquillamente sullo schermo. E i grandi media sono importanti, la politica non deve confinarsi su Facebook: determinano chi ha potere o no nelle istituzioni. Oppure quanto sono squilibrati o meno i poteri, quelli che producono consenso.
La propaganda di Renzi è ossessiva perché quantitativa, tende a occupare ogni spazio piuttosto che a preoccuparsi di costruire le condizioni del colpo di genio. D’altronde il responsabile della propaganda di Renzi non è, fortunatamente, Joseph Goebbels ma Filippo Sensi un medianaccio dell’occupazione degli spazi della comunicazione politica. Ma gli effetti di tutte queste suggestioni di provincia (Steve Jobs, l’America, Obama) che si fanno comunicazione politica istituzionale sono molto pericolosi. Non tanto per il riferimento culturale, Steve Jobs è la negazione autoritaria del libertarismo tecnologico-visionario in cui si è formato, non ci aspettiamo di queste finezze da Renzi. Obama è in declino di audience da anni e non ci aspettiamo di queste valutazioni, il principale sembra avere troppa voglia di America, dallo staff di Renzi. Il pericolo sta nel combinato di poteri che comporta questa ossessiva occupazione degli spazi. Il mainstream, giornali e televisione, dipanano le loro notizie secondo i ritmi del dibattito politico legati alle apparizioni del presidente del consiglio.
La televisione, nello specifico, si presenta come una sorta di Renzi multicanale, salvo rare eccezioni, dove il messaggio del premier appare differenziato per target non certo per motivi di pluralismo politico. L’agenda politica del premier non è strutturata per dare centralità alle istituzioni deliberative, e tanto meno alla società reale, ma alle esigenze di propaganda. Ed ecco la dieta comunicativa: visita, con applausi, a inaugurazione, a occasione culturale, discorso ispirato da qualche parte in Italia poi incontro con un leader mondiale. E poi via si ricomincia da capo: stavolta è toccato a Obama la volta scorsa alla Merkel e a Hollande imbarcati su una nave militare al largo di Ventotene. Per uno spettacolo outdoor inutile per la politica estera ma utilissimo per la propaganda. In quest’ottica c’è anche la forte propaganda indiretta. Come per l’epoca della fine del berlusconismo, quando uscì un devastante Barbarossa con il cameo della partecipazione di Bossi, la fiction o il cinema italiano vengono in soccorso di chi presumono essere il vincitore. Ed ecco che ti spunta la fiction sui Medici. E, guarda caso, il premier si presenta, in pieno lancio della fiction sui Medici, agli stati generali della lingua italiana a Firenze.
Coincidenze? No. I Renzi studios lavorano per la propaganda diretta e quella indiretta. Per Renzi e per i Medici. Poi sui social media la gente si può anche sfogare. Tanto la maggior parte della assunzione di notizie e di immaginario, in un paese a forte invecchiamento demografico, avviene ancora oggi sui media tradizionali. Certo, il rigetto per tutta questa propaganda senza qualità è certificato dal ritardo di Renzi nei sondaggi rispetto al No. Ma, bisogna ricordare, che gli indecisi sono tanti. E che, di solito, se votano lo fanno per chi percepiscono essere cambiamento. Meglio se, oltre al cambiamento, anche rassicurazione. Scatta, in questo caso, qualcosa che li fa uscire dal guscio. Qui abbiamo lo spettacolo, mettiamo tra parentesi la qualità, sul cambiamento (Jobs, Obama) promosso in prima persona dal premier e quello indiretto sulla forza della tradizione (Medici). Vediamo se scatta di nuovo la fascinazione, quella che Renzi cerca, di quelle che fanno dimenticare l’aumento certificato INPS dei licenziamenti. Abbiamo dei dubbi ma tutto può accadere.
Per la comunicazione televisiva, reti pubbliche e buona parte di quelli private, è poi vietato ricordare figuracce del premier, contestazioni, voci fuori dal coro. Un continuo cinegiornale di altri tempi, quelli in cui le riprese erano core business dell’Istituto Luce, con il linguaggio 2.0, l’approccio multipiattaforma, il tocco crossmediale nei lanci di Twitter, le battute da liceali un pò spenti che non sanno come essere originali. Inoltre esiste un canale all news, 24 ore su 24, Rainews, completamente strutturato secondo le esigenze comunicative del premier: dai servizi ai banner che rendono notizia la lettura del mondo della propaganda renziana. Insomma un’occupazione del quinto potere monotona quanto pericolosa.
Quando il quarto potere, la stampa, nella maggior parte o fa parte del mainstream renziano, che manda osservazioni ai direttori di giornale via Whatsup, o sta attento a non debordare nelle critiche e nel dibattito sul referendum costituzionale questa occupazione del quinto potere e questa egemonia sul quarto, frutto delle esigenze di comunicazione politica, va sommata a cosa accade agli altri tre una volta completato il mosaico. Se vincesse il Si basta immaginare l’attuale assetto televisivo, al quale Mediaset ha già dato ampi cenni di gradimento, quello della stampa, governabile anche con i contributi pubblici, sommato ad un governo di nuovo centralizzato che detta legge su budget regionali, trasporti (la si legga la riforma Delrio...), energia, comunicazione e grandi opere. Per non parlare di ricerca, scuola, università e cultura. Settori poveri quanto militarizzati dalla propaganda renziana. Un parlamento non solo di nominati, da chi comanda su tv ed egemonizza la stampa, ma con una maggioranza spropositata rispetto al reale numero dei voti ottenuti. E quindi un vero, rigido governo della minoranza, con i mezzi per continuare ad esserlo.
C’è maggiore spazio, nella riforma renziana, per I referendum? Vero, ma i referendum, come abbiamo visto per quelli sulle trivelle, si orientano con i blackout comunicativi. O, come per quello sulla costituzione, con le tempeste di propaganda quando il quorum non determina il risultato. Un vero problema della democrazia, ovunque, è la parità di accesso alle piattaforme mediali. Una riforma centralistica, solo in parte neoreferendaria, come quella renziana salda così i due poteri della comunicazione ed i tre dello stato in un prodotto di destra. Dove la minoranza, al netto della retorica, ha gli strumenti e le risorse per incidere nella società, privatizzando il privatizzabile, e il resto fa i post su Facebook (dove gli influencer di Renzi sono presenti). Inoltre ciò che appare come una forma referendaria, democrazia dal basso è uno strumento favorito dal renzismo reale. Ci riferiamo alle primarie che, in questa accezione renziana, sono un trasferimento secco del potere dal basso verso l’alto. Un plebiscito.
Renzi che imita, con sprezzo del ridicolo, Steve Jobs per evocare un carisma che non avrebbe nemmeno alla sedicesima reincarnazione, non deve solo far sorridere. Renzi che, come il piccolo imprenditore di provincia si compra, moglie e amici al seguito, il favore dell’amico americano non è solo patetico. E non deve rassicurare il fatto che un elemento essenziale dell’essere dittatore, il carisma, Renzi non ho ha o, al massimo,lo esercita su qualche gruppo sociale di sprovveduti. Sono i processi che si sono aperti -con la crisi della democrazia matura accelerata dal crack finanziario mai finito dal 2008- che portano ad una sedimentazione di autoritarismi, mediali, politici, costituzionali. Inutile negarlo, il rischio di un prodotto simile al fascismo c’è, rivestito in forma democratica genere Croazia di Franjo Tudman, e non va sottovalutato. Perchè se ne vedono le venature nel “progetto” comunicativo. Specie se gli elementi di questa sedimentazione, dalla comunicazione alla costituzione “riformata”, fanno sistema. Magari sistema santificato da una qualche emergenza che richiede pochi fronzoli e decisioni dall’altro (e dalle banche alle guerre in corso ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta). E se gli uomini del regime avrebbero le facce pallide di Lotti e Orfini questo non deve rassicurare. Ogni nuovo assetto politico ha le proprie particolarità e le proprie perversioni. Per questo il 4 dicembre è meglio che questa compagnia di giro sia costretta a ritrovare la strada di casa. Perchè le esigenze di “comunicazione” del premier hanno già costruito di per sé un dispositivo mediale, diciamo, troppo sistemico. Persino Bottai, personaggio che va comunque tenuto lontano da ogni rivalutazione, su Critica fascista espresse preoccupazione per l’identificazione tra propaganda e cultura. L’allegro staff comunicativo di Renzi non ha di queste preoccupazioni, usa tutto l’utilizzabile in modo spregiudicato. E ha costruito qualcosa di pericoloso, che si annida all’interno della scatola rivestita dalla confezione della “democrazia che decide”, “che funziona” e “che taglia le poltrone”. Dalla neutralizzazione di questo dispositivo passa sicuramente un pò di salute per questo paese

