venerdì 30 settembre 2016

Le Ferrovie di Renzi: Frecce private, binari e pendolari pubblici

Alta voracità. I piani del governo per il gruppo Fs: socializzare le perdite del trasporto locale e degli investimenti sulla rete ferroviaria, privatizzare i profitti quotando in borsa nel 2017 i treni ad alta velocità e a lunga percorrenza. Con il Ponte sullo Stretto "infrastruttura ferroviaria", e l'interesse per il Tpl per pendolari e studenti». il manifesto, 29 settembre 2016
Privatizzare entro un anno i soli treni ad alta velocità e a lunga percorrenza, cioè quelli da cui Ferrovie dello Stato guadagnano. Entrare, e “scalare”, il settore del trasporto pubblico locale su gomma, ben nota passione del presidente del consiglio. E considerare il Ponte sullo Stretto come un’opera ferroviaria. Di più: “Come se fosse una galleria”. Dall’ad del gruppo Fs, Renato Mazzoncini, arrivano tre indizi che fanno prova: il governo Renzi insiste nella strategia di (s)vendere ai privati, attraverso la borsa, i gioielli della corona statale. E di far contenti i ras delle costruzioni con il Ponte sullo Stretto, travestendolo da infrastruttura su ferro per poter contare sui finanziamenti Ue. Al riguardo sono illuminanti le parole del fedele Mazzoncini: “Il ponte costa 3 miliardi e 900 milioni, tutte le infrastrutture dei corridoi ferroviari europei arrivano a 120 miliardi. Quindi il problema non sono i soldi, il ponte è stato sempre gestito come traffico stradale, con costi enormi. Ma trattata come un’opera ferroviaria sarebbe diverso”.
Così è se vi pare. Nel mentre il governo fa presentare ai vertici delle Ferrovie un megagalattico piano decennale, nel quale sono confermate opere fortemente discusse dalle popolazioni come il Terzo Valico (cioè la Tav Milano-Genova), e naturalmente la Torino-Lione con lo sventramento della Val di Susa. Poi, per tacitare le Regioni che sul trasporto locale (pendolari e studenti) si svenano da anni, per supplire alla strategia “Tav oriented” delle Ferrovie di Moretti e oggi di Mazzoncini, arriva il contentino della commessa già avviata per 450 nuovi treni regionali. Con i primi, previsti nel 2019, destinati all’Emilia Romagna fedele alla linea su cui Renzi tanto spera in vista del referendum costituzionale.
E il sud? Anche qui tutto ad alta velocità, con l’annuncio di Mazzoncini di voler aprire i cantieri sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania-Messina, e sulla Salerno-Reggio Calabria “che dovrà essere potenziata per lo sviluppo della Napoli-Palermo”. Con annesso Ponte sullo Stretto, così i centristi di Angelino Alfano saranno contenti. Poco o nulla invece sulle disastrate linee locali e periferiche del meridione, quelle che resteranno in carico alle Ferrovie (controllate al 100% dal Tesoro) dopo la (s)vendita del ghiotto boccone delle Frecce. In altre parole: socializzare le perdite – compresi i necessari investimenti sulla rete che resterà pubblica – e privatizzare i profitti.
“L’ipotesi su cui stiamo ragionando è una quotazione non inferiore al 30% – spiega Mazzoncini – e abbiamo ipotizzato di dividere Trenitalia in due, con la divisione della lunga percorrenza, ovvero Frecce e Intercity. Questa divisione oggi ha un fatturato di 2,4 miliardi che può crescere nel Piano fino a 3 miliardi, un Ebitda di 700 milioni che possono diventare un miliardo. L’appeal è molto evidente”. A ruota la presidente Fs, Gioia Ghezzi: “I tempi della quotazione di Fs sono quelli tecnici per portare a termine la quotazione, quindi a un anno da oggi, nel 2017”. Quando poi le fanno notare l’assenza di Pier Carlo Padoan, titolare del Tesoro, Ghezzi puntualizza: “Non saremmo venuti qui a presentare l’Ipo se non ci fosse perfetto allineamento con l’azionista”.
“La quotazione deve essere un mezzo per lo sviluppo dell’azienda e non un fine”, prova a dire Mazzoncini guardando alle prime reazioni sindacali. “Particolarmente delicato e complesso – fanno sapere Filt Fit e Uilt – si presenta il tema della cessione di quote di proprietà del ministero dell’economia, tema che suscita più di una perplessità”. Più diretto Matteo Mariani dell’associazione “In marcia”, che edita la storica rivista dei macchinisti Fs “Ancora in marcia”: “Si lascia quello che costa a carico dello Stato. Mentre si dà ai soliti noti quello che rende, ò può rendere”.
Fra gli obiettivi delle Ferrovie c’è anche il settore del trasporto pubblico locale su gomma. Insomma sugli autobus, giudicati come terreno fertile anche grazie al decreto Madia che, in spregio al referendum del 2011, “liberalizza” tutte le public utilities, dai rifiuti ai trasporti all’energia: “L’obiettivo è il mercato Tpl – spiega ancora Mazzoncini – cogliendo opportunità in tutta Italia, partecipando a gare e laddove possibile acquisendo operatori strategici”. Sul punto arriva la benedizione diretta di Renzi: “Il piano di Fs è un piano che sa rischiare, che sa guardare al futuro, che tiene insieme l’altissima eccellenza come l’alta velocità, e un’attenzione maggiore per i pendolari che hanno bisogno di nuovi treni e nuovi bus”. Però nella “sua” Toscana la gara c’è già stata. E non l’ha vinta la Busitalia di Fs – subito ricorsa al Tar – che è stata sconfitta dalla francese Ratp. Una società pubblica.

giovedì 29 settembre 2016

Non esistono multinazionali innocenti, ricattano il mondo.

La Apple ha rubato 13 miliardi di tasse ai cittadini europei secondo la Commissione Ue, ma è solo la punta dell’iceberg. Tutte le multinazionali hanno come ragione sociale l’elusione e l’evasione dalle leggi e dal rispetto dei diritti sociali e delle norme ambientali, esistono precisamente per questo scopo. E tutti i governi che praticano il libero mercato sono con esse complici. Il governo irlandese è sotto accusa perché non faceva pagare tasse solo alla Apple. Se avesse esteso a tutte le aziende il trattamento di favore riservato a quella della Mela, e ricordiamo che la tasse sui profitti in quel paese sono già abbassate ad un ridicolo 12,5%, se tutte le imprese in Irlanda fossero state fisco esenti, la Ue non avrebbe potuto dire nulla. Come non dice nulla sul trasferimento della sede Fca in Olanda e su tanti altri casi simili. Ogni paese Ue può essere un paradiso fiscale per ricchi e multinazionali, purché non faccia favoritismi, il privilegio deve essere uguale per tutti. Per questo il Lussemburgo dell’attuale presidente della Commissione, Juncker, è sotto accusa.
A Fiat e Starbucks, sono stati fatti favoritismi eccessivi rispetto a tanti altri. Ma la concorrenza fiscale al ribasso tra i paesi della Ue come tale è ammessa, anzi è nello spirito del trattato di Maastricht e dei suoi principi ultraliberisti. A questo serve la Applemoneta unica, a mettere in concorrenza tra loro gli Stati sulla svalutazione di tasse, salari e diritti. E le multinazionali conducono l’asta. Durante il confronto sulla Brexit l’europeismo irlandese è stato contrapposto allo scetticismo britannico. L’Irlanda è stata presentata come il solo paese, tra quelli “periferici”, ad aver gestito virtuosamente crisi ed euro. Altro che gli altri Piigs. Ora sappiamo a quale prezzo e con quali risultati, ma niente ipocrisia. Alla Apple è capitato su questa sponda dell’Atlantico ciò che è toccato alla Volkswagen sull’altra. Sono rondini che non fanno primavera e stanno tutte dentro il cielo del Ttip. Oggi questo trattato è in crisi per il rifiuto dei popoli, e dobbiamo dire grazie alla Brexit, ma anche perché le multinazionali tra le due sponde dell’oceano hanno conti da regolare.
In ogni caso però la linea di fondo che ispira la Ue e tutti i suoi governi rimane sempre la stessa: attirare gli investimenti delle multinazionali con concessioni fiscali e sociali per rimpiazzare così i tagli alla spesa e agli investimenti pubblici. Il governo italiano, non a caso il più ottusamente servile verso il Ttip, il suo regalo alla Apple lo ha già fatto. L’azienda doveva al fisco 880 milioni per Ires non pagata, e lo Stato italiano ha transato accontentandosi di 330. Immaginatevi un cittadino normale che debba 880 semplici euro al fisco e che si rivolga all’Agenzia delle Entrate esigendo il trattamento Apple, verrebbe considerato Renzi con Tim Cookmatto. Invece con Tim Cook Renzi fa i selfie sperando che porti lavoro. Le multinazionali sono al disopra delle leggi e delle regole di tutti noi e per i governi è un merito riconoscerglielo. Quello turco, anche per coprire la sporca guerra contro i curdi, ha subito offerto i suoi servigi ad Apple.
Non sappiamo se la vicenda Apple si concluderà come è iniziata, o, più probabilmente, con una transazione all’italiana o con altro ancora. Quello che è chiaro è che senza mettere in discussione i meccanismi del libero mercato e della globalizzaione liberista le multinazionali continueranno a ricattare il mondo, con l’aiuto dei governi complici. Ed è altrettanto chiaro che la Ue e l’euro, che hanno fatto del libero mercato il principio costituzionale, non sono la soluzione, ma parte del problema. La nostra Costituzione, all’articolo 53, impone un fisco progressivo e sono incompatibili con essa i privilegi sulle tasse per chi ha più potere e ricchezza, a partire dalle multinazionali. Che non a caso, assieme a tutti i poteri Ue, sostengono il Sì alla controriforma costituzionale del governo e temono un vittoria del No. Che è invece un passo necessario per restituire al popolo il diritto all’eguaglianza, cancellato oggi dai privilegi del mercato globalizzato. Solo un No ci può salvare.