mercoledì 19 ottobre 2016

Che cosa ha detto in privato Hillary Clinton alla Goldman Sachs

A prima vista le conversazioni di Hillary Clinton con la Goldman Sachs che lei ha rifiutato di mostrarci ma delle quali WikiLeaks dichiara di avere ora presentato i testi, rivelano un’ipocrisia o offese meno sfacciate di quelle dei testi di varie mail anche di recente rivelate. Considerateli però più da vicino.
La Clinton, come tutti sanno, ha detto che crede nel mantenere una posizione pubblica riguardo a ogni problema che differisce dalla sua posizione privata. Che cosa ha fornito alla Goldman Sachs?
Certo, la Clinton professa la sua lealtà agli accordi commerciali con imprese, ma all’epoca delle sue osservazioni, non aveva ancora cominciato (pubblicamente) a sostenere il contrario.
Penso, infatti, che la Clinton mantenga numerose posizioni su vari argomenti e che quelli che ha fornito alla Goldman Sachs fossero in parte sue posizioni pubbliche, in parte sue confidenze ai cospiratori e in parte il suo caso partigiano democratico per una stanza piena di Repubblicani riguardo al motivo per cui dovevano donare di più a lei che al GOP (il Vecchio grande partito, quello Repubblicano, n.d.t.). Questo non è il tipo di discorso che avrebbe fatto ai dirigenti di un sindacato o a professionisti dei diritti umani o ai delegati di Bernie Sanders. Ha una posizione per ogni tipo di ascoltatori.
Nelle trascrizioni dei discorsi dal 4 giugno 2013, del 29 ottobre 2013 e del 19 ottobre 2015, la Clinton sembra che fosse stata pagata a sufficienza per fare qualcosa che nega alla maggior parte degli spettatori. Cioè, ha ricevuto domande riguardo alle quali sembra probabile non sia stata segretamente informata o non sia stata impegnata in negoziati in anticipo. In parte questo sembra sia il caso perché alcune delle domande erano discorsi prolissi, e in parte perché le sue risposte non erano tutte il tipo di banalità senza senso che esprime se le si dà il tempo di prepararsi.
Gran parte del contenuto di questi discorsi ai banchieri statunitensi riguardava la politica estera e praticamente tutto quello che aveva a che vedere con la guerra, la guerra potenziale, e le opportunità per il dominio guidato dalle forze armate di varie regioni del globo. Queste cose sono più interessanti e presentate in maniera meno offensiva in confronto alle banalità sputate” ai dibattiti pubblici presidenziali. Si adatta però anche a un’immagine della politica statunitense che la Clinton avrebbe preferito mantenere privata. Proprio perché nessuno ha pubblicizzato che, come mostrano adesso le mail, i banchieri di Wall Street hanno aiutato a scegliere i membri del gabinetto di Obama, siamo scoraggiati dal pensare che le guerre e le basi militari sono intese come servizi ai signori della finanza. “Rappresento tutti voi,” dice la Clinton ai banchieri in riferimento ai suoi tentativi di fare un incontro in Asia. L’Africa subsahariana ha un grande potenziale per “gli affari e gli imprenditori” degli Stati Uniti, dice, riferendosi al militarismo statunitense là.
Tuttavia, in questi discorsi, la Clinton proietta esattamente quell’approccio, accuratamente oppure no, sul altre nazioni e accusa la Cina proprio del tipo di cosa per cui i suoi critici della “estrema sinistra” l’accusano di continuo, anche se al di fuori della censura dei media corporativi statunitensi. La Cina, dice la Clinton, potrebbe usare l’odio del Giappone come mezzo di distogliere i cinesi da politiche economiche dannose e pericolose. La Cina, dice la Clinton, lotta per mantenere il controllo civile sulle sue forze armate. Mah! In quale altro luogo abbiamo visto questi problemi?
“Circonderemo la Cina con una ‘difesa’ missilistica,” dice la Clinton alla Goldman Sachs. “Porteremo altre navi della nostra flotta in quell’area.”
Per quanto riguarda la Siria, la Clinton dice che è difficile capire chi armare – completamente ignara di qualsiasi opzione diversa da quella di armare qualcuno. E’ difficile, dice, prevedere del tutto che cosa accadrà. E così, il suo consiglio che Hillary “spara” a una stanza piena di banchieri, è di fare la guerra in Siria molto “segretamente”.
Nei dibattiti pubblici, la Clinton richiede una “zona interdetta ai voli” e una “zona interdetta ai bombardamenti” o una “zona sicura” in Siria, da cui organizzare una guerra per rovesciare il governo. In un discorso alla Goldman Sachs, tuttavia, “spara” che creare una zona del genere richiederebbe bombardare zone molto più popolate rispetto a quanto richiesto in Libia. Ammette che “si uccideranno moltissimi siriani”. Cerca anche di distanziarsi dalla proposta riferendosi a “questo intervento del quale le persone parlano così superficialmente” – anche se Hillary, prima e all’epoca di quel discorso, e da allora è stata la persona principale a farlo.
La Clinton chiarisce anche che gli jihadisti siriani vengono finanziati dall’Arabia saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar. Nell’ottobre 2013, dato che il pubblico negli Stati Uniti si era rifiutato di bombardare la Siria, Blankfein ha chiesto se ora il pubblico era contrario agli “interventi” – il che chiaramente veniva inteso come un ostacolo da superare. La Clinton ha detto di non aver paura. “Siamo in un periodo in Siria,” ha detto, “ in cui non hanno smesso di uccidersi a vicenda … e forse si deve soltanto aspettare e osservare.”
Questa è l’opinione di molte persone malintenzionate e di molte benintenzionate che sono state persuase che le uniche due scelte in politica estera sono: bombardare le persone e non fare nulla. Questa è chiaramente l’idea dell’ex Segretario di Stato, le cui posizioni erano più interventiste di quelle della sua controparte al Pentagono. Ricorda anche l’osservazione di Harry Truman che se i tedeschi avessero vinto si sarebbero dovuti aiutare i russi e viceversa, in modo che più perone sarebbero morte. Questo non è esattamente ciò che ha detto qui la Clinton, ma è abbastanza simile, ed è una cosa che non direbbe in una comparsa multimediale non improvvisata e che passa per dibattito. La possibilità del disarmo, di opera di pace non violenta, di un aiuto reale di portata massiccia, e di una diplomazia rispettosa che lasci fuori l’influenza degli Stati Uniti dagli stati risultanti, non è proprio considerato dalla Clinton, indipendentemente da chi ci sia nel suo pubblico.
Riguardo all’Iran, la Clinton ripetutamente promuove false affermazioni sulle armi nucleari e il terrorismo, anche se allo stesso tempo ammette molto più apertamente che siamo abituati al fatto che il leader religioso dell’Iran denunci e si opponga alle armi nucleari. Ammette anche che l’Arabia Saudita stia già “inseguendo” le armi nucleari e che gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto è probabile che faranno la stessa cosa, almeno se l’Iran lo farà. Ammette anche che il governo saudita è lungi dall’essere stabile.
L’Amministratore delegato della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, a un certo punto chiede alla Clinton come potrebbe andare una buona guerra contro l’Iran – fa capire che un’occupazione (sì, usano quella parola proibita) potrebbe non essere la mossa migliore. La Clinton risponde che l’Iran può proprio essere bombardato. Blankfein, piuttosto sorprendentemente, fa appello alla realtà – qualcosa su cui la Cli parla incessantemente e insopportabilmente a lungo in altri punti durante questi discorsi. Blankfein chiede se abbia mai funzionato ridurre alla sottomissione una popolazione bombardandola. La Clinton ammette che il metodo non ha funzionato ma suggerisce che potrebbe andare bene con gli iraniani perché non sono democratici.
Riguardo all’Egitto, la Clinton esprime chiaramente la sua opposizione al cambiamento popolare.
Di nuovo riguardo alla Cina, la Clinton sostiene di aver detto ai cinesi che gli Stati Uniti potrebbero rivendicare la proprietà dell’intero Pacifico come conseguenza di averlo “liberato.” Continua a sostenere di aver detto loro che “Abbiamo scoperto il Giappone per amore del cielo.” E: “Abbiamo la prova di avere comprato [le Hawaii]”. Davvero? E da chi?
Queste sono cose veramente brutte, per lo meno dannose per la vita umana come le oscenità che arrivano da Donald Trump. E’ tuttavia affascinante che perfino i banchieri ai quali confida la sua smania militarista le facciano le stesse identiche domande che mi fanno i pacifisti alle conferenze: “Il sistema politico degli Stati Uniti è completamente a pezzi?” “Dovremmo rottamarlo e passare a un sistema parlamentare?” Eccetera. In parte la loro preoccupazione è l’ipotetico stallo creato dalle differenze tra i due grossi partiti, mentre la mia preoccupazione più grossa è la distruzione militarizzata delle persone e dell’ambiente che non sembra mai ricevere neanche un leggero rallentamento del traffico al Congresso. Ma se immaginate che tutte le persone che Bernie Sanders condanna per essersi portati a casa tutti i profitti sono soddisfatti dello status quo, riflettete. Ne beneficiano in certi modi, ma non controllano il loro mostro e non li fanno sentire soddisfatti.

martedì 18 ottobre 2016

Una carta d’identità di valori comuni «che Renzi vuol fare saltare»

Costituzionalisti e giuristi, una giornata di riflessione sulle ragioni del No. Rodotà: la convivenza è basata sui principi comuni. La riforma è divisiva. E dal 5 dicembre ciascuno potrebbe dire "la mia Costituzione". Carlassare: la maggioranza-minoranza pigliatutto? La legge Truffa non si spinse così avanti. Pace: modifica illegittima, eversione costituzionale fatta da un parlamento che doveva dimettersi». il manifesto, 16 ottobre 2016
La Costituzione è un «terreno comune», il luogo in cui «soggetti diversi si confrontano e trovano le opportunità per la convivenza sulla base di principi comuni». E invece la riforma Renzi-Boschi, «divisiva nel merito e nel metodo con cui è stata votata» «mette a rischio proprio questo terreno comune. Per questo dal 5 dicembre potrà succedere che ciascuno dica ’la mia Costituzione’». L’allarme di Stefano Rodotà è di quelli impegnativi per un giurista.
Usa parole pesanti e lo fa davanti e insieme a un plotoncino di giuristi, costituzionalisti, esperti di diritto e filosofi della politica chiamati a Roma, alla sala Capranichetta, a confrontare le ragioni del No al referendum. Organizza la Scuola per la buona politica di Torino e la Fondazione Basso presieduta da Elena Paciotti, già presidente Anm (associazione nazionale magistrati) ed ex eurodeputata. «Non era successo niente di simile neanche durante il dibattito della Costituente, quando i comunisti e i socialisti furono esclusi dal governo ma i lavori proseguirono con la stessa logica del confronto», continua Rodotà. Non che le differenze di opinione in campo di principi costituzionali non siano previste, naturalmente.
Il dibattito della Costituente ne è formidabile testimonianza. Ma la logica seguita dal governo Renzi – una modifica costituzionale promossa dal governo è già un controsenso perché le Costituzioni hanno una funzione «contromaggioritaria», ricorda Paciotti, e cioè «di limitare l’accentramento del potere politico, separare i poteri pubblici, controllare quelli privati, garantire i diritti fondamentali dei cittadini e delle minoranze» – la logica di Renzi insomma «è quella di far prevalere il proprio punto di vista indebolendo le garanzie», spiega Lorenza Carlassare. In varie maniere, tanto più in combinato con l’Italicum (che è legge dello stato e anche con tutte gli auguri per la sua modifica al momento non può essere ignorata): «Indebolendo la rappresentanza delle minoranze, indebolendo le garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica», attribuendo un premio di maggioranza a una minoranza, «cosa che non si permise di fare nel ’53 neanche Alcide De Gasperi» con la famosa legge Scelba detta ’legge truffa’ (il cui premio non scattò appunto perché nessuno raggiunse la maggioranza). Nella giornata «di riflessione» si parla anche di «tirannia della maggioranza» (Michelangelo Bovero), di «verticalizzazione del potere verso la figura del premier (Carlassare e altri), del confuso e confusivo nuovo bicameralismo e dell’improbabile rappresentanza territoriale affidata al nuovo senato (Mauro Volpi, Francesco Pallante, Valentina Pazé). Ma il filo rosso è per tutti l’idea di una Carta come «terreno comune» o, come dice Luigi Ferrajoli, «precondizione condivisa per il vivere civile», «patto di convivenza in cui tutti si riconoscono» sostituita – se vincesse il Sì – dall’idea esattamente opposta «del chi vince prende tutto, e chi vince non è neanche la maggioranza ma la maggiore minoranza». «Il rischio è altissimo», misura le parole un altro costituzionalista, Gaetano Azzariti: «Perdere un bene inestimabile, un valore supremo, quello che nel ’48 rappresentò una carta d’identità per un’Italia che usciva divisa e lacerata dalla guerra e dal Ventennio».
Rischio respinto da uno dei due discussant del Sì invitati al dibattito, Cesare Pinelli, che invita a non drammatizzare i toni e a ricordare che nel 2005 dopo la battaglia per il No al referendum sulla riforma Berlusconi «non ci siamo così divisi, oggi sta a tutti riuscire a conservare le ragioni dello stare insieme dopo il 4 dicembre». Ma nel 2005 era difficile trovare un costituzionalista a favore del pasticciaccio del Cavaliere. Lo stesso Pinelli rivendica di aver militato per il No all’epoca. Oggi è diverso, e questo stupisce soprattutto ora che anche dal partito di governo viene rivendicata la derivazione della modifica Renzi-Boschi da quella berlusconiana, ormai senza più disagio.
Se vincerà il No la riforma «così lontana dal costituzionalismo» sarà archiviata e con essa la stagione politica di cui è figlia. Anche se, avverte Azzariti, da quel No bisognerà ripartire per porre rimedio alla «crisi del parlamentarismo» e quella «della rappresentanza e dei rappresentati, bisognerà rimediare al lungo regresso che questa riforma vorrebbe costituzionalizzare».
Se invece vincerà il Sì, invece. quello dei fautori della maggioranza che è una minoranza «piglia tutto», la situazione sarà invece molto delicata. Da questa sala rullano tamburi: «La modifica è illegittima, anzi è eversione costituzionale», dice il professore Alessandro Pace, «una violazione di inaudita gravità» prodotta da «una legislatura drogata» dal premio di maggioranza attribuito dal Porcellum, «indegna di affrontare la revisione costituzionale».
Anche Pace usa parole pesanti. Non solo le sue, cita anche quelle del deputato a 5 stelle Vito Crimi: «La revisione è un azzardo costituzionale». O quelle assai più autorevoli del costituzionalista Giuseppe Ugo Rescigno all’indomani della sentenza della Consulta numero 1 del 2014 che dichiarò incostituzionale quel premio di maggioranza: «Mi stupisco che milioni di cittadini non siano scesi in strada per esigere l’immediato scioglimento di un parlamento illegittimo».

lunedì 17 ottobre 2016

Una legge di stabilità che puzza di bruciato lontano un miglio. I tagli ci sono, ma nascosti

Da Renzi la solita alluvione di slides su Legge di bilancio: investimenti pochi, una manciata insufficiente di denari per i contratti del pubblico impiego, scuole paritarie premiate e su sanita' e pensioni forte e persistente odore di fregatura". La sintesi ,migliore del profilo, del tutto provvisorio, della legge di bilancio che Renzi ha appena varato, la dà il deputato di Sel Arturo Scotto.
Se provate a fare un giro sul web alla ricerca di giudizi e prese di posizione rimarrete a bocca asciutta. I commentatori più seri stanno aspettando. Tra due settimane ci sarà il pronunciamento dell'Europa, che sarà quasi sicuramente positivo. E intanto bisognerà spulciare tra i numeri per capire non tanto dove Renzi ha preso i soldi, quanto la tenuta effettiva di un castello di carte che si espone di fatto al più flebile refolo.
In realtà questa più che una legge di bilancio sembra un “libro dei sogni”. Il perimetro è quello dei “se con tanti ma”, a partire dai fantasmagorici quattro miliardi che dovrebbero arrivare dalla soppressione di Equitalia, oppure dalla previsione del Pil all’1%, passndo per la voluntary disclosure. Al contrario, non c’è un euro di investimento pubblico. Alle imprese, intanto, vanno regali doppi alle briciole per famiglie e anziani.
Insomma, un’abile presa in giro, che il prossimo anno, quando nei programmi di Renzi ci sarà da incassare il “Sì” alle riforme costituzionali, mostrerà tutte le sue magagne. Del resto, è proprio sulla “propaganda as favore del Sì” che Renzi ha costruito la legge di stabilità.
E comunque i tagli ci sono. La spending review sale da 2,6 miliardi, indicati dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, nel corso di un'audizione sul Def in Parlamento, a 3,3 miliardi. Si tratta di tagli su beni e servizi. Sono previsti 1,2 miliardi di risparmi nella sanità grazie ad acquisti Consip.
Se ne sono accorti più o meno tutti, a partire dai sindacati che rispediscono al mittente un bilancio che non ha il rinnovo del contratto per i pubblici dipendenti e sulla sanità fa solo finta di incrementare i fondi.
L’Anaao Assomed, su questo, ribadisce la propria insoddisfazione e le preoccupazioni, già espresse insieme con le altre organizzazioni sindacali dei medici e dei dirigenti sanitari del Ssn. Pur rimanendo in attesa di leggere il testo per esprimere una valutazione puntuale, in una nota sottolinea che il conto che, ancora una volta, saranno chiamati a pagare cittadini e medici “rischia, infatti, di essere salato”. “I primi con una ulteriore restrizione dell’accesso alle cure e della tutela pubblica della loro salute, e la beffa di promesse non mantenute, i secondi con un finanziamento contrattuale che intende valorizzare il loro merito professionale al prezzo di qualche decina di euro (lordi, ovviamente). E la stabilizzazione dei precari, annunciata con grandi squilli di tromba, somiglia tanto, anche nel numero, a quella promessa, e non realizzata, dalla Legge di bilancio dello scorso anno”.
"Basta prendere in giro i lavoratori pubblici. Nella legge di stabilita' le risorse per i rinnovi sono del tutto insufficienti. Daremo battaglia per un contratto vero e innovativo", commentano Serena Sorrentino, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Nicola Turco - segretari generali di Fp-Cgil Cisl-Fp Uil-Fpl e Uil-Pa. "Il Governo promette e non mantiene. Aveva parlato dei 300 milioni come di una 'cifra simbolica', ora siamo arrivati a una 'del tutto insufficiente'. E nel frattempo nessun tavolo di confronto e nessun progetto per professionalita', produttivita', innovazione dei servizi", rincarano i segretari di categoria di Cgil Cisl Uil.
Il 12 novembre Cgil, Cisl e Uil saranno a Roma con la maratona del lavoro pubblico per le vie della citta'. E si dicono pronti “a ogni forma di mobilitazione, fino alla firma di un contratto che investa nelle persone e nella partecipazione dei cittadini al cambiamento dei servizi pubblici per il Paese”.
A parlare di “manovra truffa come il quesito del referendum” sono i gruppi parlamentari del Movimento Cinque Stelle. "E' una manovra fatta di mancette con soldi che non ha, conditi da un condono mascherato da 2 miliardi di euro, che chiama all'inglese 'voluntary disclosure'. Su Equitalia e' solo una promessa, sulla poverta' taglia quanto promesso e destina solo briciole rispetto a quello che serve veramente per combatterla", concludono i parlamentari pentastellati.