martedì 27 settembre 2016

Bahamas Leaks, la nuova inchiesta sui conti offshore che fa tremare i potenti

Non si è ancora spenta l'eco dello scandalo Panama Papers – l'inchiesta giornalistica internazionale che ha svelato quarant'anni di affari offshore gestiti dallo studio Mossack Fonseca – che una seconda gigantesca fuga di notizie è pronta a far tremare, di nuovo, i palazzi della finanza mondiale. Si cambia paradiso: non più Panama, bensì le Bahamas. Ma il vizio è lo stesso: anche qui politici, imprenditori, banchieri, finanzieri, insieme a mafiosi, latitanti e trafficanti, hanno aperto conti correnti e società anonime per sfuggire al fisco e alla giustizia.
Ancora una volta sono stati i giornalisti d'inchiesta dell'Icij, International Consortium of Investigative Journalists, di cui fa parte l'Espresso in esclusiva per l'Italia, a bucare il muro di riservatezza di uno dei paradisi fiscali più impenetrabili del mondo, le Bahamas appunto. L'inchiesta, che per ampiezza è seconda solo ai Panama Papers, nasce da una fuga di notizie che ha portato alla luce un archivio di oltre 175 mila società inserite nel "Registrar General Department", l’imponente archivio di Nassau, capitale di questo paradiso esentasse. I documenti sono stati acquisiti dai reporter del giornale tedesco Suddeutsche Zeitung, che li hanno messi a disposizione del consorzio Icij, per condividerli con decine di media partner di tutto il mondo, tra cui l’Espresso. Nasce così #bahamasleaks.
Tra i nomi registrati nelle offshore delle Bahamas ci sono i potenti di tutto il mondo. Il più sorprendente è quello di Neelie Kroes , l'ex commissaria alla concorrenza dell'Unione Europea, in carica dal 2004 al 2010. Un nome che rischia di creare qualche problema e non pochi imbarazzi nelle istituzioni continentali. A Bruxelles l’avevano soprannominata "Steely Neelie", Neelie l’inflessibile, e tutti ricordano quando la signora della politica olandese intimava alle multinazionali: «Non potrete sottrarvi alle nostre regole fiscali». Ma adesso salta fuori che, mentre lanciava strali mirati, aveva interessi non dichiarati alle Bahamas. Dove ha rivestito la carica di "director", cioè ha amministrato, dal luglio 2000 all’ottobre 2009, una società offshore tuttora attiva. Lo dimostrano le carte rimaste finora nascoste nell’isola caraibica: la società si chiama Mint Holdings Ltd era stata creata nell’aprile di sedici anni fa da "Steely Neelie", oggi autorevole esponente di un partito di centrodestra del Belgio.
Tra gli altri potenti della politica con le offshore alle Bahamas spiccano lo sceicco del Qatar Al Thani, il ministro colombiano Carlos Caballero Argaez, il figlio dell'ex dittatore cileno Pinochet . E poi ci sono i familiari di un ex premier della Nigeria, il ricchissimo uomo d'affari giordano Amin Badr El-Din e tanti altri.
Questo primo articolo è solo un inizio, un assaggio. Perché a partire da oggi un centinaio di giornalisti di tutto il mondo, dopo aver scavato per mesi tra un milione e 300 mila documenti (in tutto 38 gigabytes), stanno cominciando a pubblicare solo i primi risultati di un'inchiesta internazionale che continua. L'archivio offshore delle Bahamas riguarda oltre 175 mila società registrate dal 1990 ai primi mesi del 2016. Nelle prossime ore ogni testata associata al consorzio pubblicherà, per il propri paese, i nomi di politici, banchieri, finanzieri, uomini di Stato, criminali ed evasori fiscali con i soldi alle Bahamas. I nuovi file portano alla luce decine di società, finora ignote o semisconosciute, collegate a politici in carica o ad ex governanti delle Americhe, dell'Africa, dell'Europa, dell'Asia e del Medio Oriente.
Ovviamente nel database di Bahamas Leaks c'è anche l'Italia. L’Espresso ha scoperto 417 file di documenti con la targa Italy. Nel numero in edicola da domenica prossima, l’Espresso diffonderà parecchi nomi. C’è di tutto: industriali, banchieri d’affari, nobili, big della finanza, un gran nugolo di avvocato e commercialisti. Volti celebri e persone semi-sconosciute. Personaggi in vista nelle grandi città, dalla Lombardia alla Sicilia, ma anche nella provincia più profonda: particolarmnente nutrita è la rappresentanza del Nordest.

lunedì 26 settembre 2016

Otto anni di illusioni e fallimenti

Obama ha tenuto il 20 settembre il suo ultimo discorso alle Nazioni Unite, degna conclusione dei suoi innumerevoli fallimenti. “No agli uomini forti e a modelli di società guidate dall’alto”, “Un mondo in cui l’1% dell’umanità controlla una ricchezza pari al 99% non è uguaglianza, capisco che è sempre esistito il divario tra ricchi e poveri ma ora si è acuito”. Sembrerebbero parole ragionevoli se non fosse che sono state pronunciate da un presidente che durante i suoi mandati è riuscito ad incrementare il controllo delle 5 principali banche sull’economia statunitense dal 40% ai tempi di Bush fino ad oltre il 60%. Pare non gli andasse bene che fosse l’1% a controllare le ricchezze, troppi, infatti si è impegnato a concentrare l’economia nelle mani di 5 banche. Obama non è stato un amico delle grandi banche e dei grandi gruppi finanziari, è stato piuttosto diretta espressione dei loro interessi.
Certamente ne gli Stati Uniti ne il mondo hanno avuto alcun beneficio dai suoi due mandati di presidenza, probabilmente in futuro verrà ricordato come il peggior presidente della storia americana. Elencare i suoi fallimenti, dall’Ucraina allo Yemen, elencare le centinaia di migliaia di morti che ricadono sulla coscienza del premio Nobel per la pace è un ardua impresa. Due per tutti, durante il suo discorso ha insistito sul fatto che “in Siria è difficile che ci possa essere una vittoria militare definitiva” e che bisogna intervenire diplomaticamente per favorire la “transizione”, ovvero dopo oltre mezzo milione di morti insiste sul fatto che il presidente siriano Bashar Al Assad vada rimosso. Oppure come dimenticare la decisione di appoggiare l’attacco della Francia alla Libia con tutto il carrozzone NATO. Senza l’intervento americano Gheddafi sarebbe ancora lì ed avremmo evitato la tragedia dei migranti, il dilagare dell’ISIS in Medio Oriente e la guerra continua nel Nord Africa. Ha attaccato Trump e Putin bollandoli come autoritari: “La democrazia resta il vero percorso da compiere, c’è un crescente conflitto tra liberalismo ed autoritarismo, sarò sempre dalla parte del liberalismo”.
In questo passaggio sembra ignorare il fatto che la sua idea di democrazia liberale, causa della crisi attuale, non è guidata ne da Trump o Putin, ma da 4 agglomerati finanziari detti fondi d’investimento. Infine dice “il mondo oggi si trova davanti una scelta: o andare avanti o tornare indietro”. Noi ci auguriamo che si interrompa questo processo integrazione globale guidata dai grandi gruppi finanziari e si faccia piuttosto qualche passo indietro, magari nel caso italiano a qualche decina di anni fa. Ma sarebbe ipocrita dare ad Obama tutte le colpe, è come dare al mandante di un omicidio tutta la colpa lasciando impuniti i mandanti. Obama ha deciso ben poco di testa sua, ha obbedito a grandi interessi che si muovono tra Pentagono e Wall Street. A volte però fortunatamente grazie ai suoi fallimenti è stato piuttosto d’ostacolo ai loro piani. Anzi, possiamo dire senza ombra di dubbio che la più grande eredità da lui lasciata all’ umanità sono i suoi più grandi fallimenti.
Immaginate quale epocale disastro sarebbe stato se fosse riuscito a far accettare agli europei il TTIP, o se fosse davvero riuscito ad evitare la vittoria del Brexit, o a rovesciare il governo di Assad in Siria trasformandola in un altra Libia, immaginiamo le conseguenze per gli equilibri globali se fosse riuscito a portare a termine il progetto di Gasdotto Qatar – Turchia. Quali disastri sarebbero stati per l’umanità. Per correttezza bisogna dire che qualcosa di buono ha fatto, forse di sua iniziativa, forse per sbaglio, forse per forza di cose, come l’opporsi al bombardamento in Siria dopo il falso attacco con armi chimiche di Assad (bombardamento fortemente voluto da Hillary Clinton), oppure portare a termine gli accordi nucleari con l’Iran. Il bilancio però, purtroppo per tutti, resta estremamente negativo, non risulta difficile affermare che con sette guerre e centinaia di migliaia di morti all’ attivo, sarà sicuramente difficile per il suo successore fare di peggio.