venerdì 14 ottobre 2016

HILLARY: “L’ARABIA SAUDITA E IL QATAR FINANZIANO L’ISIS”. MA ANCHE LA FONDAZIONE DEI CLINTON

Nel 2014 la candidata presidenziale democratica Hillary Clinton inviò una mail al presidente della sua campagna elettorale John Podesta, allora consigliere del presidente Barack Obama, dicendo che l’Arabia Saudita e il Qatar danno entrambi sostegno finanziario e logistico allo Stato Islamico (ISIS) e ad altri gruppi estremisti sunniti, secondo una recente rivelazione di Wikileaks.
La Clinton inviò la mail il 17 agosto 2014 a Podesta. Si trattava di un piano in 8 punti per sconfiggere l’ISIS in Iraq e Siria. La mail diceva che gli USA dovrebbero sostenere le forze Curde a terra con consiglieri militari, evitando l’uso di operazioni terrestri convenzionali.
“Anche se questa operazione militare/paramilitare va avanti, dobbiamo usare i nostri mezzi diplomatici e più tradizionali per fare pressione ai governi del Qatar e dell’Arabia Saudita, che forniscono supporto clandestino finanziario e logistico all’ISIS e ad altri gruppi Sunniti radicali della regione”, ha scritto la Clinton.
L’ex segretario di Stato ha aggiunto che “questo sforzo sarà sostenuto dall’incrementato supporto al Governo regionale Curdo. Il Qatar e l’Arabia Saudita saranno messi nelle condizioni di dover bilanciare la loro politica tra la loro attuale competizione per dominare il mondo Sunnita e le conseguenze di una intensa pressione USA”.
La mail da Clinton a Podesta contiene uno schema simile a quello di precedenti report di intelligence che l’alleato della Clinton, Sidney Blumenthal, aveva mandato all’ex segretaria di Stato.
Il Daily Caller aveva già riferito di come la Clinton avesse già chiesto aiuti per rimuovere le tracce che mostravano che Blumenthal fosse l’autore dei report prima di mandarli ai funzionari della Casa Bianca.
La mail di agosto 2014 che puntava il dito contro l’Arabia Saudita e il Qatar non contiene alcun riferimento a Blumenthal in particolare e fu mandata da una delle caselle di posta personali della Clinton. Le mail di Wikileaks non sono state verificate in maniera indipendente dal Daily Caller. Tuttavia, la Clinton e il suo portavoce Brian Fallon non hanno messo in dubbio la legittimità dei documenti trapelati e rilasciati da Wikileaks al dibattito di domenica.
Il Daily Caller ha contattato il comitato elettorale della Clinton chiedendo se intendesse mettere in dubbio la legittimità della mail, ma non è stata data alcuna risposta. Il Daily Caller ha anche mandato una mail a Blumenthal chiedendogli se fosse l’autore del documento, ma nemmeno lui ha risposto.
Il Qatar ha donato una cifra compresa tra 1 e 5 milioni di dollari alla Fondazione Clinton, e l’Arabia Saudita ne ha donati più di 25 milioni.
La campagna elettorale della Clinton non ha risposto alla domanda del Daily Caller se la Fondazione Clinton intendesse restituire le donazioni ricevute da queste due nazioni che, secondo la stessa Hillary Clinton, hanno finanziato l’ISIS.
Nel 2010, l’aiutante superiore della Clinton aveva dichiarato che era una “priorità assoluta” trasferire all’Arabia Saudita fino a 60 miliardi di dollari di armamenti sotto forma di caccia ed elicotteri. La campagna elettorale della Clinton non ha voluto commentare quando il Daily Caller ha chiesto se, nel caso venisse eletta, Hillary darebbe sostegno miliare all’Arabia Saudita e al Qatar.

giovedì 13 ottobre 2016

La scomparsa dell'UE

Già negli anni '90, quando l'UE aveva cessato di essere un semplice accordo commerciale ed era diventata un'oligarchia in piena regola che avrebbe finito per inghiottire la maggior parte dell'Europa occidentale e orientale, la convinzione di alcuni era che si trattasse di un progetto condannato. Anche se, in quel momento, i governi europei si stavano allegramente unendo, vent'anni era il tempo massimo accordato al progetto.
E non si trattava di una profezia difficile. C'erano tre ragioni principali per la sua validità.
Prima di tutto, i paesi europei sono stati perennemente in guerra tra di loro da molto tempo prima dell'invenzione della polvere da sparo. L'Europa è fondamentalmente tribale e semplicemente non c'è modo che la mentalità e gli obiettivi, per esempio, dgli inglesi siano gli stessi dei francesi.
In secondo luogo, le decisioni di Bruxelles sono arrivate come un fiume dopo la sua formazione. Quasi tutti i paesi europei sono stati costretti a raccordarsi con gli obiettivi dell'Unione. Di conseguenza, mentre alcuni paesi hanno ottenuto alcuni vantaggi, tutti i paesi hanno perso la libertà di base che deriva dall'autodeterminazione. Coloro che si opponevano sono stati minacciati di comportarsi meglio. Coloro che hanno suggerito di voler lasciare l'unione sono stati ulteriormente minacciati che sarebbero stati tagliati fuori dal commercio dell'UE e distrutto economicamente.
La maggior parte delle persone si comporta come pecore nella maggior parte delle situazioni. Questa è una caratteristica fondamentale del genere umano, in ogni cultura, in ogni età. Tuttavia, un improvviso cambiamento ( negli eventi o l'opinione pubblica), spesso innesca la scintilla della rivolta. Certamente re Giorgio d'Inghilterra ha scoperto questo quando ha scelto di compensare un deficit monetario in tempo di guerra, imponendo una tassa di bollo sulle sue colonie in America. Un decennio più tardi, i francesi, quando hanno sentito (falsamente) che la regina Maria Antonietta aveva risposto alla carenza di pane tra i suoi sudditi, "Che mangino brioches," questo è servito come una scossa all'opinione pubblica portando molti francesi al punto di ribellione.
L'elite di Bruxelles ha grossolanamente calcato la mano, di volta in volta, imponendo improvvisi e drammatici cambiamenti ai paesi d'Europa, comportandosi con arroganza, portando molte persone in Europa al punto di ebollizione.
Per aggiungere alla tirannia, nessun paese ha votato a maggioranza per aderire all'Unione. Referendum si sono tenuti in alcuni paesi, ma l'affluenza è stata molto bassa. In altri paesi, il referendum non era vincolante. Alla fine, ogni governo è andato avanti con il supporto della sola minoranza e si è tuffato a capofitto in una unione che avrebbe giovato ai leader ma non avrebbe servito bene la loro gente.
L'Unione europea è stata, fin dal suo inizio, l'antitesi di "governo del popolo, dal popolo , per il popolo." E&#
39; stato, invece, un "super-governo dei leader politici, per i leader politici, dai leader politici ".
Tutto ciò ha contribuito alla probabilità di una breve durata dell'UE.
Ma il compito facile è quello di prevedere l'evento. Il compito più difficile è quello di prevedere una data approssimativa, in modo che le decisioni di investimento e scelte di vita importanti possano essere prese in tempo per evitare che l'individuo diventi un danno collaterale. La domanda importante quindi sarebbe allora, "Quale sarà l'evento che innescherà il crollo?"
Col passare degli anni le crepe nell' UE hanno iniziato a comparire, si è pensato che la rovina sarebbe stata il fallimento economico degli stati membri meridionali, o le tensioni sociali derivanti dall'immigrazione In ogni caso, era prevedibile che i leader politici avrebbero difeso le politiche comunitarie a tutti i costi, anche a costo di perdere il sostegno popolare.
Sul fronte economico, tutti gli occhi erano sulla Grecia e gli altri membri del Mediterraneo, come si aggrappavano tenacemente alle loro politiche economiche collettivista. Avrebbero continuato a sanguinare a spese dei loro fratelli del nord più economicamente responsabili. Lungo la strada, al fine di placare i suoi elettori, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dichiarato con fermezza che l'UE non avrebbe salvato le banche italiane; che avrebbero dovuto fare affidamento sul bail-in (una misura che era stata approvata nel 2014 per tutti i paesi dell'Unione Europea). Poi è arrivata la notizia che la Deutsche Bank tedesca era alle corde, minacciando di provocare un bagno di sangue per il popolo tedesco. L
Il popolo tedesco ha pagato per sostenere gli altri membri dell'Unione Europea, ma una linea era stata tracciata nella sabbia per i futuri salvataggi, poco prima che la Germania realizzasse la propria crisi.
Improvvisamente, la Merkel si è ritrovatabloccata tra il suo impegno come Cancelliere verso il popolo tedesco e il suo impegno personale per l'Unione europea. Il suo problema è aggravato dal fatto che potrebbe cercare la rielezione nel 2017.
Ironia della sorte, nella corsa per il crollo dell'UE, il processo potrebbe iniziare in Germania, il paese che è stato più responsabile della sua creazione.
Il confronto con il Titanic è appropriato. Come il Titanic, l'Unione europea è stata presentata come un "super-Stato", uno che sarebbe stato più grande e migliore di tutti gli altri in Europa. E' stato dichiarato inaffondabile. Eppure, subito dopo il suo lancio, ha colpito un iceberg inaspettato dal quale non ha potuto recuperare.
Tra qualche anno, storici ed economisti discuteranno l'identità dell' iceberg dell'UE. Alcuni diranno Brexit, altri diranno Deutsche Bank. Altri ancora citeranno eventi che non abbiamo ancora visto. Tuttavia, per i nostri scopi, poco importa. I domino hanno cominciato a cadere e tutti noi che potremmo essere influenzati da un collasso dell'Unione europea dovrebbero assicurarci di essere influenzati il meno possibile.

mercoledì 12 ottobre 2016

La Costituzione secondo J.P. Morgan & Renzi srl

Si dice che coccodrilli e caimani abbiano fauci tra le più potenti del regno animale, ma che i muscoli deputati ad aprire le mascelle siano al contrario molto deboli, tanto che basta una mano per impedire loro di aprire la bocca. E’ naturale dunque che queste bestiacce e ancor più i loro metaforici analoghi umani, abbiano una qualche renitenza o difficoltà ad aprire la bocca e parlare e quando lo fanno c’è sempre una ragione d’allarme. Per esempio cosa ha indotto Ferruccio De Bortoli sul Corriere della sera ad rendere nota la liason segreta fra Montepaschi e J. P Morgan con il risultato di mettere in luce non soltanto le oscure cose bancarie e governative, forse su mandato di qualcuno, ma illuminando anche per chi non è ancora orbo, tutto il sinistro significato del renzismo e della riforma costituzionale.
Dunque De Bortoli ci informa che il 7 settembre scorso è stato lo stesso ministro Padaon. su incarico specifico del guappo di Rignano a licenziare con una telefonata l’amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola, per sostituirlo seduta stante con Marco Morelli, un uomo di J.P. Morgan e commenta: “La forzatura è figlia di un accordo tra il governo e la banca americana JP Morgan del quale non sappiamo nulla. Renzi incontra a pranzo a palazzo Chigi il numero uno Jamie Dimon su sollecitazione di Claudio Costamagna, presente l’ex ministro Vittorio Grilli (ex ministro del Tesoro di Monti ndr) oggi in Jp Morgan. Una delle più grandi banche d’investimento mondiali promette di impegnarsi nell’aumento di capitale di Siena, nella concessione di un finanziamento ponte finalizzato alla successiva cartolarizzazione dei crediti in sofferenza . Agli americani Viola non piace, preferiscono Morelli che ha lavorato con loro. La Bce non gradisce la sostituzione”.
Secondo De Bortoli l’operazione che finora è tutta condotta sottobanco, di cui era trapelato qualcosa a luglio salvo dire che era stata sventata, consisterebbe in questo: Mps cede 9 miliardi di sofferenze nette su 28 lorde. Svalutandole in bilancio, prima della cessione, si crea un ammanco di capitale che va coperto. A fronte della cessione di 9 miliardi di sofferenze, Mps dovrebbe ottenere 7,6 miliardi, di cui 1,6 da Atlante e 5 da JP Morgan ( con una commissione del 4,75% considerata altissima ndr) come prestito ponte per 18 mesi. Il prestito guidato da JP Morgan però sarebbe concesso con la garanzia di tutti i crediti in sofferenza. Se qualcosa dovesse andare storto, la banca d’affari si prenderebbe tutti i 28 miliardi a un prezzo effettivo di 18 centesimi contro i 33 riconosciuti alla banca, di cui 27 pagati subito. Il margine di guadagno potenziale sarebbe elevatissimo. E Atlante, cui partecipano 69 istituzioni italiane, compresa la Cassa depositi e prestiti con i soldi del nostro risparmio postale, perderebbe tutto”.
E’ chiaro cosa vuole dire in sostanza De Bortoli senza chiarirlo esplicitamente: gli strozzini di oltre atlantico hanno un basista in Italia e abita a Roma in Piazza Colonna 370, ovvero a Palazzo Chigi. Tuttavia l’ex direttore del Corsera e del Sole 24 ore non immagina di aver acceso un potente riflettore su una realtà di cui amici e nemici di Renzi, clientes e schifati del Pd rifiutano di prendere atto, ovvero il grembo oscuro, finanziario e piduista da cui nasce il Renzi premier. La concessione di enormi vantaggi a J.P Morgan a danno del Paese non viene a caso, ci sono due circostanze che fanno tremare.
L’ascesa di Renzi come personaggio nazionale e come competitor per la segreteria del Pd avviene a fine maggio del 2012 in occasione di un convegno appositamente organizzato dalla J.P. Morgan a Firenze. Calano su Palazzo Vecchio Tony Blair, consulente della banca e la ministra tedesca del lavoro, braccio destro della Merkel , Ursula von der Leyen, i quali mettono in piedi una pantomima di incontri e dichiarazioni che lanciano Renzi da personaggetto provinciale con Leopolda pagata a piè di lista, come principale personaggio delle primarie del Pd. Dopo un tete a tete a pranzo (pagato da noi) fra Renzi e Blair all’hotel St. Regis di piazza Ognissanti, l’ex svenditore inglese del Labour dice che si è parlato di primarie e di aver chiesto delucidazioni in merito alla partecipazione del sindaco che avrebbe dovuto essere nella rosa delle primarie. In pratica l’imposizione di un candidato che per regolamento nemmeno avrebbe potuto correre e un endorsement per far capire come a Renzi non sarebbero mancati né gli appoggi, né le risorse.
Esattamente un anno dopo, nel 2013 la J. P, Morgan decide di uscire allo scoperto e di pubblicare un documento i cui viene denunciato l’eccessivo socialismo delle Costituzioni europee: lasciano troppo spazio alle articolazioni locali, garantiscono la protezione dei diritti dei lavoratori e contemplano il diritto alla protesta, tutte cose che ovviamente spiacciono alle multinazionali. Per di più – ecco il raccordo con l’oligarchia europea – “i sistemi politici e le costituzioni di alcuni paesi del Sud presentano caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. Il che vuol dire in poche parole che la democrazia è un ostacolo per il liberismo, il profitto e pure per l’Europa. E’ particolarmente interessante da un punto di vista storico e teorico che la banca giustifichi i suoi “consigli” antidemocratici con il fatto che le riforme liberiste non hanno sortito gli effetti voluti nel sud Europa (nemmeno nel Nord per la verità) e dunque visto che le stravaganti teorie economiche per ricchi non funzionano, la colpa è evidentemente della democrazia. Ma approfondire questo ci porterebbe fuori strada.
Le rivelazioni di De Bortoli sulle concessioni segrete alla banca americana aggiungono un tassello logico e rendono consistente un quadro deprimente e oscuro che non può più essere messo a margine nemmeno dai ciechi migliori, vale a dire quelli che proprio non vogliono vedere, forse per evitare di guardarsi allo specchio. La manipolazione costituzionale, pur nel suo infantilismo pasticcione e spottesco di un clan di boy scout grassatori, esprime i desiderata della banca e della finanza nell’auspicata “diminuzione della democrazia”, nella rimozione della partecipazione reale e dunque verso un regime autoritario che soffochi la protesta e protegga le oligarchie. Di Renzi e del suo governo non c’è che la forma ridicola, la sostanza della riforma costituzionale e di J. P. Morgan che del resto se lo merita con tutto quello che ha speso per la sua creatura, per far volare un asino. Una tesi più volte emersa e sommersa da una sua presunta e mai argomentata incredibilità. Ora però è talmente evidente che persino i grandi chiosatori del regime la fanno intendere fra e dentro le righe.