venerdì 23 settembre 2016

Assassini della democrazia

Nonostante l’America fosse sotto attacco, per giunta durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è stata negata fino all’ultimo la matrice terroristica per non alimentare sentimenti favorevoli a Trump. Tocqueville, se ci sei batti un colpo.
di Guido Dell'Omo - 22 settembre 2016
Quello che è successo negli USA qualche giorno fa è degno di attenzione. Non certo però per scrivere inutili righe sulla ‘povera’ New York ferita e attaccata dall’interno della sua bolla di cristallo. Perché – diciamocelo – dopo aver stracciato il cessate il fuoco, raggiunto solo una settimana fa, bombardando i soldati siriani di Bashar al-Assad di istanza a Deir ez-Zor uccidendone più di 100, gli americani non fanno pena a nessuno.
Non che il popolo statunitense sia colpevole della ‘foreign policy’ adottata dai suoi governanti, ma quello che è successo in America è nulla rispetto ciò che accade ogni giorno in Medio Oriente a causa del governo americano. Come accennato, lo scandalo giace nel modo in cui i media hanno raccontato ciò che stava accadendo nei pressi di New York. Per contestualizzare con un breve riepilogo: il 17 settembre alle 20 e 30 locali esplode un ordigno a New York nel quartiere di Chelsea, più precisamente tra la 135 West e la 23esima strada. Parte subito l’allarme, ma i telegiornali parlano dell’opera di violenza di uno ‘squilibrato’. Ora, l’America non è certo nuova a squinternati che sparano all’impazzata dentro una scuola o per strada: ma perché legare all’opera di uno ‘squilibrato’ un ordigno esplosivo costruito con pentole a pressione che ha ferito 39 persone? Lo stampo terroristico era chiaro fin da subito. Nonostante ciò a New York viene deciso di non schierare le forze della polizia in gran numero: in strada i newyorkesi vedono solo qualche poliziotto, niente di più. Non vogliono che si sentano sotto attacco; non vogliono che la loro paura li avvicini a Trump. Poco dopo arriva la notizia del ritrovamento di altri cinque ordigni inesplosi, tra cui uno a Manhattan sulla 27esima strada e i restanti a Elizabeth nel New Jersey, che vengono subito fatti brillare. I media cominciano a parlare di una non ben definita ‘cellula’ che potrebbe essere attiva sul territorio americano.
Ora, sembra alquanto anacronistico non parlare subito di una cellula terroristica. Ma chi volete siano stati, i comunisti? Alla fine viene riportata la notizia di uno scontro a fuoco tra le forze dell’ordine americane e un 28enne afghano naturalizzato americano di nome Ahmad Khan Rahami. Si trovava a Elizabeth, città del New Jersey dove viveva e dove erano stati trovati gli altri ordigni inesplosi. Dopo averlo ferito ad una gamba e ad un braccio e dopo averlo trasportato in ospedale le forze di polizia statunitensi confermano il loro timore: “Tra la bomba di New York e gli esplosivi ritrovati in New Jersey c’è un collegamento. Crediamo che sia l’opera di una cellula terroristica che potrebbe essere attiva sul territorio americano”, recita il comunicato del Dipartimento di Sicurezza degli Stati Uniti. E’ una vergogna che nel Paese al mondo più fiero dei propri valori liberal-liberisti – tanto da far venire la fregola agli americani di ‘esportare la democrazia’ e il loro ‘modello’ in giro per il pianeta – abbiano fatto di tutto per non dare importanza agli attentati di New York e vicinanze.
Tutto per evitare che si alimentassero sentimenti favorevoli a Donald Trump, considerato un sub-umano senza valori. Tutto per favorire Hillary Clinton, vista dai più come ‘il male minore’, e che invece è una Dea della Guerra. E’ questa quindi l’informazione che si devono aspettare i cittadini dei cosiddetti sistemi democratici? Se le elezioni presidenziali non fossero state alle porte, la notizia degli esplosivi avrebbe avuto una eco molto, molto maggiore. Stiamo parlando di ordigni piazzati in due città americane mentre a New York si stavano incontrando tutti i leader mondiali delle Nazioni Unite. Anche in Italia la notizia di esplosivi piazzati in più città americane è stata d’apertura solo per l’edizione dell’ora di pranzo. All’ora di cena i Tg già davano la notizia dopo le solite ammorbanti dichiarazioni del Papa e dopo aver mostrato qualche frame di quell’arrogantello di Renzi intento a godersi i complimenti di Kerry. C’è una differenza però: i media americani si sono dimostrati schiavi del mainstream, i nostri semplicemente incapaci e inadatti al mestiere del giornalismo; non solo non in grado di presentare una visione critica e oggettiva, ma perfino inabili alla semplice cronaca.

giovedì 22 settembre 2016

Censura 2.0

Su Twitter è già stato creato l’hashtag #LeggeAmmazzaWeb, ma notizie su questa norma si possono trovare anche sul più generico #LeggeBavaglio, perché mettere un tappo alla libera espressione sul web è proprio quello che mira a fare. Si tratta della proposta di legge C3139, già approvata dal Senato e votata alla Camera il 12 settembre. Oggetto: disciplinare il tema controverso e scivoloso del cyberbullismo. In un periodo in cui la Neolingua governativa ha sostituito la ricchezza linguistica italiana con l’essenzialità di quella anglosassone – per cui usando l’esotico “JobAct” si può far riferimento a temi cruciali per il Paese, distraendo con l’esoticità del termine dalle drammaticità della situazione lavorativa italiana – cerchiamo di chiarire cos’è il cyberbullismo. Dalle fonti più accreditate si apprende che il termine cyberbullying, creato da un educatore canadese, si intendono quegli atti aggressivi, prevaricante o molesto compiuto tramite strumenti telematici che hanno come vittima un minore.
L’uso indiscriminato e incosciente della rete e in particolare dei social network, ha portato a un proliferare di questi casi, di cui, proprio grazie al clamore mediatico, siamo sempre più a conoscenza. Era un po’ che se ne parlava, e il dramma della trentunenne Tiziana Cantone, suicidatasi perché non più capace di reggere l’onta mediatica, ha sconvolto tutti. Del suoi video se n’era parlato tantissimo e non solo sui social network: le principali testate giornalistiche avevano dedicato all’argomento articoli piccanti, in grado di appassionare il lettore e catturarne l’attenzione. Di quelle notizie che potrebbero benissimo rimanere circoscritte al luogo e ai personaggi più o meno direttamente coinvolti, ma non si sa perché assurgono a rango nazionale. Potremmo disquisire appassionatamente per ore sul ruolo della comunicazione attuale, la crisi del mondo giornalistico e la bassa qualità dell’informazione, soprattutto in un momento in cui la vendita dei giornali “tradizionali”, intesi sia in formato cartaceo che multimediale, sono in grande crisi, mentre blog e testate indipendenti stanno prendendo il sopravvento. Ma torniamo a quella che dovrebbe essere approvata come legge sul cyberbullismo.
Si tratta di una proposta avviata già da tempo e che, proprio a fine luglio, mentre tutti pensavamo alle vacanze o eravamo scossi da qualche tremendo attentato, ha riportato delle modifiche al testo originario davvero draconiane. Quella più clamorosa e sostanziale è che nella casistica di cyberbullismo non deve più rientrare necessariamente un minore. Chiunque può esserne vittima. E questo basta per capire lo snaturamento e la sopravvenuta inappropriatezza della normativa. Inoltre, la definizione di cyberbullismo è stata ampliata e rientrerà nella fattispecie “l’aggressione o la molestia reiterate, a danno di una o più vittime, anche al fine di provocare in esse sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione ,ecc.”, sia essa attuata attraverso “atti o comportamenti vessatori, pressioni e violenze fisiche o psicologiche (…) offese o derisioni, anche aventi per oggetto la razza, la lingua, la religione, l’orientamento sessuale, l’opinione politica, l’aspetto fisico o le condizioni personali e sociali della vittima.” La pena, per chi si macchierà di questo crimine, sarà durissima: oltre al sequestro del computer e degli altri dispositivi mobili, il testo prevede la pena della reclusione da uno a sei anni, anche per chi usa “la sostituzione della propria all’altrui persona”. Quindi niente escomatoge, profili che ricorrono a pseudonimi e personaggi storici o fantasiosi: meglio piegarsi all’ortodossia e al pensiero dominante se non si vuole rischiare di incappare nella stanza 101, quel luogo terribile di annientamento e perdizione in cui finì il protagonista orwelliano che osò mettere in dubbio la Verità.

mercoledì 21 settembre 2016

Tappa per tappa: come gli Stati Uniti hanno creato l'Isis

La creazione dell'Isis è avvenuta in tre fasi: distruzione dei regimi seccolari di Iraq e Siria, appoggio ai fondamentalisti sunniti contro Assad. Lo dichiara lo storico Robert Freeman.
"La cosa più importante da capire sullo Stato Islamico è che è stato creato dagli Stati Uniti". Lo dichiarava nel 2014 lo storico Robert Freeman in un'intervista a Common Dreams molto utile da rileggere oggi alla luce del bombardamento 'accidentale' contro l'esercito siriano di venerdì scorso che ha fatto decine di morti e feriti, facilitando l'avanzata dell'Isis.
Secondo Freeman, la creazione dell'Isis da parte degli Stati Uniti ha attraversato tre fasi principali:
La prima fase della creazione del gruppo Stato islamico si è verificato durante la guerra in Iraq e il rovesciamento del governo laico di Saddam Hussein. Secondo l'autore, il regime di Hussein era "corrotto, ma stabilizzante" - durante il suo governo non c'era Al Qaeda, da cui ha avuto origine l'Isis. Inoltre, gli USA, prosegue lo storico, hanno lasciato il potere in Iraq ad un governo sciita, quando metà della popolazione del paese è sunnita, alimentando l'odio di quest'ultima. Il fatto che l'esercito iracheno e i curdi furono sconfitti dallo Stato Islamico è dipeso dal fatto che i sunniti preferirono schierarsi con i jihadisti piuttosto che con i loro "avversari religiosi" sciiti, prosegue lo storico.
La seconda tappa della creazione dell'Isis da parte degli Stati Uniti, prosegue Freeman, è stata la campagna contro il governo laico di Bashar al Assad in Siria. Il presidente siriano aveva una forza interna dovuta alla "pace relativa" che aveva garantito per molti anni tra le varie sette religiose all'interno del paese. Nei loro tentativi di destabilizzare il governo della Siria, gli Stati Uniti d'America hanno aiutato i "precursori" dello Stato islamico nel paese, tra cui, secondo l&#
39;autore, il Fronte Al-Nusra (Al-Qaeda in Siria).
La terza fase della formazione dello Stato Islamico da parte degli Stati Uniti ha avuto luogo quando "la Casa Bianca ha organizzato insieme all'Arabia Saudita e alla Turchia il finanziamento e il sostegno dei ribelli in Siria", che, secondo Freeman, erano già uno "stato proto-islamico". L'Arabia Saudita è un paese che professa il wahhabismo, una delle versioni più "dure e aggressivamente anti-occidentale" dell'Islam. Questo spiega perché 15 dei 19 terroristi che hanno dirottato gli aerei del 11 settembre 2001 erano sauditi, e il leader di al Qaeda Osama bin Laden era dello stesso paese, principale alleato degli Stati Uniti.
Dopo aver creato lo Stato Islamico, gli Stati Uniti d'America mostrano fragilità quando dichiarano di combatterlo, a causa dell'assenza di una "strategia coerente". In questo senso, i "ribelli moderati", quelli che gli Stati Uniti hanno addestrato in Siria contro Assad ora si rifiutano di combattere contro lo Stato islamico, che, secondo l'autore, non è sorprendente, dal momento che questi ribelli condividono con i jihadisti la stessa visione di mondo. "Le forze più capaci per sconfiggere lo Stato islamico" nel breve periodo, conclude, sono la Russia, Siria e Iran, ma gli Stati Uniti preferiscono che la situazione peggiori più che per i terroristi per i "nemici degli Stati Uniti". E quando la situazione peggiora per i terroristi e migliora per i "nemici" degli Stati Uniti, quest'ultimi intervengono e bombardamento direttamente l'esercito siriano per facilitare l'Isis.

martedì 20 settembre 2016

Ambasciatori americani, agenzie di rating e referendum italiani: la nuova normalità