martedì 11 ottobre 2016

L’ingorgo delle grandi opere

Quando due anni, sette mesi e 18 giorni fa si insediò il governo Renzi, la macchina delle opere pubbliche era ridotta più o meno così: progetti portati avanti senza uno straccio di valutazione, zero risorse o quasi per interventi salva-vita come la difesa del suolo e la messa in sicurezza degli edifici, fondi europei non spesi o sprecati in una miriade di micro-interventi affidati alla cieca a Comuni e Regioni, dieci anni di attesa e più per il completamento di infrastrutture di oltre 50 milioni di euro.
Cosa si è fatto da allora per aggiustare quello che è considerato uno dei principali motori della crescita? Un fatto è certo: gli investimenti pubblici si stanno lentamente riprendendo dopo il crollo verticale degli anni scorsi e ci sono più soldi da spendere. Ma le grandi opere di collegamento come l’alta velocità ferroviaria sono ancora in gran parte prive di un serio esame preventivo e ciononostante hanno a disposizione molte più risorse delle opere salva-vita, quelle che dovrebbero prevenire alluvioni, frane, crolli di edifici e incidenti ferroviari. Le quali hanno sì più soldi di prima ma non quanto sarebbe necessario. E intanto l’Ufficio parlamentare di bilancio denuncia la assoluta incapacità dei ministeri nel valutare i progetti e l’assenza di una seria programmazione nazionale.
Mai forse come in questo momento il ruolo degli investimenti, e in particolare delle opere pubbliche, è stato così cruciale per le chance di crescita del nostro Paese. Dal loro successo o meno dipende se l’Italia resterà impantanata nella malinconica teoria degli zero virgola o riuscirà a prendere il largo superando la soglia maledetta dell’1%, sempre più simile alla porta che nel film di Bunuel “L’angelo sterminatore” gli invitati non riescono a oltrepassare alla fine della serata. Situazione surreale come surreale è la condizione in cui sono stati tenuti in tutti questi decenni gli investimenti pubblici. Eppure non c’è politico che non li abbia evocati come arma risolutiva contro la crisi. Sono diventati uno stucchevole refrain, un mantra tanto insistito quanto inascoltato. Il governo Renzi cerca ora di rimettere in moto le infrastrutture, puntando su 90 miliardi di opere prioritarie. Vediamo con quali risultati.
Le risorse: adesso ci sono
L’Italia ha vinto due battaglie con Bruxelles ottenendo da una parte la fine del patto di stabilità interno che impediva a molti Comuni di investire e dall’altra la possibilità di finanziare in deficit parte degli investimenti già decisi: avevamo chiesto per il 2016 poco più di 5 miliardi, la Ue ce ne ha riconosciuti 4,3. Non male. In più (come spiega l’Ance in un suo recentissimo studio) la legge di stabilità di quest’anno ha previsto un aumento di risorse per le infrastrutture del 10%, che le porta a 13 miliardi e mezzo. Ovviamente solo una piccola parte potrà essere spesa quest’anno. Ma l’inversione di tendenza c’è, soprattutto se pensiamo che tra il 2008 e il 2015 i soldi per le opere pubbliche sono crollati del 42,6%. Questa volta dunque i soldi ci sono. Come si stanno spendendo e con quali priorità?
Le priorità: cosa scegliere
Qualcuno ricorderà la lunghissima lista di infrastrutture che i governi precedenti avevano agganciato al carro della “legge obiettivo”, una procedura straordinaria nella quale finì letteralmente di tutto, a cominciare dalle grandi opere, quasi tutte rimaste al palo.
Un anno fa il governo Renzi sfoltì quella assurda lista annunciando anche che avrebbe spostato l’asse degli interventi sui piccoli cantieri, più facilmente realizzabili e in molti casi anche più utili dei maxi-progetti. «Focalizzarsi sulle grandi opere – spiegò il ministro Delrio - ci ha portato in 14 anni di legge-obiettivo a stanziare 285 miliardi per vederne impiegati soltanto 23, appena l’8%». «Opere utili, snelle e condivise», è lo slogan del Def 2016. Ma le grandi opere, pur dimezzate nel novero di quelle prioritarie, sono rimaste, soprattutto quelle ferroviarie di valico, prolungamento dei corridoi europei, e quelle per l’alta velocità al Sud. A queste, almeno nelle intenzioni di Renzi, si aggiungerà anche la madre di tutte le infrastrutture: il Ponte sullo Stretto.
Nello stesso tempo, però, viene data per la prima volta certezza di risorse pluriennali al riassetto idrogeologico, all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria. Così il governo sembra voler dare una risposta a due grandi obiettivi contemporaneamente: da una parte collegare l’Italia, dall’altra metterla in sicurezza. Ma in che proporzione le risorse sono destinate all’uno e all’altro? Difficile inoltrarsi nel labirinto dei finanziamenti pubblici. Prendiamo le opere che il governo potrebbe ora accelerare: quei 5,1 miliardi poi leggermente ridimensionati da Bruxelles. La parte del leone (circa la metà) la fanno trasporti e banda ultralarga per velocizzare Internet, mentre solo il 5% va alla protezione ambientale. Se poi restringiamo il campo ai progetti effettivamente in corso (2,6 miliardi) quasi il 40% va alle reti transeuropee con dentro i famosi corridoi ferroviari.
Questo non significa che non vi siano fondi per i cantieri minori e spesso più urgenti. L’Ance calcola in 900 milioni la disponibilità 2016 per l’edilizia scolastica e in 800 quella contro il rischio idrogeologico. C’è chi fa notare però che bisognerebbe concentrarsi quasi esclusivamente sul quel tipo di infrastrutture, che potremmo chiamare “opere salva- vita”, perché rispetto alle “opere di collegamento” presentano carenze infinitamente maggiori, oltre a garantire una crescita economica più diffusa e certa.
I fabbisogni del salva-vita
Per avere un’idea di fabbisogno delle infrastrutture salva-vita, guardiamo alla difesa del suolo e alla sua lotta impari con le catastrofi. Nei primi quindici anni del nuovo millennio, abbiamo da una parte duemila alluvioni che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. Dall’altro, un impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i 400 milioni annui.
Insomma, i poteri pubblici hanno investito per prevenire catastrofi in gran parte prevedibili un nono dei costi provocati dalle stesse catastrofi. Ora Italiasicura, la “struttura di missione” messa in piedi nel 2014 contro il dissesto idrogeologico, ci dice che il ritmo di spesa è aumentato a oltre un miliardo l’anno, e che tra fondi europei e nazionali saranno disponibili nei prossimi 7 anni altrettanti miliardi. Ma ci dice anche che questo non basta affatto: per dare alla parola prevenzione un significato appena dignitoso ci vorrebbe almeno il doppio, da spendere per più di dieci anni consecutivi. Solo così potremmo sperare di avvicinarci al fabbisogno indicato dalle Regioni: una ventina di miliardi.
Per adesso gli unici progetti che vanno avanti sono quelli di alcune città metropolitane, a partire da Genova, devastata dalle ultime alluvioni, e da Milano. E il grosso degli interventi sarà avviato solo nel 2018. Insomma, i tempi e i finanziamenti delle opere saranno anche meno lenti di prima ma sono ancora scanditi dal trascorrere degli anni, mentre torrenti e frane non aspettano. E se rinunciassimo ad alcune grandi opere per dare più spazio alle infrastrutture salva-vita? Una domanda alla quale se ne lega un’altra: quelle grandi opere confermate dal governo sono veramente utili? Chi le ha scelte e come?
Chi valuta e chi sceglie
Il governo, oltre a selezionare le nuove grandi opere, ha rivoluzionato le regole nella valutazione degli investimenti e negli appalti. Obiettivo: più qualità e trasparenza, tempi più rapidi, scelta delle opere in base a valutazioni rigorose, le cosiddette analisi costi-benefici. «Già, tutte buone intenzioni – dice Claudio Virno, esperto in valutazioni degli investimenti e consulente dell’Ufficio parlamentare di bilancio - ma questo sembra applicarsi ai progetti futuri, non a quelli in corso per i quali pare che il governo voglia mantenere le vecchie procedure, che di rigoroso non hanno nulla».
Sotto esame finiscono importanti opere ferroviarie per l’alta velocità: il terzo valico della Milano- Genova, il tunnel del Brennero, quello del Frejus della Torino- Lione, la Napoli-Bari. «Queste ultime due in particolare – continua Virno – non supererebbero test seri: hanno chiaramente sopravvalutato la domanda, il traffico futuro». Ma del resto abbiamo avuto un ministro dei Trasporti, predecessore di Delrio, che rispose così a quelle critiche: «Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà». «L’aspetto più drammatico – rincalza Marco Ponti, che insegna economia dei trasporti al Politecnico di Milano - è la irreversibilità dei progetti: una volta che li approva il Cipe non si torna più indietro. Prima di far partire un progetto, bisognerebbe fare una gara internazionale con serie valutazioni comparative tra soluzioni diverse.
Oggi invece le analisi non vengono fatte o vengono demandate ai diretti interessati. I trucchi per far passare i progetti politicamente più gettonati sono molteplici. Pensi che c’è una leggina per cui quando un’opera è interamente finanziata dallo Stato (e le opere ferroviarie lo sono tutte) non è richiesta nessuna analisi economica o finanziaria. Ossia, se l’opera è pubblica i soldi si possono anche buttare dalla finestra. La conclusione è che ci sono una trentina di miliardi di progetti che rischiano di non essere valutati a dovere». Ma il ministero delle Infrastrutture la vede in modo diametralmente opposto: «Questa era la situazione fino ad oggi, ma ora con la nostra struttura di missione, fatta di esperti di livello internazionale, abbiamo rivisto moltissimi progetti facendo risparmiare miliardi di euro». Il problema però è che su 90 miliardi di opere prioritarie, 50 sono vincolati giuridicamente e 75 già approvati dal Cipe.
Strutture di missioni, valutatori esterni: ecco, per far funzionare una amministrazione pubblica, sembra che ci si debba per forza rivolgere a qualcuno al di fuori dei ministeri. Ma allora che ci stanno a fare le centinaia di funzionari e dirigenti? Se lo chiede l’Ufficio parlamentare di bilancio in suo recente studio. «I ministeri non dispongono di personale interno con le competenze professionali specialistiche necessarie, e lo stesso si può dire per i Nuclei di valutazione. Non c’è scambio di informazioni all’interno, non sono mai state applicate sanzioni per chi non fa il suo dovere ». In queste condizioni non c’è da stupirsi se i progetti sono fatti male e si impantanano in un crescendo di tempi e di costi.
Per non parlare del diluvio di sigle che ruotano intorno alla scelta delle opere: in ogni ministero ci sono i Nuvv (nuclei di valutazione degli investimenti), ai quali si affiancano a Palazzo Chigi il Nuvap, l’Uftp e il Nuvec che fa capo all’Agenzia per la coesione territoriale. A tutte queste sigle si chiedeva di scrivere almeno una cosa: il documento pluriennale di pianificazione, con l’analisi di tutti fabbisogni infrastrutturali. Ma questo documento è ancora fantasma, come sono fantasma le Linee guida per la valutazione. Niente paura, nel frattempo sono stati preparati i Vademecum che faranno da guida alle Linee guida.
Un percorso kafkiano che l’Ufficio bilancio chiama eufemisticamente «quadro istituzionale molto frammentato». Come frammentato è il quadro delle competenze, dove Regioni e Comuni hanno il potere di rallentare ogni opera e di aprire un contenzioso dopo l’altro portando l’Italia ai vertici mondiali dei ritardi.
Di fronte a questo affresco di deresponsabilizzazioni, si capisce come in tutti questi anni siano finiti i soldi dei progetti europei: da una parte in maxi-opere che si sono presto impantanate con costi e tempi fuori controllo, dall’altra in migliaia di micro-progetti locali che non rientrano in nessuna strategia nazionale.