Le dichiarazioni dell’ambasciatore americano, John Phillips, sull’importanza del “Si” al referendum italiano rappresentano la norma di questi tempi. Si tratta di tempi che qualcuno, di riflesso, ha subito confuso con gli anni ’70, quando la Cia lavorava sia per preparare il golpe di Pinochet che per far cadere il prezzo del rame e impoverire la principale risorsa dell’allora governo Allende. Confusione che, tra l’altro, è stata indotta dalla contemporanea dichiarazione del responsabile Fitch, agenzia di rating, per la valutazione dei titoli sovrani in Europa e Medio Oriente Richard Parker.
Nel ventunesimo secolo, bisogna ricordarlo, le agenzie di rating manifestano la loro indipendenza dal governo americano. Basterebbe ricordare che nell’estate di cinque anni fa hanno declassato i bond federali. Questo per chiarire in un secondo la differenza tra sovrapposizione di interessi tra governo e agenzie di rating: Standard & Poors ad esempio ha minacciato di declassare il debito turco, la cosa faceva comodo all’amministrazione Obama (che ha frizioni serie con la Turchia) ma le altre due principali agenzie di rating non ci hanno, per adesso, nemmeno pensato. Questo per dire: la finanza Usa, o almeno quella con marchio stelle e strisce, è autonoma dal governo federale. A volte gli interessi tra le due dimensioni si sovrappongono a volte no. In questo caso, l’Italia, c’è convergenza di interessi. A sostenere un governo che buona parte dell’establishment attuale Usa ritiene amico (quello Renzi) e a creare un pò di volatilità sul mercato da parte di Fitch (la quale si sarà sicuramente confrontata con qualche grosso cliente).
Sulla dichiarazione di Fitch niente di eclatante, infatti non è certo crollata la borsa, perché non si tratta di un abbassamento del rating. In quest’ultimo caso si sarebbe trattato, invece, di un problema immediato perchè il declassamento del rating viene, una volta avvenuto, istantaneamente aggiornato nei software di trading. Quelli che movimentano dal 50 al 70 per cento del mercato a seconda dei mercati e a seconda delle stime. Allora, tra aumento dello spread tra bond tedeschi e italiani e ennesimo crollo dei titoli bancari, un po’ di morti sul campo li avremo visti. La dichiarazione di Ficth rappresenta solo, piuttosto, una cannonata per saggiare il terreno, le reazioni degli operatori di borsa, dei fondi di investimento e dei governi. Per capire se col referendum italiano è possibile movimentare un pò di volatilità, attorno all’Italia che è nella top five dei mercati globali del debito pubblico, in modo da rastrellare profitti con le solite transazioni a breve (in questo caso un rapido movimento di vendite e di acquisti che si gioca attorno a fatti eclatanti). Questo lavoro è più affare delle agenzie di rating che dei governi, che hanno funzione di supporto anche se, volendo, le agenzie Usa avrebbero abbastanza risorse per mettere in difficoltà la borsa italiana.
Ma il primato, della forza e della pressione politica, in questo campo è delle corporation finanziarie ed è sempre quello il potere in ultima istanza su questo terreno. Questa è la nuova normalità e da tempo: qualsiasi cosa accada su questo terreno si deciderà quindi a Wall Street non a Washington DC. Non siamo più negli anni ’70. Basta vedere la crescita, in termini numerici e di peso politico, delle agenze di rating da allora ad oggi per capirlo. Con l’Italia si prova quindi a fare lo stesso gioco messo in campo durante il referendum scozzese e quello inglese: mettere in campo una sovrapposizione di interessi tra politica e finanza per indirizzare il voto, spaventando gli elettori, e creare quella volatilità finanziaria necessaria per fare, sull’onda della paura, un po’ di soldi (alla Lewis Ranieri ne La grande scommessa: “facciamo un po’ di soldi”).
La cosa funziona in questo modo: in un referendum importante si crea incertezza (sul risultato) e paura (se il vincitore è di quelli che spaventano il media mainstream). Si rompe la monotonia di borsa, titoli vacillano, alcuni salgono altri scendono e, dopo la fine del referendum, vince chi ha saputo giocare sulle oscillazioni dei mercati. Questo gioco, o questa festa a seconda dei punti di vista, si rende tanto più necessario nel new normal del mondo dei tassi zero, in cui i rendimenti dei bond sono bassi e prestare il denaro è qualcosa di simile al non sense. La paura, la volatilità possono generare, a breve, interessi più alti o possibilità di acquisto di titoli a prezzo di favore. Oppure si può speculare alla grande su titoli scommessa (i future), le assicurazioni sul rischio (gli swap) e davvero miriadi di altri prodotti finanziari degni di una fantasia letteraria. Infatti, e qui è meglio essere chiari, il vero affare qui non è il voto, o il risultato del voto, ma la possibilità di guadagnare dall’instabilità di borsa. Il resto è fantasia di complotto. Alle borse non interessa tanto il risultato di un referendum ma saper capire la volatilità dei mercati per estrarre valore.
Allo stesso tempo, siamo in una situazione diversa dalla guerra finanziaria, giocatasi sul rublo, tra Usa e Russia all’indomani della fase più dura della guerra ucraina. Quando l’interesse geopolitico ha creato l’occasione per una grossa speculazione sulla moneta russa che generò un saliscendi del rublo (discesa favorita dagli Usa, salita favorita dalla banca centrale russa) che fece la gioia sia di ribassisti che di rialzisti. Siamo alla piccola bolla speculativa, fatta per adesso di dichiarazioni orientate e gonfiate, di un paese che si sa, storicamente, incline all’obbedienza in ultima istanza. Certo, se nelle settimane prima del referendum la borsa, i bond e i titoli bancari scenderanno drammaticamente l’Italia avrà saggiato, per la seconda volta dopo 5 anni (la crisi del debito sovrano), come funzionano i mercati tanto celebrati da Repubblica e il Corriere. Nel frattempo ascoltatiamo quanche cannonata, in forma di dichiarazioni della ambasciata americana e di Fitch, eco di un mondo reale che in questo paese stenta a trovare ascolto e, meno che mai, cittadinanza.

lunedì 19 settembre 2016

Dal ‘45, Usa e Occidente hanno ucciso 55 milioni di persone

Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».
La prima Guerra del Golfo ebbe inizio grazie ad un inganno: Saddam venne portato a credere che l’occupazione del Kuwait, che era stato un protettorato inglese ma che era rivendicato dall’Iraq fin dal 1961 come appartenente al suo territorio, sarebbe Iraqavvenuta senza l’interessamento degli Usa. «Fu una trappola tesa da April Gaspie, ambasciatrice Usa a Baghdad dell’epoca, che fece intendere che gli Usa non avrebbero interferito». Poi, l’11 settembre 2001, «l’abbattimento delle Torri Gemelle fornì il pretesto per terminare il lavoro». Dei 19 presunti attentatori nessuno era iracheno e nessuno era afghano: ben 15 di loro erano sauditi. Ma ad essere colpita non fu l’Arabia Saudita, bensì l’Afghanistan. «La sfortuna degli afghani – dice Ferrara – fu che in quel territorio doveva transitare un oleodotto, che i Talebani non volevano». Una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale, cioè le province di Herat e Kandahar.
Il progetto venne avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad, in cooperazione con il regime talebano. Nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar. E l’anno dopo, esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa. Ma il piano viene poi accantonato per le difficoltà politiche imputabili ai Talebani. «La seconda sfortuna era che gli anni ’70 avevano visto il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan. Era il cosiddetto triangolo d’oro», formato da Laos, Birmania e Cambogia. Triangolo «controllato dalla Cia, che in questo modo finanziava le operazioni anticomuniste nel sud-est dell’Asia». I Talebani negli anni ’90 «continuarono il business della droga con la Cia, ma nel 2000 il Mullah Omar lo mise al bando, allo scopo di guadagnarsi un consenso internazionale». L’anno dopo, la produzione di oppio crollò a valori prossimi allo zero. Il Mullah Omar«Grazie alla conquista dell’Afghanistan, la produzione di eroina afghana (che gli Usa si rifiutarono di combattere, sostenendo che non era compito loro) tornò presto a soddisfare il 93% del fabbisogno mondiale».
Gli Stati Uniti non combattono mai una guerra inseguendo un solo obiettivo, continua Ferrara: secondo l’Unicef, i 10 anni di embargo all’Iraq hanno causato la morte di un milione e mezzo di persone, tra cui cinquecentomila bambini. Il segretario di Stato Usa Madeleine Albright, quando le fu chiesto di commentare la morte di questi 500 mila bambini, rispose che la scelta era stata difficile, ma che ne era valsa la pena. «La balla sesquipedale delle armi di distruzione di massa, che sarebbero state in mano a Saddam, fu la scusa per impadronirsi definitivamente dell’Iraq, nel quadro della strategia economico-commerciale “Pivot to Asia”, che mirava a Madeleine Albrightcinturare la Cina per impedirle un’espansione a ovest». Ma le uniche armi di distruzione di massa in mano a Saddam «erano quelle che proprio gli Stati Uniti gli avevano venduto, perché fossero usate per lo sterminio dei curdi».
Un genocidio, quello del Kurdistan iracheno, al quale abbiamo contribuito anche noi italiani, con la vendita a Saddam di ben 9 milioni di mine antiuomo: «Del resto ancora adesso Matteo Renzi ritiene doveroso fare affari con chi finanzia l’Isis». Ma anche supponendo che l’Iraq avesse posseduto quelle armi, aggiunge Ferrara, i 7.000 ordigni nucleari di cui gli Stati Uniti d’America sono dotati non sono forse “armi di distruzione di massa”? Bisognerebbe chiederlo all’allora vice di Bush, Dick Cheney, che «per pura coincidenza era anche a capo della grande azienda petrolifera Halliburton, che si avvantaggiò successivamente dell’occupazione dei pozzi petroliferi iracheni». Ma, chiusa la partita con l’Iraq, il processo di colonizzazione prevedeva l’invasione della Siria. «Senza dimostrare molta fantasia, gli Stati Uniti cercarono di convincere il mondo che Assad usava armi chimiche contro i suoi cittadini». Solo la ferma opposizione di Putin riuscì a bloccare Obama, che nel 2013 era a un passo dall’attacco.
Serviva allora un’altra strategia: così si inventarono la guerra per procura. «Bisognava finanziare i gruppi che si opponevano ad Assad: Al Nusra e l’Isis. Così, arrivarono piogge di dollari statunitensi sugli jihadisti, come rivelarono in tanti, tra cui ex dipendenti della Cia, ex ufficiali». Michael Flynn: «Sostenere Isis fu una nostra decisione deliberata». Tra le ammissioni persino quelle di un senatore, Rand Paul, e di una deputata, Tulsi Gabbard. Per non parlare del vicepresidente Joe Biden, che nell’ottobre del 2014 rivelò che sugli jihadisti impegnati in Siria erano arrivate piogge di dollari statunitensi. «La vera ragione per cui Assad è stato attaccato – afferma Ferrara – è che nel 2009 si era rifiutato di far transitare sul proprio territorio un gasdotto, proposto dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che doveva passare per la Turchia e avere come destinazione l’Europa, Tiziano Terzaniper togliere alla Russia di Putin il monopolio». Non solo: «Assad si era accordato con l’Iraq per accogliere un gasdotto alternativo, ed era dalla parte dei palestinesi contro le aggressioni dello Stato di Israele».
Poco prima, il “trattamento” era toccato alla Libia, che possiede le riserve di petrolio africane più importanti: 48.000 miliardi di barili, più 1.500 miliardi di metri cubi di gas. «Ma in realtà Gheddafi fu fatto fuori anche per un’altra ragione: proprio come Saddam, aveva deciso di non vendere più il petrolio in dollari, bensì attraverso un’altra moneta sovrana che stava creando: il dinaro libico». Dalla Libia alla Siria, fino all’attuale terrorismo internazionale: i recenti attentati in Francia, Belgio e Germania «hanno delle analogie con quello che accadde in Italia negli anni ’90, dopo la rottura del patto Stato-mafia, quando Roma e Milano furono duramente colpite dalle ritorsioni di Cosa Nostra». Dietro ai kamikaze ci sono «veri professionisti del terrore, che da sempre hanno usato mercenari, criminali, fondamentalisti e perfino squilibrati per seminare la paura e instaurare, sotto la copertura di una finta democrazia, una dittatura economico-militare». I jihadisti, poi, svolgono anche un altro ruolo importante: «Sono un eccellente concime per far germogliare il seme della paura in Occidente: più abbiamo paura, più cerchiamo protezione». Con buona pace del grande Tiziano Terzani, secondo cui «il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali».

venerdì 16 settembre 2016

WhatsApp e gogna mediatica: ma i “termini di utilizzo” rispettano la legge?

Prima che il tragico suicidio della donna 31enne avvenuto il 13 settembre (a seguito della diffusione di video, fotografie, articoli e altri contenuti che la riguardavano) venga inghiottito dall’ipocrisia, potrebbe essere utile costringere la piattaforma “WhatsApp”, la prima sulla quale ha iniziato a circolare il materiale filmato, ad adeguare i propri “Termini di servizio”. Non tanto al buon gusto, buon senso o costume, quanto alla legge, chiarendo finalmente la responsabilità -in ogni sede- di chi contribuisce a veicolare contenuti illeciti.
Confrontando infatti il testo aggiornato dei “Termini” -l’ultima modifica risale al 25 agosto 2016- con la (datata) legge che nel nostro Paese disciplina e regola le responsabilità dei “prestatori di servizi della società dell’informazione” -il decreto legislativo sul commercio elettronico è del 2003- parrebbero emergere “distanze” quanto meno problematiche.
Agli utenti che hanno distrattamente accettato il suo lungo elenco di punti, WhatsApp -acquistato da Facebook per 19 miliardi di dollari nel febbraio 2014- indica due clausole: “Esclusioni di responsabilità” e “Limitazioni di responsabilità”. Entrambe in maiuscolo, entrambe da leggere con cura.
“L’utente -si legge in un passaggio della prima parte- esenta noi, le nostre società controllate e affiliate e i nostri e i loro dirigenti, amministratori, dipendenti, partner e agenti […] da ogni domanda, ricorso, azione legale, controversia o contenzioso […] e danni, noti e non noti, relativi a, derivanti da o collegati in qualsiasi modo a rivendicazioni che l’utente possa avere contro terzi”.
Per WhatsApp, i danni possono essere “noti e non noti”. E in un altro passaggio aggiunge: “Le parti di Whatsapp non saranno responsabili nei confronti dell’utente per lucro cessante o danni consequenziali, speciali, punitivi, indiretti o accidentali relativi a, derivanti da o legati ai nostri termini, a noi o ai nostri servizi, anche nel caso in cui le parti di Whatsapp fossero state avvisate dell’eventualità del verificarsi di tali danni”.
Dunque, il mantello dell’irresponsabilità s’allunga anche nel caso in cui l’eventualità del danno fosse nota. Ma questa clausola sembrerebbe in netto contrasto con la legge laddove si occupa di attività di “memorizzazione di informazioni”.
In Italia, il “prestatore” non è mai responsabile. Eccetto in due casi. Il primo è quando non sia stato a conoscenza che l’informazione “fornita da un destinatario del servizio” fosse “illecita” e, “per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione”. Il secondo è quando messo al corrente dalle “autorità competenti” non abbia agito “immediatamente” per “rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”.
Eppure, WhatsApp -che ai suoi “utenti-clienti” tiene particolarmente, come dimostra il fatto che abbia recentemente aggiunto nell’“Informativa sulla privacy” la possibilità di “offrire” il marketing anche “per i servizi del gruppo di società di Facebook”- pretende per sé una manleva più larga, anche in casi di “danni” di cui era stato messo a conoscenza.
Prevarrà la normativa nazionale (e comunitaria, come la Direttiva 2000/31/CE) o i “Termini” di una società domiciliata in California?

giovedì 15 settembre 2016

Germania. Quasi 2 milioni di bambini vivono in povertà

Nonostante la crescita costante dell'economia e i bassi dati sulla disoccupazione registrati, la povertà infantile è in aumento in Germania. Uno studio della fondazione Bertelsmann, "Conseguenze della povertà per i bambini e i giovani ", ha rilevato che, tra il 2011 ed il 2015, la Germania ha assistito a un incremento della povertà infantile.
I dati mostrano che 1,9 milioni di minori stanno crescendo in povertà in Germania nel 2015, con un incremento di 52.000 rispetto all'anno precedente. Il tasso di povertà nelle Regioni dell’Ovest è passato dal 12,4 nel gennaio 2011 al 13,2 per cento del 2015. Al contrario, in quelle orientali è calato di 2,4 punti percentuali, al 21, 6 per cento, pur rimanendo molto superiore a quella occidentale.

mercoledì 14 settembre 2016

Appello alla sovranità monetaria

Una recente pubblicazione sul Financial Times, ad opera dell’economista e saggista Stiglitz, ha destato i peggiori malumori fra i più convinti sostenitori della moneta unica, alimentando un pre-esistente cambiamento nelle convinzioni delle parti politiche europee. Ad essere maggiormente colpita è proprio l’ala della sinistra progressista e social-democratica (cui lo stesso Stiglitz è vicino), la quale ha rinnegato i suoi contenuti più tipici come il solidarismo marxista e anti-liberista, in favore di una visione ultraliberale di stampo statunitense. Ciò è evidente dalla strenua difesa che non pochi esponenti del Partito Socialista Europeo e alcune aree della Sinistra Europea portano avanti, per l’ingenua associazione fra il concetto di solidarietà tra i popoli del continente e la presunta implicazione di un’unità economica e monetaria fra essi. E’ in questo atto d’implicazione che consiste il peggiore errore teorico dei movimenti politici d’ispirazione pseudo-popolare. Tuttavia, sarebbe sufficiente aprire gli occhi e realizzare che l’eurozona non è sinonimo di un cosmopolitismo culturale, né di “apertura al diverso”.
Esisteva già un’unione e una cooperazione politico-sociale all’insegna della solidarietà fra le nazioni, con l’esistenza dell’ormai estinta CEE. L’unica “overture” che in questo processo di aggregazione si viene ad attuare è quella dei confini della sovranità statale allo strapotere finanziario di banche e multinazionali. Il più grande inganno che l’UE tende ai suoi fiduciosi sostenitori, in molti ambienti di sinistra, è il falso sostegno all’idea di un’Europa democratica e multirazziale, quando, nei fatti, la componente democratica è smentita dall’autoritarismo decisionale della Troika (si guardi al fallimento dell’esperimento Tsipras e alla schiavizzazione debitoria della Grecia), e quella multietnica svilita dall’atteggiamento di ostilità dei Paesi europei verso il fenomeno migratorio, con tentativi di auto deresponsabilizzazione a riguardo, soprattutto in seguito al verificarsi di episodi terroristici.
La soluzione ai problemi sociali ed economici non deriva, ovviamente, nemmeno dalle chiusure xenofobe o nazionaliste di alcune frange di destra, le quali contribuirebbero ad alimentare un clima di ostilità e diffidenza reciproca. Stiglitz, a questo punto, propugna due soluzioni: 1)l’uscita dall’euro o 2)la creazione di due aree monetarie, una “forte” legata all’asse dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale, e una “debole”, relativa all’area meridionale/mediterranea del continente. Il problema cocente, inerente alla seconda strategia, riguarderebbe la ridefinizione del debito di ogni singolo Paese, che dovrebbe essere rinominato e conteggiato, in relazione alle nuove prescrizioni economiche di un ipotetico euro del Sud. L’altra questione, forse ancora più spinosa, concernerebbe la tanto osannata quanto criticata sovranità monetaria. Essa, un tempo garante dell’autorevolezza di uno stato in merito alle sue peculiari politiche economiche, è concentrata, oggi, nelle mani della Banca Centrale Europea. Il pretesto, (sostenuto dai teorici della globalizzazione), consiste nell’accentramento istituzionale degli interventi decisionali sulle economie dei singoli Paesi, per una necessaria quanto maggiore competizione con i mercati dell’area asiatico-atlantica. Permettere a un governo nazionale di stampare la propria moneta equivarrebbe alla concessione di un’ “eccessiva” libertà di azione e riforma, ma soprattutto, a livello giuridico, l’accettazione coatta e il rispetto, da parte di organismi anche sovranazionali quali corporation, et similia, di determinate scelte o ricette politiche ed economiche. Da qui, le pressioni finanziarie e la firma di trattati quali Maastricht (1992), con il progressivo esautoramento di ogni competenza decisionale del singolo stato e la delega dei poteri a organismi di natura finanziaria.
Prova inconfutabile del progetto di cessione di sovranità alle dittature del privato è l’acceso dibattito sull’attuazione del Ttip, la cui approvazione avrebbe di fatto legato le mani agli stati, verso i quali le più grandi compagnie commerciali internazionali avrebbero esercitato azioni coercitive di importazione dei propri prodotti, pena il pagamento di un’indennità di cifre spropositate e inestinguibili. Per il momento, le trattative sul Trattato Transatlantico sono state fortunatamente respinte dagli stati , ma la minaccia di un ripensamento è sempre presente.
Di fronte, dunque, alle alternative proposte da Stiglitz, senz’altro si potrebbe auspicare l’abolizione della moneta unica, con una progressiva e meno traumatica strategia di uscita dall’eurozona, il che non implicherebbe il fallimento del progetto di un’Europa libera dal giogo degli apparati finanziari, quanto dalle ingerenze dell’establishment economico atlantista. Se il miraggio della sovranità monetaria potesse trasformarsi in realtà, esso si rivelerebbe un efficace schiaffo morale a quanti, ingenuamente, ritengono sia possibile ristrutturare un “edificio” che al suo interno presenta delle crepe strutturali.

martedì 13 settembre 2016

Quanto ci costa il flop Act

Da quando il governo ha chiuso il rubinetto degli incentivi concessi alle imprese sotto forma di sgravi fiscali per aumentare le assunzioni a tempo indeterminato, il trend positivo pomposamente celebrato lo scorso anno ha imboccato la strada in discesa: nel secondo semestre del 2016 i licenziamenti sono aumentati del 7,5% mentre i contratti stabili sono diminuiti dell'8,7%.
di Nico Spuntoni - 12 settembre 2016
Solamente pochi mesi fa, quando le profezie più nere sul successo del Jobs Act sembravano destinate ad avverarsi, Renzi era sceso in campo in difesa di quello che doveva essere il fiore all’occhiello del suo governo. Secondo il premier, la riforma avrebbe prodotto “più posti di lavori e posti di lavoro più solidi” e chi ne parla come di un “fallimento”, avrebbe dovuto “fare i conti con la realtà”. A spazzare via l’ottimismo della narratologia renziana costringendo, come da lui stesso auspicato, a fare i conti con la realtà, ci hanno pensato i dati forniti dal Sistema Informatico per le Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del lavoro. Una fonte, dunque, difficilmente catalogabile nella schiera dei gufi antigovernativi.
Da quando il governo ha chiuso il rubinetto degli incentivi concessi alle imprese sotto forma di sgravi fiscali per aumentare le assunzioni a tempo indeterminato, il trend positivo pomposamente celebrato lo scorso anno ha imboccato la strada in discesa: nel secondo semestre del 2016 i licenziamenti sono aumentati del 7,5% mentre i contratti stabili sono diminuiti dell’8,7%. Alla luce di ciò, appare evidente che il +11 % fatto registrare nel 2015 dal numero di assunzioni stabili e che il governo aveva velocemente sbandierato come la prova del successo del Jobs Act, fosse in realtà un dato gonfiato dall’anabolizzante rappresentato dai contributi statali. Senza dimenticare che alla sorgente degli sgravi fiscali si era abbeverato anche un numeroso manipolo di furbetti: i tanti datori di lavoro, come denunciato dai sindacati, che hanno licenziato per poi riassumere con il nuovo contratto a tutele crescenti e mettere le mani sul generoso bonus previsto dalla Legge di Stabilità. Ancora una volta, quindi, i dati reali smentiscono le promesse della macchina propagandistica governativa che, per indorare la pillola sul depotenziamento dell’articolo 18 e il decadimento dell’obbligo di reintegro per motivi economici, aveva sostenuto con forza che la riforma avrebbe reso più facili le assunzioni.
I lavoratori, al contrario delle rassicurazioni renziane, si ritrovano ad assistere impotenti all’ultimo colpo di piccone al patrimonio pluridecennale di conquiste dello stato sociale sferrato in cambio di contratti più precari e di un vacuo aumento occupazionale drogato dall’incentivo pubblico e senza alcuna possibilità di consolidamento. Il Jobs Act, peraltro, non è affatto indolore per le casse già disastrate dello Stato: in un’analisi pubblicata su “Etica ed economia”, Marta Fana e Michele Raitano quantificano tra i 14 e i 22,6 miliardi di euro il costo che potrebbe avere la riforma sul bilancio pubblico per il solo triennio 2014-2017. Una cifra monstre e che, qualora venissero confermati anche per l’anno prossimo i dati del Sistema Informatico per le Comunicazioni Obbligatorie, risulterebbe totalmente inutile perchè servirebbe solamente a nascondere il fallimento strutturale della riforma e a creare una gigantesca bolla occupazionale.

lunedì 12 settembre 2016

Il capo economista di Deutsche Bank: "La Bce rappresenta ormai una minaccia per la zona euro"

Nonostante i tassi di interesse negativi e i 1000 miliardi di euro di Quantitative Easing, il noto analista finanziario Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph scrive come la Bce ha di fatto esaurito le sue "munizioni" secondo i vincoli giuridici del suo mandato per contrastare una crisi dell'euro-zona sempre più in una trappola deflazionistica.
Dalla traduzione di Voci dall'estero:
Il capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, ha detto che la BCE ha travalicato il limite dei rendimenti decrescenti, e che essa stessa rappresenta ormai una minaccia per l’eurozona. “I banchieri centrali possono perdersi per strada. Quando questo succede, i loro errori possono rivelarsi catastrofici. Dopo 7 anni di politica monetaria sempre più accomodante, ci sono ormai sempre più evidenze che continuare a seguire i dogmi attuali mette a rischio la stabilità dell’eurozona a lungo termine”, ha dichiarato.
La rete della BCE sta esaurendo gli asset da acquistare, dal momento che può comprare solo in proporzione alla taglia di ciascuna economia, dovendo evitare l’accusa di “salvataggio” degli stati insolventi.
L’eurozona sembra ormai priva di una politica attiva. Sta semplicemente guadagnando tempo, ormai in balia di forze esterne. Il pericolo è che le prossime difficoltà a livello globale possano colpire prima che l’area valutaria sia riuscita ad uscire dall’attuale affanno e prima che abbia potuto ricostituire qualche difesa contro uno shock deflazionistico. Il signor Draghi non sarà più in grado di salvarla di nuovo.

Si tratta, conclude Pritchard, di una situazione che suggerisce come l’eurozona sia estremamente vulnerabile a qualsiasi shock esterno. La percentuale per l'Italia è del 67% ed è decisamente superiore rispetto a quando la BCE lanciò il programma di QE lo scorso anno. Si può solo pensare ad un Piano B che preveda la liberazione dei popoli dalla dittatura monetaria in corso.

venerdì 9 settembre 2016

Renzi, Padoan e "l'ultima mostruosità

L'APE DI RENZI E PADOAN È UN'ALTRA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI, FATTA DA UN GOVERNO CHE NON A CASO SI È SCRITTO UNA COSTITUZIONE TUTTA SUA. Qui per approfondire su "Anticipo pensionistico"
ARTICOLO 38 COSTITUZIONE:
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera.
IMPORRE a chi cerca di andare in pensione un pò prima dei quasi 70 anni voluti dalla legge Fornero. Imporre a chi non ce la fa più per ragioni psicofisiche e per la durezza del lavoro.
Imporre a chi viene cacciato dalle aziende per ristrutturazione e non ha reddito perchè il governo Renzi ha cancellato la mobilità. Imporre a tutti questi lavoratori in gravi difficoltà di indebitarsi con un mutuo ventennale per poter andare in pensione, con una rendita penalizzata, è una mostuosità.
Una mostruosità che solo menti malate dall&#
39;esaltazione del liberismo potevano concepire.
Invece che prendere atto che la legge Fornero ha imposto una età pensionabile folle ed insostenibile per le persone e per la stessa economia reale. Invece che prendere atto che ovviamente i giovani disoccupati aumentano se gli anziani vengono trattenuti al lavoro oltre ogni buon senso. Invece che prendere atto della realtà e cambiare la legge, Renzi e Padoan sottopongono i lavoratori e le lavoratrici con maggiore anzianità all'usura bancaria.
Così fanno contenta la UE che vuole che la pensione sia quel breve periodo che separa dalla conclusione della vita. Fanno contente le grandi aziende che licenziaranno gli anziani che costano troppo. E fanno contente le banche, le assicurazioni e i fondi pensionistici privati che troveranno nuovi motivi per fare affari.
Naturalmente saranno un pò meno contenti quei lavoratori che si indebiteranno per avere ciò che pochi anni fa sarebbe loro spettato di diritto. Ma questo è lo spirito sociale e costituzionale del governo Renzi e dei suoi sponsor confindustriali, finanziari, della Unione Europea. Stanno trasformando i diritti della Costituzione in crediti e debiti bancari.
Anche per questo, quando Renzi concorderà con banche e UE la data più opportuna per il voto referendario, è necessaria la vittoria del NO. Affinché la cancellazione della controriforma costituzionale apra la strada alla soppressione di tante porcherie incostituzionali come l'APE.

giovedì 8 settembre 2016

I pokemon sconfiggeranno l'Isis

La nostra civiltà, che riteniamo superiore ai predoni del deserto che sono oggi i nuovi mostri da combattere (domani ne inventeranno/costruiranno altri e dopodomani altri ancora; vi ricordate Orwell di 1984 dove in nemici di oggi sono gli amici di domani e così via?), è la civiltà in cui milioni di persone si fanno manipolare da un gioco assurdo e guidare come pecore seguendo i loro cellulari per catturare mostriciattoli virtuali. Scene al di là dell’incredibile dove persone adulte di tutte le razze, non bambini di 4 anni, pilotati dai loro cellulari creano incidenti, vanno a sbattere, si muovono a sciami all’inseguimento di questi animaletti dai nomi improbabili. E noi dovremmo salvare, difendere una civiltà che produce queste persone? Dovremmo capire, fare dei distinguo, non giudicare, accettare tutto ciò come se fosse assolutamente normale? Una civiltà che spende soldi a palate per comprare questi aggeggi elettronici e li cambia ad ogni nuovo modello che esce sul mercato e poi afferma che chi viene qui spinto da guerre e fame affrontando pericoli da gironi danteschi, deve andarsene a casa sua? Casa che nella maggior parte dei casi non ha più.
Una civiltà che è dedita al consumismo più sfrenato e dove le giovani generazioni non hanno solo i Pokemon a fargli compagnia, ma anche videogiochi di una violenza oltre ogni più brutale immaginazione. Poi ci si stupisce se ogni tanto qualche ragazzo entra in aula sparando con il mitra, quando lo fa tutti i giorni per ore virtualmente. Una civiltà che tratta tutti quelli diversi da lei come inferiori e poi grida allo scandalo se qualcuno fa la stessa cosa con noi.
Ma non saranno le bombe a sconfiggere i predoni, bastano i Pokemon, basta un supermercato dell’elettronica, bastano le veline, così come in passato è bastata la televisione a colori per tutti quelli che gridavano nelle piazze di “rivoluzioni e soli dell’avvenire” e poi si sono ritrovati a cantare assieme “Meno male che Silvio c’è” o a urlare “Roma ladrona!” e “Fuori gli immigrati!”. Gente convintissima e arrabbiatissima, che prima glorificava il proletariato e poi è finita a fare il regista per il Maurizio Costanzo Show. Sono paralleli arditi? Guardate che fine ha fatto l’eroico Vietnam, dove gli americani se ne sono andati da invasori dopo aver seminato ovunque devastazione e dove sono ritornati da benefattori commerciali. Qualsiasi civiltà, religione, credo, fede, ideale è spazzato via dal culto del denaro, dal consumismo, dall’edonismo. Date un cellulare, una televisione a tutti e in più o meno breve tempo saranno nelle mani del dio denaro e del mercato.
La Merkel è quella che ha capito meglio la faccenda e difende a spada tratta gli immigrati che si riversano in Germania, sa bene che più persone aderiscono alla religione del soldo e del consumo e più la vittoria sarà certa. C’è più bisogno di eserciti di consumatori piuttosto che di soldati e visto che noi occidentali abbiamo già tutto, urgono nuovi soggetti affamati di acquisti per risollevare PIL nazionali moribondi.
Che i nostri siano nemici costruiti ad arte a tavolino, armati e foraggiati più o meno indirettamente da noi e dai nostri alleati in qualità di nemico perfetto o siano qualsiasi altra cosa, di certo non possiamo insegnare niente a nessuno finchè non saremo in grado di opporre valori e intelligenza a chi usa violenza. Che poi è la stessa violenza con cui la nostra civiltà superiore si è costituita massacrando ogni tipo di popolazione indigena e continua a spargere lutti in tutto il mondo ancora oggi facendo morti di serie Zeta (perché nessuno ne parla) a migliaia. E tutto ciò mentre sciami di persone seguono animaletti strani sui loro schermi, fino al prossimo gioco in cui intrattenersi e intanto la loro vita vola via ben poco virtualmente e molto concretamente. Almeno una volta nelle strade ci si riuniva per testimoniare un ideale, per lottare a difesa dei diritti, ora si inseguono i Pokemon…..

mercoledì 7 settembre 2016

I “cervelloni” contro il fondamentalismo

Russia, Siria e altri Paesi del contesto eurasiatico operano interventi militari e trattative di pace finalizzate ad una strategia risolutiva di respiro mondiale, contemporaneamente trovando nuove modalità di controllo e contenimento dei “virus” terroristici nei rispettivi territori. Di fronte al pericolo di una diffusione capillare del fondamentalismo l’Italia agisce prudentemente, tuttavia senza efficaci azioni mirate che possano sbaragliare la minaccia. Il governo italiano, (com’è lecito che sia per la grande originalità artistica che contraddistingue il proprio Paese), non rafforza l’apparato militare, né aumenta le persecuzioni nei confronti degli obiettivi sospetti come in altri stati, sarebbe troppo scontato. La somma strategia dei cari governanti consisterebbe, invece, nel chiudersi fra le austere stanze del parlamento per studiare a tavolino le cause e la soluzione del problema. In preda all’orgoglio e al narcisismo intellettuale, il presidente Renzi non poteva che introdurre i lavori della commissione, la quale salverà eroicamente i cittadini italiani dalla furia jihadista. Dal momento che la moltitudine di abili sociologi e studiosi di tutta Italia (tra l’altro già arrivati ad un’analisi approfondita e abbastanza omogenea della jihad) non soddisfava la lungimirante leadership dello stivale, si è pensato bene di investire tempo e danaro per una ricerca fondamentalmente inutile.
La commissione sarà indipendente e proseguirà i lavori per un lasso di tempo pari a 120 giorni, ma nella sua composizione non è magicamente prevista la presenza di uno studioso islamico, l’unico elemento che potrebbe apportare un contributo intellettuale significativo. E’ invece presente un “imparziale” docente dell’Università di Padova, Stefano Allievi, legato al Partito Democratico, dunque una personalità incline a pubblicare lavori accademici in linea con l’operato del governo. Fra gli altri nomi, Benedetta Berti, ricercatrice all’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, Carlo Bonini, giornalista de “La Repubblica”, Manuela Caiani, docente alla Scuola Normale Superiore di Firenze, Lucio Caracciolo, direttore di Limes, Massimo Recalcati, psicoanalista, e tanti altri nomi del mondo giornalistico e accademico italiano. Trattasi di un team multi sfaccettato, senza dubbio ricco di professionisti notevoli, le cui energie verrebbero sprecate per un lavoro già portato a termine da chi ha vissuto quotidianamente, o in maniera episodica, il mondo terroristico.
Quanto alle possibili cause, è evidente che l’attuale crisi economica abbia generato un crescente disagio sociale ed emarginazione, in un tessuto collettivo nel quale i valori che caratterizzavano la cultura occidentale hanno perso vitalità, lasciando il cittadino in balia dell’incertezza e di un’aurea nichilista che permea l’atteggiamento comune. La stessa mentalità moderna, la quale osteggia gli identitarismi ideologici e culturali in nome delle idee individuali, ha sì contribuito alla tutela della libertà di pensiero, ma accelerato il processo di de-idealizzazione umana. Di fronte a questo vuoto esistenziale, culturale e valoriale, un’ideologia fortemente identitaria quale lo Stato Islamico, (che non costituisce un movimento religioso), trova consenso tra i più deboli, ma anche fra la gente comune, stanca dell’assenza di sicurezza e punti di riferimento istituzionali.
La conclusione alla quale i sociologi italiani perverranno potrà anche essere “utile”, tecnica e professionale, tuttavia sarà inefficace se prima non verrà effettuata un’indagine speculare della debolezza delle armi culturali che oggi possediamo, dell’inconsistenza etica che impedisce all’uomo europeo di comprendere le proprie contraddizioni, prima di quelle terroristiche. L’Italia di oggi, come l’intero continente, soffre dei sintomi di questa sindrome nichilista: potrà avere al suo seguito uomini in armi e i migliori esperti in psicologia sociale, ma ciò sarà inutile se prima l’uomo non contemplerà sé stesso davanti a un temibile specchio.

martedì 6 settembre 2016

I Miserabili

Ci avevano provato. Come si evince da questo post del 13 agosto scorso, l’Istat era venuta incontro al premier facendo uscire le anticipazioni dei numeri del secondo semestre con una ventina di giorni di anticipo sulla data canonica, nascondendo dietro la distrazione ferragostana le cifre della stagnazione del pil, peraltro deducibili da un’infinità di indizi. Era il massimo che potesse fare visto che una ulteriore manipolazione (oltretutto erano già stati rivisti al ribasso i dati del 2015 per salvare il 2016) avrebbe messo a rischio la reputazione dell’istituto: si sperava che il “colpo” per la narrazione renziana potesse essere smorzato e assorbito durante il picco delle vacanze così da arrivare già masticato alla data ufficiale di uscita dei dati e agli appuntamenti di settembre.
Forse si pensava anche di riuscire nel frattempo a ottenere qualche ulteriore sconto dalla statistica, magari quello 0,1 per cento in più che salvasse le apparenze della crescita, ma il fatto è che alle giornate di Cernobbio la menzogna sulla ripresa, sulla crescita, sulle facoltà magiche del job act è esplosa in faccia a Renzi e al suo ministro Padoan, i quali non hanno trovato di meglio da dire se non che l’Istat raccoglie i dati “in maniera vecchia”. Canta il gallo, raglia l’asino: la nuova maniera sarebbe probabilmente quella di inventarseli o di leggerli sul telefonino. Questo è il ringraziamento per anni di diuturno e infaticabile lavoro tra i numeri per simulare la possibilità di una crescita, per attenuare i segni meno facendoli parere un punto, per adeguarsi alla narrazione governativa e alle necessità dell’Europa. Il fatto è che l’economia italiana è ferma, non ha recuperato il 20% perso con la crisi, è avviata in uno sprofondo di deindustrializzazione e tutto questo nonostante (anzi a causa) del massacro del lavoro, delle pensioni e del welfare.
Ora va bene la faccia tosta di non prendere in considerazione i dati e continuare a dire come ha fatto Renzi che “il 2016 è un dato di fatto va meglio del 2015, il 2015 è andato meglio del 2014, che a sua volta era andato meglio del 2013 e cosi via fino al 2012”, ma sputare nel piatto statistico nel quale si mangia ogni giorno, solo perché non è stato aggiunto abbastanza aroma artificiale alla solita zuppa, è da miserabili. Così come è da miserabili non stabilire la data del referendum per paura di questi dati, nell’assurda speranza di un qualche ballon d’essai da mostrare come segno vincente e forse perché probabilmente si pensa che una campagna brevissima e un voto last minute possano favorire il sì. E’ abbastanza chiaro però che quella di Cernobbio è stata una mezza imboscata, che la classe dirigente si è disamorata della sua creatura, la quale sentendosi braccata cerca di azzannare e accusa a sua volta i padroni del vapore di aver sottovalutato i problemi delle banche. Lo dice oltretutto avendo come ministro la Boschi che di quei problemi costituisce la parte più oscura e ignobile. Però come la lucertola che abbandona la coda pur di salvarsi sono pronto a scommettere che nei pressi del voto referendario sulla Costituzione, la manderà a casa, dopo averla difesa a spada tratta, nel tentativo di riacquisire credibilità. E’ così che si fa nella topaia Gorbeau e a Palazzo Chigi.

lunedì 5 settembre 2016

Islam e Burkini ai tempi di Facebook

Raccontare che qualche anno fa anche le donne musulmane andavano al mare in bikini mi è costata l'accusa di islamofobo e tre giorni di blocco del profilo
Il mese di agosto è stato segnato dal dibattito sul “burkini” e sul divieto imposto all’uso di tale costume da bagno in alcuni comuni francesi, successivamente bocciato dal Consiglio di Stato della Francia.
La bocciatura non dovrebbe meravigliare: sono in molte/i - persino femministe, anche in Italia – a sostenere che il burkini sia solo un costume, e proprio in quanto tale, chi lo vuole indossare dovrebbe poterlo fare liberamente. Altri si sono persino spinti fino a ritenerlo un costume imprescindibile per le donne musulmane che desiderano andare in spiaggia, sostenendo che vietarlo sia un mero attacco alla religione islamica.
In quanto egiziano, ho assistito progressivamente all’involuzione dei mio paese di origine, sia sul piano ideologico che su quello del costume.
Agli inizi degli anni 90, epoca in cui molti egiziani sono tornati in patria dopo decenni di vita lavorativa nei paesi del golfo, la prima donna che ha fatto il bagno vestita (all’epoca non esisteva ancora il burkini) venne guardata dalle altre musulmane – che il bagno lo facevano in costume, senza per questo considerarsi ed essere considerate “meno musulmane” - con un misto di curiosità, divertimento e sorpresa.
Ma di anno in anno, la moda di fare il bagno vestite divenne la norma e furono le donne col costume a sembrare delle curiosità, per altro neanche tanto divertenti. Chi voleva fare il bagno in costume, doveva rifugiarsi sulle spiagge private o degli alberghi, dove la presenza delle turiste occidentali - che nessuno avrebbe osato importunare - divenne una specie di “protezione”.
Il burkini – versione moderna del fare in bagno vestite – non è un semplice costume da bagno, ma il segno del dilagare di una mentalità tipica dell'"Islam politico" (termine usato anche in arabo per distinguerlo dall'“Islam” tout court) che sin dagli anni '70 ha perseguito la diffusione della copertura della donna come simbolo manifesto della propria presenza nello spazio pubblico, e quindi del proprio peso nella società.
Come ha dichiarato un esponente dei Fratelli musulmani in una conferenza pubblica: “La nostra marcia verso il potere è iniziata quando abbiamo convinto le nostre colleghe universitarie a velarsi”.
È interessante notare il suo insistere sul “convincimento” perché fu effettivamente una paziente opera di persuasione e di pressione sociale esercitata da donne velate su donne non velate a cancellare, nel giro di un paio di generazioni, la memoria stessa di società islamiche in cui le donne non erano né velate, né imburkinate.
È stato questo, sostanzialmente, quanto ho raccontato sul mio profilo Facebook, corredandolo delle immagini delle spiagge egiziane negli anni sessanta.
Non avrei mai immaginato che quelle che per me sono ovvietà sarebbero diventate virali, ma ancora meno la reazione di molti lettori divisi fra incredulità e nostalgia.
In migliaia hanno chiesto l’amicizia in poche ore, curiosi di saperne di più. L’aspetto triste è che a mettere in dubbio l'autenticità delle immagini ("Sono troppo chiari per essere egiziani", "Sono su una spiaggia per élite" ecc.) non sono stati gli islamisti, ma i lettori europei.
A riprova del fatto che la memoria stessa di un mondo musulmano laico, senza veli, senza burkini, e così via, è praticamente svanita. Qualche lettore italiano, più islamista degli islamisti, mi ha persino dato dell’islamofobo venduto. Io, che sono nato musulmano in un paese islamico.
Questo delirante quadro si è concluso con il blocco orwelliano del mio profilo Facebook, denunciato da qualche zelante internauta come falso.
Ho passato tre giorni di passione, inviando ogni giorno il documento di identità richiestomi da Facebook a dimostrazione che scrivevo col mio vero nome e cognome, ma senza successo.
Alla fine un amico è riuscito a mettermi in contatto con un responsabile in carne e ossa che ha immediatamente e gentilmente provveduto a impartire indicazioni per sbloccare il profilo. Se non avessi avuto quella fortuna, probabilmente la mia voce sarebbe stata zittita chissà per quanto tempo ancora.
In fin dei conti, non sono certo l’Imam che ha pubblicato le foto delle suore al mare in difesa del burkini e che si è ritrovato il profilo bloccato per la stessa segnalazione.
Per lui si che sì sono mossi i mezzi di informazione a reti unificate, tanto da far sbloccare il profilo in sette ore con relativo comunicato stampa da parte di Facebook.
Ennesima dimostrazione della disparità di trattamento che media e politica riservano ai musulmani laici, che devono evidentemente espiare la colpa dell’aver solo ricordato che, un tempo, anche le musulmane andavano al mare in bikini.

venerdì 2 settembre 2016

Troppa plastica in mare e nei nostri piatti

La plastica viene ingerita dagli organismi marini e può risalire la catena alimentare fino ad arrivare nei nostri piatti
Troppa plastica nei nostri mari. A lanciare l'allarme è Greenpeace che ha presentato “La plastica nel piatto, dal pesce ai frutti di mare”, rapporto realizzato dai laboratori di ricerca di Greenpeace che raccoglie i più recenti studi scientifici sugli impatti delle microplastiche, incluse le microsfere, sul mare e quindi su pesci, molluschi e crostacei.
Non vi sono cifre definitive sulla quantità di plastica che finisce nei mari: alcuni modelli teorici stimano tra 5mila e 50mila miliardi di frammenti (numeri impossibili da verificare con certezza) equivalenti in peso a più di 260mila tonnellate, senza contare i rifiuti di plastica presenti sulle spiagge o sui fondali.
"Sempre più plastica - denuncia Greenpeace - viene ingerita dagli organismi marini e può risalire la catena alimentare fino ad arrivare nei nostri piatti".
"La presenza di frammenti di plastica negli oceani è un problema noto da tempo ma in crescita esponenziale - spiega l'associazione - Una volta in mare, gli oggetti di plastica possono frammentarsi in pezzi molto più piccoli, e diventare microplastica. Un caso a parte sono le microsfere: minuscole sfere di plastica prodotte apposta per essere usate in numerosi prodotti domestici (cosmetici e altri prodotti per l’igiene personale)".
Il rapporto “offre indicazioni allarmanti sugli impatti delle microplastiche su vari organismi marini, tra cui diverse specie di pesci e molluschi comunemente presenti nei nostri piatti, anche se gli effetti sulla salute umana sono ancora troppo poco studiati”. Anche per questo, Greenpeace Italia chiede al Parlamento di adottare al più presto il bando alla produzione e all'uso di microsfere di plastica nel nostro Paese: su iniziativa dell’associazione Marevivo è stata già presentata una proposta di legge.
"Una mole crescente di prove scientifiche – spiega Giorgia Monti, responsabile Campagna Mare di Greenpeace Italia - mostra che le microplastiche possono generare gravi conseguenze sugli organismi marini e finire nei nostri piatti. Un bando alla produzione di microsfere è, per il governo e il Parlamento, la via più semplice per dimostrare attenzione agli effetti dell’inquinamento del mare e ai relativi rischi per la salute umana anche se è solo un primo passo per affrontare il gravissimo problema della plastica nei nostri oceani".
"Arrivate al mare - spiega Greenpeace - le microplastiche possono sia assorbire che cedere sostanze tossiche ed è dimostrato che vengono ingerite da numerosi organismi: pesci, crostacei, molluschi. Purtroppo, non ci sono ancora ricerche sufficienti a definire con certezza gli impatti sulla salute umana ma i dati disponibili confermano la necessità di applicare con urgenza il principio di precauzione, vietando la produzione di microsfere e definendo regole stringenti per ridurre in generale l’utilizzo di plastica".

giovedì 1 settembre 2016

La Costituzione è nostra, non dei mercati

Ringraziamo sinceramente per la gentile e disinteressata premura, cari mercanti internazionali, ma dei vostri ammonimenti non ce importa un fico secco. Siete pregati di farvi gli affari vostri anziché ficcare il naso in una questione che non vi compete,quale la Costituzione di uno Stato sovrano, e di cui non capite una mazza. Siete abituati a trattare con investitori, azionisti, dipendenti e fare i conti con i profitti e coi vostri interessi. Vi sfugge il particolare che esistono anche dei cittadini di libere repubbliche che pensano in termini di bene comune, che non intendono prendere ordini da chicchessia e vogliono decidere con la loro testa sotto quale Costituzione vivere.
Se Renzi fosse un vero capo di governo, e se il Presidente Mattarella intendesse come intendo io il dovere di rappresentare l’unità nazionale, avrebbero risposto più o meno in questi termini al concerto di pressioni dei non meglio identificati mercati internazionali di cui abbiamo letto in questi giorni. Ma il primo, immagino, si starà sfregando le mani soddisfatto per l’aiuto alla sua campagna referendaria; il secondo, che io sappia, tace. Qui non si tratta del diritto delle istituzioni finanziarie internazionali di operare secondo le regole del mercato, ma della loro arrogante pretesa di influenzare con aperte minacce il voto del referendum.
Non sta scritto da alcuna parte che i capi dei governi di paesi democratici a economia di mercato non possano e non debbano sottrarsi ai loro comandi. Nel 1936, in piena campagna elettorale, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt disse di essere consapevole che i monopoli della finanza lo odiavano, e aggiunse: “I welcome their hatred” (“ben venga il loro odio”) e tirò dritto con le sue politiche del New Deal che permisero agli Stati Uniti di uscire dalla tremenda crisi economica del 1929. Da queste parti di leader politici del calibro di Roosevelt non se ne vedono. E francamente dispiace leggere che un uomo e un politico della tempra di Romano Prodi, che potrebbe fare la differenza, è orientato a votare no ma non intende dichiararlo pubblicamente per una sorta di “spirito nazionale” e di timore delle speculazioni finanziarie. Ma proprio lo spirito nazionale bene inteso impone di prendere posizione netta e operare con tutte le proprie forze per il no, se si crede in coscienza che la vittoria del sì devasti la Costituzione. C’è forse un bene comune più alto della Costituzione? Se i capi non sanno tenere la schiena dritta davanti alle oligarchie finanziarie possiamo farlo noi cittadini, con un bel no che nasce dalla volontà di dire a lorsignori che non prendiamo ordini da nessuno. Se la maggioranza degli italiani voterà sì perché impaurita dalle minacce dei mercanti vorrà dire che è felice di essere serva. Che differenza c’è fra obbedire a un padrone domestico e obbedire ai padroni della finanza internazionale? Ma allora tanto vale andare fino in fondo e chiedere a JP Morgan o a Bloomberg di scrivere loro la nostra Costituzione e toglierci l’inutile fardello della libertà.
Affermare il diritto e dovere dei popoli di scegliere la propria Carta contro i potenti stranieri non è nazionalismo, ma quel sano amor di patria di cittadini che pretendono rispetto e non tollerano di essere trattati come bambini da potenti che traggono la loro potenza dal denaro. E lasciamo stare la fandonia che la vittoria del no danneggerebbe l’Europa. Sono i politici da barzelletta sempre pronti a fare quello che vogliono i mercati che stanno distruggendo l’ideale europeo. Quell’ideale, vale la pena ricordarlo, era di un’Europa di popoli. Ma veri popoli sono soltanto quelli che vogliono e sanno essere arbitri del loro destino. Nella nostra storia, noi italiani raramente siamo stati in grado di affermare la nostra dignità di popolo e di riscattarci dai padroni stranieri. Ma qualche volta ci siamo riusciti. Proviamo, almeno proviamo.