lunedì 10 ottobre 2016

La finta retorica anti-austerity di Renzi

Il premier in pubblico non risparmia critiche all’Europa e all’austerità ma nei fatti continua da anni a perseguire – con un po’ di flessibilità, ça va sans dire – la strada del “consolidamento fiscale”
Il governo ha svelato le cifre della nuova manovra finanziaria (la nota di aggiornamento al documento economico e finanziario (DEF) 2016): nel 2017 il deficit scenderà al 2% (dal 2,6% di oggi), ma con una possibile estensione di un ulteriore 0,4% (nel qual caso scenderebbe al 2,4%). A qualcuno sarà forse capitato di leggere sui giornali l’esatto contrario, ossia che il deficit l’anno prossimo “salirà” . Come è possibile: sale o scende ‘sto deficit? La riposta è semplice: nei fatti il deficit scende, ma “sale” rispetto alla previsione (del tutto irrealistica) contenuta nel DEF dell’anno scorso: 1,8%. Tanto basta a molti commentatori per parlare di un “aumento” del deficit. La verità è che, come per il DEF dell’anno scorso, anche quest’anno siamo di fronte una manovra restrittiva che verrà senz’altro spacciata dal governo come una manovra espansiva . Ma i numeri parlano chiaro: una riduzione del deficit comporterà necessariamente più tagli e/o più tasse. Altro che flessibilità. Altro che battaglia all’austerity.
Basta guardare a come cambia il saldo primario. Fin qui, infatti, abbiamo parlato del saldo totale previsto, inclusivo della spesa per interessi, che però è destinata a scendere nei prossimi anni per effetto dei tassi di interesse ultra-bassi. Per capire realmente il segno di una manovra di bilancio – ossia per capire se la si possa definire espansiva o restrittiva – bisogna guardare al saldo primario, che calcola la differenza tra le entrate delle amministrazioni pubbliche e le loro spese, al netto degli interessi sul debito pubblico. È questo il dato che conta ai fini dell’impatto di una manovra sull’economia reale: se il saldo primario è in avanzo vuol dire che lo Stato toglie più soldi all’economia via tasse di quanti ve ne immetta via spesa (con effetti solitamente recessivi); per contro, se il saldo primario è in disavanzo, vuol dire che lo Stato immette più soldi nell’economia via spesa di quanti ne tolga via tasse (con effetti solitamente espansivi). Sì dirà: ma se quei soldi servono a pagare gli interessi sul debito e se il debito è detenuto in buona parte dai residenti, alla fine quei soldi tornano comunque indietro all’economia, no? Tecnicamente sì, ma togliere alla collettività (via tasse, che come si sa gravano soprattutto sui lavoratori dipendenti) per ripagare i possessori di titoli pubblici (nella maggior parte banche e cittadini ad alto reddito) rappresenta comunque una redistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto, recessiva per definizione (perché si toglie a chi ha un’alta propensione al consumo per dare a chi ha una bassa propensione al consumo).
Come si può immaginare, saldo primario e saldo totale non sempre sono dello stesso segno: se un paese registra una spesa per interessi molto alta, può capitare che il saldo primario sia in avanzo ma il saldo totale sia in disavanzo, per il semplice fatto che il saldo primario non riesce a coprire tutta la spesa per interessi, e dunque il paese in questione è costretto ad indebitarsi solo per coprire la fetta rimanente della spesa per interessi. È questo il caso dell’Italia, che in barba a tutte le accuse di essere un paese “spendaccione” e dalle finanze pubbliche “disastrate” registra un avanzo primario sin dal 1992 ed è da quasi vent’anni la nazione europea più virtuosa sul fronte del saldo primario.
Dovendo però far fronte ad una spesa annuale per interessi che dal 2000 ad oggi si è assestata intorno al 5% del PIL – pari all’incirca a 80 miliardi di l’anno –, ecco che uno dei saldi primari più alti del mondo si trasforma in deficit. Questo vuol dire che i 2000 miliardi di debito superati nel 2012 sono dunque in buona parte il risultato dell’accumulo degli interessi. Nulla a che fare con un’eccessiva spesa pubblica o un welfare troppo generoso, con buona pace dei fanatici antispesa. Semplicemente, a fronte di una spesa per interessi così onerosa, degli avanzi primari da record diventano un colossale trasferimento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori e dei produttori verso quelle dei rentier , sia italiani che stranieri.
Tutto questo per dire che per capire veramente se il DEF di quest’anno servirà a sostenere l’economia o meno, il dato che conta è quello del saldo primario. Sono anni che in Italia ad ogni manovra di bilancio il saldo primario sale, in linea con gli obiettivi previsti dal fiscal compact . Ed è ovvio che sia così: al netto della spesa per interessi e della crescita del PIL (che negli ultimi anni sono rimasti sostanzialmente stabili), per far scendere il deficit totale bisogna far salire il saldo primario. Anche quest’anno sarà lo stesso, con un aumento dell’avanzo primario nel 2017 dall’1,5 all’1,7%, ergo la necessità di ulteriori tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse. E questo nonostante la spesa per interessi sia destinata a scendere di ben tre decimali: dal 4 al 3,7%. Alla faccia del quantitative easing che dovrebbe liberare “spazio fiscale”.
In conclusione, anche quest’anno il DEF sbugiarda la retorica “anti-austerity” di Renzi: un premier che in pubblico non risparmia critiche all’Europa, all’austerità («Fa più male che bene»), alla Germania («Non rispetta le regole sul surplus commerciale»), al fiscal compact («Non ha funzionato»), ma che nei fatti continua da anni a perseguire – con un po’ di flessibilità, ça va sans dire – la strada del “consolidamento fiscale

venerdì 7 ottobre 2016

Gli stipendi italiani sono tra i più bassi d’Europa

Un’analisi dell’Osservatorio JobPricing rivela che un lavoratore dipendente in Italia percepisce una retribuzione annua lorda media di 29.176 euro. Un dato in linea con quanto evidenziato dall’Ocse che colloca i nostri lavoratori al 9° posto tra i 15 Paesi della zona Euro, nella stessa posizione dell’anno precedente. Un impiegato di Parigi, di Helsinki o di Dublino guadagna più del suo collega italiano.
L’Italia si posiziona dopo i principali Paesi della zona Euro come Francia e Germania, con un distacco significativo anche dall’Irlanda e solo poco prima della Spagna, due Paesi che hanno subito in maniera significativa gli effetti della recessione del 2008.
Il cuneo fiscale italiano fa sì che gli stipendi dei lavoratori dipendenti, considerati al netto della tassazione, ci portino agli ultimi posti della classifica. Detto ciò l’unica soluzione possibile, sarebbe quella di tagliare le tasse sul lavoro, come hanno fatto altri paesi Ue.
Su 13 mensilità di stipendio, un Operaio guadagna mediamente 1.349 Euro netti al mese, un Impiegato 1.653 Euro, un Quadro 2.544 Euro e un Dirigente 4.129 Euro. Su 14 mensilità di stipendio, il percepito medio netto di un Operaio è di 1.253 Euro, quello di un Impiegato 1.535 Euro, quello di un Quadro 2.2362 Euro e quello di un Dirigente 3.834 Euro.
I lavoratori occupati nel Nord guadagnano di più rispetto ai lavoratori del Centro Italia (+4.4%) e soprattutto a quelli del Sud e Isole (+17.9%). Il mercato evidenzia una disparità di retribuzioni tra uomini e donne: il gap di genere è pari al 11.6% a favore degli uomini, che guadagnano in media quasi 3.200 euro in più delle colleghe.
Il Database di JobPricing è costituito da circa 250mila profili retributivi relativi a lavoratori dipendenti di aziende private, raccolti durante il 2014, 2015 e il 1° semestre del 2016.

giovedì 6 ottobre 2016

LE BALLE TELEVISIVE DEL MINISTRO DELLA CANCELLAZIONE DEL LAVORO POLETTI: IN TUTTA UE LA CRESCITA E’ BASSA

Ecco il nostro immenso “boaro figlio di boari” (per dirla alla Crozza) che tenta di spiegare agli italiani che se la devono prendere in saccoccia perché:
i lavori cambiano quindi se prima serviva l’addetto al check-in oggi non servi più (quindi in pratica è colpa tua se a scuola non hai pensato bene di fare l’ingegnere aerospaziale capace di disquisire sulla teoria delle stringhe con Stephen Hawking);
in tutta europa il lavoro non c’è più perchè la crescita è bassa.

Premesso che il punto uno potrebbe essere vero ma, in un paese normale, la possibilità di reinventarsi non dovrebbe esser difficile (se ad esempio il mercato interno dei servizi e il commercio non fosse massacrato dall’AUSTERITA’ ESPANSIVA), il secondo è una vera e propria bufala. Diciamo che il 2 vale solo nelle economie occidentali avanzate poiché laddove non vi è l’euro o laddove i salari sono più bassi di quelli italiani e francesi, il lavoro c’è, frutto dello sviluppo del mercato interno, nel primo caso, e del dumping salariale nel secondo.
Cari giornalisti televisivi, sarà ora di porre domande scomode a questi SEDERINIALCALDO o no? La colpa della nostra crisi attuale è solo vostra, nemmeno dei Renzi o dei Poletti, solo voi tenete i cittadini all’oscuro delle trame nere ordite da questi sciacalli!

mercoledì 5 ottobre 2016

Il potere è guerra. E pretende il nostro Sì al referendum

Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.
In un lungo intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, La Valle parte dall’Italia, dove «succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa». Raniero La ValleQualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. «E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato». L’ex parlamentare della Sinistra Indipendente non usa giri di parole: «E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra». In Africa, in Medio Oriente e anche in Europa «si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori». Nel resto del mondo, peraltro, lo spettacolo non è migliore: è appena fallito il G20 ad Hangzhou, in Cina. I “grandi della terra”, «che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo», non sanno che fare «per i profughi, per le guerre», non vogliono «evitare la catastrofe ambientale», né tantomeno «promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra».
L’unica cosa che decidono «è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania». E in tutto questo l’Italia che fa? «Fa eleggere i senatori dai consigli regionali». Ed è l’Italia a crescita zero, col 39% di giovani disoccupati, il lavoro precario, i licenziamenti in aumento: «I poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone». Il governo Renzi «fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona». Si dice: ce lo chiede l’Europa, cioè il Napolitanofantasma di un sogno lontano e completamente abortito. «Se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così».
La verità è rivoluzionaria, certo, ma bisogna conoscerla per tempo: «Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato». Esempio: «Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco». Idem: «Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo». E ancora: «Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata».
Dunque, insiste La Valle, la verità del referendum anti-Renzi va conosciuta “finché si è in tempo”. Il vantato risparmio sui costi della politica? Ridicolo: per la Ragioneria Generale dello Stato, il taglio della paga dei senatori vale appena 58 milioni, mentre il costo del Senato resta. Il risparmio sui tempi della politica? Illusione: il bicameralismo rimane, perché «si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere», creando «un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze». Non è la legge Boschi il vero oggetto della consultazione: la verità è nascosta dietro le urne. Il referendum è «un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è: è uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco». Il voto è rivelatore dello stato del mondo. Bisogna trovare la sua verità nascosta, il suo vero “movente”, la sua vera premeditazione, partendo proprio da Renzi: ha ammesso che la riforma gli è stata Renzi“suggerita” da Napolitano. E prima ancora dalla Jp Morgan, che già nel 2013 accusava la nostra Costituzione di tutelare eccessivamente i diritti del lavoro e «la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere».
E’ il diktat storico della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller: limitare la democrazia. «La stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese». Ci si è messo anche l’ambasciatore americano a Roma: se in Italia vincesse il No, gli “investitori” scapperebbero. I diritti del lavoro Renzi li ha già “sistemati” col Jobs Act. “Spegnendo” il Senato diverrebbe padrone dell’agenda parlamentare. E con l’Italicum – 340 deputati su 615 al partito di maggioranza, a prescindere dal numero di voti ottenuti – ne farebbe “un uomo solo al comando”: sfiduciare il governo, se pessimo, sarebbe prerogativa esclusiva del partito stesso, non più degli eletti. In più le nuove procedure introdotte «renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare». Risultato: «Ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere». Si accorgeranno, “i cittadini”, che sono stati proprio loro a spingere Renzi fin lassù?
Tra gli “indizi” che svelano la vera natura della sfida, Raniero La Valle cita la risposta di Romano Prodi, interrogato sul voto: non mi pronuncio, ha detto, perché altrimenti turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. «Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo». Mondo che, continua La Valle, era già cambiato – in modo drastico – ben prima dell’11 settembre 2001. Per lo storico britannico Eric Hobsbawm, il “secolo breve” finì già nel 1991: lì fu dato inizio «a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo», tant’è vero che l’economista Francis Fukuyama, beniamino della Trilaterale, lo definì come la “fine della storia”: il capitalismo senza più freni, che si finanziarizza e impone in tutto il mondo la legge del più forte. Un potere totalitario che Prodiabbatte diritti, conquiste sociali e sovranità democratiche. E attenzione: secondo La Valle «c’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore».
Ed ecco il punto: il sacrificio simbolico. Secondo l’antropololo francese René Girard, fin dall’inizio della storia della civiltà, il “delitto fondatore” è l’uccisione della vittima innocente. «Ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali». Per un padre dell’Illuminismo come il filosofo inglese Thomas Hobbes, lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza, ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà. Anche secondo Freud, all’origine della società civile c’è un “delitto fondatore”: quello dell’uccisione del padre. «Se poi si va a guardare la storia – continua La Valle – si trovano molti “delitti fondatori”. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”». Da noi, «l’uccisione di Moro è il “delitto fondatore” dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari».
E qual è il “delitto fondatore” dell’attuale regime del capitalismo globale? Qual è il crimine sacrificale che “battezza” il nuovo regime planetario basato sul governo del denaro? Quale grande evento sdogana questa “economia che uccide”, istituzionalizzando un sistema in base al quale, perché qualcuno stia meglio, altri “devono” stare peggio? E’ la guerra, naturalmente: per la precisione la prima Guerra del Golfo, quella del 1991. «È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale», scrive Raniero La Valle, che cita una data precisa: il 26 novembre 1991. Quel giorno, il nuovo “regime” si presentò in Italia. Il ministro della difesa Rognoni illustrò in commissione, alla Camera, il Nuovo Modello di Difesa. La “nuova” guerra, quella di oggi. Svanito il nemico sovietico, la vecchia Nato non serviva più: tramontata la guerra fredda, veniva meno anche la deterrenza nucleare. Opportunità storica: investire nella pace e nello sviluppo i miliardi fino ad La Prima Guerra del Golfoallora destinati ad armamenti ormai inutili. «Ma l’Occidente fa un’altra scelta: si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima Guerra del Golfo del 1991».
Ci siamo: cambia la natura della Nato, il nemico non è pià l’Est ma il Sud. L’Occidente «cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’Onu». Tramontano anche «gli ideali della comunità internazionale, che erano la sicurezza e la pace». Meglio la guerra, per assicurarsi in modo permanente l’accesso privilegiato alle materie prime, come il petrolio. Riflesso italiano: via l’esercito di leva, serve una milizia di professionisti. Da impiegare non più in Italia ma all’estero, nelle missioni “umanitarie”. Mediterraneo, Somalia, Medio Oriente, Golfo Persico: «La nuova contrapposizione è con l’Islam», a partire dal conflitto israelo-palestinese. «Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991». Col Nuovo Modello di Difesa imposto all’Italia «non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’Onu: viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico». In Parlamento «non si dovrebbe parlare d’altro», e invece «nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula».
Un modello-fantasma, sotterraneo ma pienamente operativo da subito: «Tutto quello che è avvenuto in seguito – dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il Papa, è in corso – ne è stato la conseguenza e lo svolgimento». E allora, meglio si capisce, oggi, la verità del referendum renziano: «La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio», avverte La Valle. «Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente: chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano». La politica? Si faccia da parte: «Non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo L'allora ministro Virginio RognoniStato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale».
Si scrive referendum, ma si legge: ultimo appello. Per Raniero La Valle, votare No «è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale». Perché «sia la società selvaggia che, con il No, sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto». E’ toccato a Renzi indossare quella maschera, ma al suo posto poteva esseci chiunque altro. Certo, l’attuale premier si è dimostrato l’uomo giusto al posto giusto: «Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi», per sgombrare il campo dagli ultimi inciampi rappresentati dalle Costituzioni che “ripudiano la guerra”. Tutto è guerra, ormai. Questa economia è guerra. Pefettamente mondializzata, a partire dal fatidico 1991, l’anno del “sacrificio” dell’Iraq che spalancò le porte alla nuova epoca fondata sulla violenza internazionale. Da allora, «la guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato».