venerdì 29 aprile 2016

Risparmio, l'allarme dei consumatori: "Il 70% delle sofferenze causate dalle imprese e non dalle famiglie

In mancanza di una riforma seria della governance bancaria che coinvolga anche Poste Italiane con il Bancoposta ed il risparmio cooperativo, la situazione dei risparmiatori diventerà sempre più critica”.
Questo quanto affermato dal Movimento Difesa del Cittadino (MDC) in seguito alla riunione delle associazioni dei consumatori svoltasi presso Banca d’Italia. Durante la riunione sono stati presentati i nuovi controlli sulla funzionalità degli uffici reclami di banche e società finanziarie e della nuova disciplina del bail in.
L’associazione di consumatori ha sottolineato come oltre il 70% delle sofferenze bancarie siano causate dalle imprese e non dalle famiglie, cui invece sono stati fatti investire i risparmi in azioni, obbligazioni, fondi immobiliari ed assicurazioni indicizzate in contrasto con il proprio profilo di rischio, come accertato da Consob su Poste Italiane e proprio da Bankitalia ad esempio con Banca Marche.
“Sentir parlare il regolatore di “procedure di reclamo più efficienti” solo ora, suona come una beffa per i risparmiatori: sia per quelli che hanno già subito la perdita di tutto o parte del patrimonio, sia per coloro che erano del tutto inconsapevoli del rischio delle proprie banche, alcune delle quali subissate da crediti deteriorati (NPL)”, dicono dall’associazione.
A sorprendere e preoccupare MDC è poi l’assenza di un intervento regolatorio per quanto riguarda i reclami nel settore cooperativo, nel quale sono investiti ben 11 miliardi di euro dei soci e che già nel 2015 era stato colpito dai default delle Cooperative Operaie di Trieste, Istria, Friuli, Carniche e CoopCa Cooperativa Carnica di Consumo che hanno bruciato circa 130 milioni di risparmi raccolti nel cosiddetto prestito sociale.
Per MDC è ora di una revisione straordinaria della governance bancaria e delle cooperative che comprenda anche chi siede nelle Fondazioni di controllo. “Sarebbero necessari determinati criteri di onorabilità, soprattutto quanto ai possibili conflitti di interesse con soggetti cui vengano elargiti generosi prestiti in assenza di garanzie. Un controllo più attento da parte di Bankitalia dovrebbe estendersi anche agli Organismi di Vigilanza che sono rimasti inerti in tutti gli scandali bancari degli ultimi mesi e che non ancora rimossi, nè coinvolti nelle indagini sulle responsabilità penali dell’accaduto”.

giovedì 28 aprile 2016

Si muore prima, ci si cura peggio


Rapporto salute. Per la prima volta nella storia d'Italia sta calando l'aspettativa di vita degli italiani, un fatto quasi inedito nel mondo occidentale. Questa è la diagnosi del rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all'Università Cattolica di Roma. I motivi? Scarsa prevenzione e tagli della spesa sanitaria. "Siamo il fanalino di coda della prevenzione nel mondo e questo ha un peso", spiega il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Walter Ricciardi
Si muore di più. Ci si cura di meno. I motivi? Scarsa prevenzione, calo delle vaccinazioni, pochi screening oncologici e soprattutto diminuzione della spesa sanitaria. “Abbiamo avuto la più grande epidemia di mortalità della storia dall’Unità d’Italia: i 54 mila decessi in più nel 2015 rispetto all’anno precedente sono dovuti sicuramente alla popolazione vecchia, ma anche all’influenza e alle sue complicanze, e ai servizi che non riescono più a dare risposte ai cittadini. Ci sono parti del paese in cui i cittadini fanno fatica ad accedervi”.
La diagnosi del presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Walter Ricciardi, orienta la lettura del fittissimo rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all’Università Cattolica di Roma. Davanti a quest’ammassarsi di tombe e di nuovi malati, bisognerebbe almeno avere la lucidità di comprendere che le minori risorse destinate al Sistema sanitario nazionale, e la conseguente incapacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, non c’entrano nulla con l’ineluttabilità della morte ma fanno parte di una precisa strategia politica che risponde a una logica di profitto, e apre enormi spazi al settore sanitario privato.
Per la prima volta nella storia d’Italia sta calando l’aspettativa di vita degli italiani, un fenomeno che ha pochissimi precedenti nel mondo occidentale. Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è stata di 80,1 anni e per le donne di 84,7 (tre mesi in meno rispetto al 2014). E le differenze registrate nei territori sono scandalose. “Oggi i cittadini di Campania e Sicilia – spiega Ricciardi – hanno un’aspettativa di vita di quattro anni in meno rispetto a chi vive nelle Marche o in Trentino. Abbiamo perso in quindici anni i vantaggi acquisiti in quaranta. E se è vero che l’Italia ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, questo vale solo per una minoranza di italiani”. Potrebbe andare diversamente? Difficile se l’Italia, come dice il rapporto, è il paese europeo che oggi spende meno per la prevenzione, e se la spesa sanitaria continuerà a diminuire come già accade dal 2010.
Le conseguenze e lo stato di salute degli italiani del resto sono state fotografate anche da un recente rapporto dell’Ocse secondo cui il 7,1% degli italiani (più di 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, le liste d’attesa troppo lunghe oppure l’ospedale troppo lontano. Il dato raddoppia nel caso in cui gli intervistati appartengano al 20% della popolazione più povera. Inoltre, segnala l’Ocse, ticket cari e liste d’attesa, spingono molti italiani a farsi curare nel privato.
I numerosi elementi di criticità sottolineati da Walter Ricciardi sono piuttosto sconfortanti. La spesa sanitaria pubblica è passata dai 112,5 miliardi di euro del 2010 ai 110,5 del 2014, una contrazione che è servita a contenere i deficit regionali ma ha coinciso con il blocco o la riduzione del personale sanitario (e dei consumi). Il dato di 1.817 euro di spesa sanitaria pro capite dice che l’Italia è tra i paesi he spendono meno. Nell’ultimo anno, per esempio, il Canada ha speso il doppio, la Germania il 68% in più e la Finlandia il 35%. Sembra che ci sia poco altro da spolpare. Nel 2014 la dotazione di posti letto negli ospedali era di 3,04 per 1000 abitanti per la componente “acuti” e di 0,58 per 1000 per post-acuzie, lungodegenze e riabilitazioni: sono valori già inferiori agli standard normativi. Anche la spesa per il personale, in rapporto alla popolazione, è diminuita del 4,4% nel triennio 2010-2013. “Il fattore preoccupante – spiega Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni – è che i tagli di personale operati nel corso degli ultimi anni potrebbero produrre degli effetti sull’erogazione e sulla qualità dell’assistenza, e in maniera differenziata nelle diverse aree del paese” (nel 2013 sono state assunte 85,6 persone ogni 100 pensionati).
La scarsità dell’investimento nella prevenzione provoca morti: l’Italia destina solo il 4,1% della spesa sanitaria totale all’attività di prevenzione, una quota che ci colloca tra gli ultimi trenta dell’area Ocse. Risultato: è in aumento l’incidenza di alcune patologie tumorali prevenibili. “Siamo il fanalino di coda nella prevenzione nel mondo, e questo ha un peso”. Un altro capitolo con risvolti anche drammatici riguarda le vaccinazioni, in particolare l’antinfluenzale per gli over 65: dal 2003 al 2015 la copertura è passata dal 63,4 al 49%, un calo preoccupante che allontana l’Italia dal livello minimo del piano nazionale che indica una percentuale al 75%. Detto questo, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha avuto una idea geniale: “Nel nostro paese dobbiamo tornare a investire nella prevenzione primaria e secondaria, la prevenzione è una cosa alla quale le Regioni, tutte, devono prestare il massimo dell’impegno e dell’attenzione”. Il ministro ha anche invitato gli italiani a seguire uno stile di vita corretto.
Gli italiani sono messi così così. I fumatori sono in calo: nel 2010 fumava il 22,8% della popolazione, nel 2013 il 20,9%. I consumi di alcol, invece, sono in leggera crescita. Con calma, stiamo diventando più sportivi: nel 2014 il 28% della popolazione ha dichiarato di svolgere un’attività di tipo amatoriale (passeggiate, corsa, bici, nuoto). I consumi alimentari non sono proprio da popolazione ben educata: nel periodo 2001-2014 la persone in sovrappeso sono passate dal 33,9 al 36,2% (più magri al nord, più in carne al sud). Ma è un altro tipo di consumo che meriterebbe di essere approfondito con dati non solo di natura statistica: gli antidepressivi in Italia sono sempre in aumento. Tecnicamente – ma il dato non può che essere sottostimato considerando che l’automedicazione è prassi – su 1000 abitanti si registrano 39,30 dosi di ansiolitici o antidepressivi. Sono in leggero aumento anche i suicidi (7,99 casi su 100 mila nel 2011-2012). Un’altra spia che dice che il sistema non funziona – non solo sanitario.

mercoledì 27 aprile 2016

Un nuovo “regalo” ai cittadini europei da parte degli oligarchi della UE per favorire le lobby delle corporations USA

La Commissione Europea ha in programma di rinnovare la licenza per il controverso diserbante che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene possa causare il cancro. Tutto ciò nonostante l’opposizione di diversi paesi e del Parlamento Europeo.
Nel 2015 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro – organismo dell’OMS – aveva detto che il glifosato, l’elemento attivo nel diserbante per l’agricoltura prodotto dalla Monsanto e ampiamente usato sui raccolti di prodotti geneticamente modificati in tutti il mondo, era stato classificato tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.
Aveva detto anche che c’era una “evidenza limitata” sul fatto che il glifosato causasse linfomi non-Hodgkins. La Monsanto aveva reagito dicendo di non comprendere la decisione, e che i dati scientifici non sostenevano le conclusioni.
I risultati hanno avviato una controversia interna all’UE sull’uso del glifosato, con l’Italia, la Francia, la Svezia e l’Olanda che si opponevano al rinnovo della licenza in marzo. Più di 1,4 milioni di persone avevano firmato una petizione per vietare l’uso di quella sostanza.
Ma la nuova proposta, trapelata dalla Commissione Europea ed esaminata dal Guardian, presenta poche modifiche rispetto a quella respinta lo scorso mese. Essa ridurrebbe il periodo di autorizzazione del glifosato da 15 a 10 anni, e impone di considerare un divieto immediato se la European Chemicals Agency (ECHA), in uno studio in conclusione per il prossimo anno, dovesse ritenere la sostanza pericolosa.
Il Partito dei Verdi definisce tutto ciò un tradimento del principio precauzionale, che obbliga a mantenere la cautela laddove ci siano dubbi scientifici. Bert Staes, portavoce del Partito dei Verdi per la sicurezza ambientale e alimentare, ha detto: “È scandaloso che la commissione stia cercando di imporre l’approvazione UE sul glifosato in modo che sia usato senza restrizioni, nonostante le gravi preoccupazioni sull’impatto di questa sostanza tossica sulla salute pubblica e sull’ambiente. L’azione responsabile dovrebbe essere quella di vietare il glifosato“.
Glisolfato Monsanto
Glisolfato Monsanto
I gruppi del settore agricolo europeo dicono di essere preoccupati che la decisione di anticipare i tempi per una nuova approvazione possa creare un precedente. Graeme Taylor, della European Crop Protection Agency ha detto al Guardian: “Siamo chiaramente delusi dal fatto che la pressione politica abbia messo in discussione la procedura scientifica per la riapprovazione di una sostanza. Se la sostanza rispetta tutti i criteri per la riapprovazione, allora dovrebbe essere riapprovata per un periodo di 15 anni”.
Il glifosato è un ingrediente del marchio Roundup della Monsanto, ma anche di altri diserbanti prodotti da Syngenta e Dow. La sostanza viene tipicamente irrorata in grandi quantità sui campi dove sono coltivati prodotti geneticamente modificati, e alcuni agricoltori sostengono che il suo uso abbia causato negli USA un’esplosione di erbe infestanti immuni, dopo la sua introduzione nel 1974.
L’uso di questo diserbante è cresciuto enormemente 20 anni fa, quando l’Agenzia statunitense per la Protezione Ambientale ha allentato le regole sulla sicurezza, permettendo che i residui di glifosato sul mais fossero fino a 50 volte superiori rispetto al limite precedente. Da allora l’uso del glifosato negli Stati Uniti è aumentato di 15 volte.
Pericolo pesticidi
Pericolo pesticidi
L’Agenzia dell’OMS per il cancro ritiene che il glifosato sia “probabilmente cancerogeno per l’uomo“, sebbene l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare non sia d’accordo. L’opinione della European Chemicals Agency (ECHA) potrebbe risolvere questa controversia, che coinvolge le metodologie di laboratorio e l’influenza dell’industria. Ma lo studio impiegherà 18 mesi per essere condotto e non è ancora iniziato. Un portavoce dell’ECHA ha detto solo che “al momento, l’ECHA non si esprime sul cambiamento di classificazione del glifosato“.
Sebbene la Commissione sia tenuta a seguire le indicazioni dell’ECHA, alcuni paesi hanno fatto esplicito riferimento a questo – e a una riduzione del periodo di autorizzazione – come condizione per il loro sostegno.
Un rappresentante di uno dei paesi dissenzienti ha detto al Guardian: “Comprendiamo, dai nostri contatti con la Commissione, che essa sia disposta a rispettare le nostre condizioni. Non sono sicuro se ciò sia chiaro nell’articolo trapelato, ma alla fine questo è quanto ci aspettiamo dalla Commissione”.
La scorsa settimana il Parlamento Europeo ha votato contro l’approvazione all’uso del glifosato laddove esistano dei metodi alternativi, nonché nell’uso agricolo immediatamente prima dei raccolti, nei parchi pubblici e nei parchi giochi. Decine di parlamentari europei si sono offerti di fornire campioni di urina per i test sul glifosato poco prima del voto parlamentare.
Il glifosato è usato così ampiamente da trovarsi nel pane in Gran Bretagna, nella birra tedesca e nei campioni di urina in tutta Europa, a livelli che vanno da 5 a 20 volte oltre il limite consentito per l’acqua potabile.

martedì 26 aprile 2016

Il destino fragile del Mediterraneo

Quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune». La Repubblica, 24 aprile 2016
Le immagini di ciò che sta accadendo a Genova mi portano ad una riflessione: che cosa ci sembra pericoloso, oggi? Ho la sensazione che non sia chiaro cosa davvero mette a rischio la nostra esistenza. Ci spaventano i pericoli diretti, quelli che possono uccidere in poco tempo una persona (e solo se si tratta di qualcuno che conosciamo), mentre ci fanno meno paura i pericoli a lunga scadenza, quelli, per intenderci, che non mettono a rischio immediato la vita di prossimità (la nostra o quella dei nostri cari) ma “solo” la vita di qualcuno che è lontano, in termini di spazio e di tempo (le future generazioni) o in termini biologici (i viventi non umani, dai microrganismi ai grandi mammiferi).
E il mare? Cosa pensiamo del mare? Quanto e come ci ricordiamo ancora che è - in sé - un organismo vivente? Diciamoci la verità, non ce lo ricordiamo quasi mai. Solo in qualche poesia o fiaba ci riferiamo al mare come a qualcosa che respira, si muove, mangia, si arrabbia o si calma. Per il resto del tempo pensiamo che il mare sia né più né meno che un mezzo, o - a seconda dell’esigenza - un contenitore. Un mezzo per spostarsi o un contenitore in cui buttare quel che non sappiamo dove mettere. Se da un’idea astratta e generica di mare passiamo all’idea concreta e precisa di Mediterraneo, forse ci sarà più facile vedere quel che di solito non riusciamo a cogliere.
Il Mediterraneo è un mare piccolo (circa l’8 per cento della superficie acquea planetaria), chiuso, caldo, altamente diversificato, popolatissimo (di uomini e di specie ittiche) e trafficatissimo (circa il 30 per cento del traffico di navi petroliere). Una specie di bacinella tiepida e straordinariamente bella, intorno alla quale si affollano le attività produttive ed economiche di 26 Paesi. Che non dialogano tra loro, che non sono tenuti a rispettare le medesime regole e che, in alcuni casi, non sono tenuti a rispettarne alcuna. Una specie di aiuola pubblica, intorno alla quale tutti passano, sulla quale tutti vantano qualche diritto, ma della quale nessuno si prende cura.
È uno snodo fondamentale per attività di carattere politico, economico e produttivo, ma viene visto e vissuto come fosse un materiale inerte qualsiasi. E periodicamente riceve colpi ferali, dai quali si riprende sempre in modo parziale perché prima che la ripresa sia completa ne arriva qualche altro.
Ecco, quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto che sta mettendo a rischio il mar Ligure e il Mediterraneo, è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune.
Dalla piccola pesca che non ha tutele, ai depuratori che non esistono o non funzionano, dallo scandalo degli sprechi in mare alla mancanza di una commissione nazionale per le valutazioni di impatto ambientale, fino all’irrisione continua delle normative europee a protezione della biodiversità. L’elenco potrebbe continuare, è un rosario lunghissimo.
Molto breve invece è l’elenco di quel che viene sempre e sicuramente tutelato: il profitto di qualcuno, e non importa se per raggiungerlo si spalmano i danni su tutti, e quando dico tutti intendo i miliardi di uomini e donne del pianeta più i biliardi di esseri viventi, acquatici e no.
Alla fine, a forza di contemplare inermi il lungo elenco dei guai e la brevissima lista dei vantaggi, verrà il momento in cui bisognerà fermarsi e decidere quale modello di sviluppo si intende seguire: se quello basato sulla rapina, la distruzione e il danno (a lungo termine) di tutti a vantaggio del bene materiale (a breve termine) di pochi; o se vogliamo che la politica torni a fare la politica, che la democrazia torni ad essere un meccanismo a vantaggio dei molti e che dunque si dia la cautela come elemento principe delle sue decisioni.
Non sto dicendo che tutto dipende da chi ci governa. Anzi, probabilmente l’input principale di un urgentissimo cambiamento di stile sta nelle mani dei cittadini prima di tutto. Occorre ricostruire la cultura con la quale dobbiamo guardare alle risorse naturali, beni ai quali abbiamo diritto di accesso perché senza di esse non possiamo vivere, ma che ci conferiscono allo stesso tempo doveri di tutela perché non abbiamo il diritto di privarne gli altri. Ripartiamo da qui, ogni giorno, dagli asili nido alle aule sovranazionali, il dibattito sul bene comune non resti chiuso nelle stanze dei giuristi. Parliamone di più, sempre, e su ogni mezzo disponibile, dalle osterie ai social media. Quell’oleodotto che perde sta sporcando casa nostra.

lunedì 25 aprile 2016

Le pensioni rimangono un tema centrale.

Sulle pensioni, la Cgil, insieme a Cisl e Uil continua a criticare il Governo che a sua volta gira la testa dall’altra parte lanciando di tanto in tanto false rassicurazioni in pasto all’opinione pubblica. Il punto più alto di questa linea politica è stato sicuramente l’uscita di Padoan che dall’alto della sua autorevolezza ha buttato lì una mezza apertura sulla flessibilità che in realtà mette una pezza alle emergenze del sistema previdenziale, che fa acqua da tutte le parti e non affronta i nodi di fondo.
In più, come sottolinea in una nota Federico Giusti, dei Cobas di Pisa, “la ricetta del Governo per superare lo scoglio delle pensioni e non rimettere mano alle famigerate leggi previdenziali è quella di sostenere la previdenza integrativa”. L’adesione ai fondi privati, è noto, si mantiene al di sotto della media degli altri paesi. E quindi le lobby assicurative e finanziarie spingono molto in questa direzione. E’ il senso, questo, dell’invio delle lettere arancioni da parte dell’Inps e dell’allarme lanciato sulla soglia previdenziale dei settantacinque anni a carico delle generazioni nate dopo il 1980.
Dall’altra parte, non affrontando il nodo della previdenza, il Governo dimostra di non credere, nella sostanza, neanche alla cosiddetta ripresa, e di non voler far nulla per favorirla attraverso una scelta netta proprio sul ricambio generazionale nel mondo del lavoro. E che a dire l’ultima parola sia Padoan lancia un messaggio chiaro al paese: “Non ci sono i soldi per fare la riforma della previdenza”. E’ per questo che la Cgil questa mattina è andata sotto le finestre del ministro dell’Economia in via XX settembre con in mano le rivendicazioni degli esodati, che chiedono l’ottava salvaguardia, e dei lavoratori precoci, reclusi dentro un sistema previdenziale che non rispetta il lavoro e la fatica. Fino a quando il tema potrà essere affrontato "un pezzo alla volta"? E' vero che da una parte il Governo continua a negare un tavolo, però è altrettanto vero che l'inizitiva sindacale sembra essere segnata da troppi timori.
Allo studio del Governo varie ipotesi , e tutte parziali. Per esempio, favorire una certa flessibilità nei pensionamenti con alcune e graduali penalizzazioni (a seconda degli anni mancanti prima della pensione), in tal caso un ritocchino alla Fornero sarebbe comunque necessario. “Aziende e Governo hanno in mente di favorire, tramite la contrattazione di primo e di secondo livello – sottolinea ancora Giusti - il ricorso alla previdenza integrativa (con la perdita del tfr o convogliando alcuni aumenti-si fa per dire-contrattuali in previdenza integrativa. Vogliono infatti ridurre di 3-4 punti l’aliquota fiscale sui rendimenti dei fondi pensioni (da due anni al 20% ), incrementare la deducibilità dei versamenti, obbligare una parte del Tfr ai fondi pensione, stabilire regole nuove nella contrattazione per favorire la previdenza integrativa rendendola quasi obbligatoria. In questo scenario il Governo Renzi potrebbe poi regalare alle aziende una ulteriore decontribuzione , questa volta previdenziale, dividendo i vantaggi tra imprese e lavoratori”.
In un caso o nell'altro , da questi interventi pensionistici a rimetterci saranno i lavoratori (con qualche elemosina), a guadagnarci il Governo (lascia intatto il sistema previdenziale attuale che è la causa delle future disuguaglianze) e i datori di lavoro (sgravi contributivi e cogestione con il sindacato del business dei fondi integrativi.
Ma perché questo piano si realizzi c'è bisogno di intervenire sulla dinamica contrattuale, del resto non dimentichiamo che nel 2014 piu' di un milione e mezzo di lavoratori\trici hanno sospeso i versamenti alla previdenza integrativa per non parlare poi della dilagante sfiducia nei luoghi di lavoro.
“Sicuramente il Governo inserirà nella legge di stabilità 2016 i suoi interventi ma prima ci sarà bisogno di un accordo sindacale – osserva ancora Giusti -. Le dichiarazioni della Camusso che critica il presidente dell'Inps che denuncia le disuguaglianze future derivanti dal sistema previdenziale, la dicono lunga sul ruolo dei sindacati concertativi . Di sicuro le stesse banche potrebbero giocare un ruolo dirimente, per esempio con dei prestiti erogati per il riscatto di anni contributivi o per chi volesse anticipare la pensione pur non avendo raggiunto anche i requisiti per la pensione di vecchiaia”.
La Cgil, da parte sua, sottolinea che il punto in discussione è “se è realizzabile che questo Paese continui a non avere una norma pensionistica che non dà prospettive ai giovani che non permette a quelli che non ce la fanno più di andare in pensione, che non risolve il tema degli esodati”. Secondo Susanna Camusso, “bisogna ricostruire una solidarietà del sistema, bisogna legare al tipo di lavoro che si fa, non basta ragionare di aspettativa di vita, perché non è la stessa per un dirigente e per un muratore, bisogna smetterla di avere l'idea che l'unico problema consiste nel garantire che si continui a risparmiare sui trattamenti previdenziali.

domenica 24 aprile 2016

Il petrolio in Italia: la situazione reale dopo il referendum

Si è concluso come in molti avevano previsto il referendum sulle trivelle; nessuno stop alle trivellazioni a causa del mancato raggiungimento del quorum per validare la consultazione.
Risultato di ciò, continueranno le estrazioni di petrolio nei mari italiani entro le 12 miglia e fino a che ci saranno riserve da sfruttare. Senza quindi una scadenza fissa.
Il referendum quindi è ormai acqua passata: quello che è interessante evidenziare a questo punto è come si andrà avanti in tema di trivellazioni; capire la situazione relativa al petrolio in Italia, alle piattaforme già esistenti, a quanto petrolio riescono ad estrarre. Cerchiamo di approfondire la questione.
Piattaforme petrolifere in Italia:
Ad oggi sono 88 le piattaforme esistenti entro le 12 miglia e fanno capo a 31 concessione per estrarre gaso petrolio. Si trovano per lo più nell'Adriatico, ma ci sono anche nello Ionio e nel mare di Sicilia.
Con l'esito negativo del referendum, si potrà continuare ad estrarre materie prime da queste piattaforme fino a tutta la durata di vita utile del giacimento. Per un tempo quindi indefinito.
Il che per molti rappresenta una anomalia perchè è di per sè anomalo che una risorsa dello Stato venga data in concessione senza limiti temporali prestabiliti. Ma tant'è.
Le piattaforme resteranno queste, o almeno dovrebbero, perchè la legge di Stabilità ha bloccato il rilascio di nuovi permessi; fattore che tuttavia non impedisce di perforare nuovi pozzi e costruire nuove piattaforme all'interno di concessioni già esistenti.
A quanto ammonta la produzione di petrolio in Italia:
Un settore molto florido che offre occupazione a un ampio numero di lavoratori; si parla di circa 13mila persone. Il tutto per una produzione di petrolio che, in Italia, arriva a quasi 543mila tonnellate; questo il dato relativo al 2015. Per il gas si parla di 1,84miliardi di smc (standard metro cubo).
Tale è il numero legato alla produzione entro le 12 miglia; quella per capirci che è stata soggetta a referendum. Il totale di produzione italiana, tra mare e terra, arriva a circa 7miliardi di smc per il gas; e a 5,5 milioni di tonnellate di petrolio.
A fronte di questi dati è interessante sapere che in Italia si consumano ogni anno circa 67miliardi di smc di gas e 57 milioni di tonnellate di petrolio. Numeri in netto calo negli ultimi 10 anni, segno di un approvvigionamento energetico sempre più diversificato.
La questione delle royalty:
E veniamo ora ad un'altra questione delicata; quella legata alle royalty. Le royalty rappresentano il valore di una quota percentuale del greggio o gas estratto che le compagnie petrolifere che estraggono idrocarburi in Italia devono versare allo Stato.
Per dirla in sintesi, la somma versata dalle compagnie in cambio dello sfruttamento commerciale di un bene; l'Italia impone royalty molto basse. Circa il 7% del valore del petrolio estratto in mare, e circa il 10% del valore del petrolio estratto in terra o del gas.
Percentuali tra le più basse al mondo. E ci sono alcune piattaforme che non pagano proprio poichè, grazie ad una franchigia, sono esenti al pagamento le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti off shore.
Nel 2015 il totale delle royalty pagate a Stato ed enti locali è stato pari a 351 milioni di euro. Solo il 21% delle piattaforme presenti nei mari italiani versa royalty.
Le piattaforme sono sicure?
Altro aspetto non da poco, quello legato alla sicurezza delle piattaforme italiane. Tema del quale si dibatte molto. Tra le piattaforme presenti in Italia circa la metà risale a 30 anni fa, ovvero prima del 1986 data nella quale entrò in vigore la legge che istituì le procedure di valutazione di impatto ambientale.
In sostanza, circa la metà delle piattaforme entro le 12 miglia non è mai stata sottoposta a procedure di verifica di impatto ambientale. Il rischio di cedimento strutturale sarebbe quindi presente e, contando che si tratta di impianti entro le 12 miglia e quindi vicini alla costa, un eventuale incidente potrebbe avere effetti deleteri sull'ambiente.
Per questo motivo nel 2010 l'allora governo Berlusconi decise di bloccare, sull'onda dell'emotività legata all'incidente avvenuto in Messico su una piattaforma petrolifera, nuove attività di estrazione nei mari italiani.
Il governo Monti nel 2012 riaprì a nuove concessioni e, nel 2014, il governo Renzi tutt'ora in carica ha definito come 'strategica' l'attività di estrazione di idrocarburi. Quindi, l'attività non è più vincolata a consenso delle singole regioni.

sabato 23 aprile 2016

Brzezinski: Germania, il kapò perfetto per ingabbiare l’Ue

Per capire l’attuale stato dell’Unione Europea, più che le fesserie dette di volta in volta da politicanti ora di finta destra ora di finta sinistra, è indispensabile leggere un libro di Zbigniew Brzezinski, “La Grande Scacchiera”, pubblicato da Longanesi nel lontano 1997. Il libro in questione non è facilmente reperibile e, dopo averlo letto, la cosa non stupisce. Brzezinski, per chi non lo sapesse, è uno dei più influenti player della politica americana da molti anni; appartenente al primo cerchio del potere globale, già ideatore e fondatore di consessi paramassonici potentissimi come la “Trilateral Commission”, Brzezinski fa parte di quella categoria di uomini che i fatti non li analizza: li determina. L’autore ha il dono di parlare chiaro, dipingendo la realtà senza concedere nulla né alla “forma” né al “garbo”. I paesi “amici” dell’America vengono definiti senza tanti giri di parole “Stati vassalli”, da blandire o minacciare a seconda degli interessi contingenti delle élite statunitensi. Brzezinski parte da un dato di fatto: gli Stati Uniti esercitano oggi una indiscutibile leadership sul piano globale, leadership che il definitivo crollo dell’impero sovietico ha reso esclusiva e assoluta. Come mantenere e consolidare un simile primato negli anni a venire?
Il libro si snoda intorno a questa priorità, approfondita da Brzezinski con approccio tanto lucido quanto cinico. Il politologo di origine polacca individua nell’Eurasia la zona strategica da presidiare sull’assunto che chi “comanda in Europa comanda nel Brzezinskimondo intero”. Per gli Stati Uniti quindi è decisivo non perdere influenza nel Vecchio Continente, favorendo un progressivo processo di unificazione trainato dall’asse franco-tedesco. Brzezinski sostiene inoltre che, nell’ottica americana, è preferibile avallare la leadership dei tedeschi, considerati più “gestibili” rispetto ai francesi ancora nostalgici di una “grandeur” che ne gonfia l’ego rendendoli più imprevedibili. La Germania, invece, anche per i trascorsi nazisti, senza l’ombrello militare a stelle e strisce non godrebbe di nessuna legittimazione in campo internazionale, onde per cui un eventuale processo di disallineamento da parte delle classi dirigenti teutoniche rispetto agli ordini impartiti da oltre Oceano viene considerato altamente improbabile.
Brzezinski, fautore di un progressivo allargamento ad est dell’Europa (cosa poi puntualmente avvenuta), individua per tempo nella Russia il principale antagonista di un simile progetto, dimostrando anche in questo caso di possedere una certa “lungimiranza”. I semi delle odierne tensioni in Ucraina sono già presenti all’interno delle pagine de “La Grande Scacchiera” (pubblicato, lo ricordiamo, quasi venti anni orsono), allorquando Brzezinski preconizza il futuribile ingresso della patria di Poroshenko nella grande famiglia della Ue in un periodo che va dal 2005 al 2010. Nel rapporto con l’Europa l’autore tradisce sentimenti ambivalenti: da un lato ritiene indispensabile scoraggiare il possibile riemergere di nazionalismi intraeuropei non funzionali al controllo americano sul continente; dall’altro però coglie come una Europa politicamente unita avrebbe tutte le carte in regole per ristabilire in termini paritari il rapporto – ora di “puro vassallaggio” – con lo zio Sam. La paralisi odierna è Padoa Schioppatutta racchiusa nell’analisi di Brzezinski. Ai manovratori serve una “Europa unita ma non troppo”.
La lettura del libro in argomento è utile anche per capire le fisime sulle politiche di austerità, considerate da Brzezinski funzionali non tanto al rilancio dell’economia, quanto indispensabili per risvegliare lo spirito di un popolo – quello europeo – ora ripiegato a causa dell’eccesso di benessere. Una tesi che ricorda la “riscoperta della durezza del vivere” teorizzata da un altro bel personaggio come Tommaso Padoa Schioppa. E’ interessante notare infine come Brzezinski, legato a doppio filo ai principali circuiti massonici mondialisti, individui proprio nel “cristianesimo” il collante culturale buono per accelerare il progetto di integrazione comunitaria. A pagina 83 del suo libro l’autore rivendica infatti come “imprescindibile, sul piano politico ed economico, l’azione civilizzatrice dell’Europa cristiana, depositaria di una antica eredità religiosa comune”. Nel libro “Wojtyla segreto” di Galeazzi e Pinotti, d’altronde, si ricostruiscono gli strettissimi rapporti intercorsi fra Giovanni Paolo II e lo stesso Brzezinski, quest’ultimo fortemente sospettato di avere recitato un ruolo nell’elezione del papa polacco, secondo solo a quello esercitato dallo “Spirito”.

venerdì 22 aprile 2016

Oro: piattaforma di trading comune russo-cinese

La Banca di Russia e la Banca popolare di Cina vogliono creare una piattaforma comune per il commercio dell’oro. I due Paesi attualmente sono i maggiori acquirenti al mondo.
Russia e Cina hanno grandi riserve, produzione e fame di oro. Dato che il centro dell commercio dell’oro in Cina è Shanghai, mentre quello russo è Mosca, un sistema che metta in comunicazione le due città, quanto meno riguardo il commercio del prezioso metallo giallo, avrebbe un impatto significativo sull’economia di entrambe le nazioni.
Stando alle dichiarazioni del vice governatore della Banca Centrale russa, i due Paesi stanno lavorando proprio a questo.
La Cina è il maggior produttore mondiale di oro. L’anno scorso ne ha prodotto 490 tonnellate. La Russia è il terzo, dopo l’Australia, con circa 295 tonnellate. Nel complesso, i due Paesi costituiscono il 25 per cento della produzione mondiale.
Allo stesso tempo, le banche centrali di Russia e Cina sono i più grandi acquirenti di metallo aureo al mondo. Dalla fine del 2008, le riserve d’oro della Cina sono quasi triplicate – da 600 a 1.762 tonnellate.
La Cina è al quinto posto per riserve auree, la Russia, con 1415 tonnellate è sesta. Ai primi posti USA, Germania, Italia e Francia.
Il valore del metallo aureo attualmente oscilla attorno ai 1250 dollari l’oncia, inferiore quindi al picco, raggiunto nella seconda metà del 2012, in cui aveva raggiunto quotazioni superiori ai 1500 dollari l’oncia, ma decisamente superiore al periodo 2013-2014 che l’aveva visto sprofondare attorno ai 1000 dollari.

giovedì 21 aprile 2016

L’intoccabile

Il caso del comico tedesco Jan Böhmermann rivela la vasta influenza giocata nella geopolitica odierna dal leader più spregiudicato e giocatore d’azzardo del panorama internazionale, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Questi si era infatti indispettito non poco dopo esser stato dileggiato da Böhmermann, che lo scorso 31 marzo aveva recitato una poesia fortemente satirica durante il suo programma televisivo “Neo Magazine Royale”. La reazione dell’aspirante Sultano di Ankara è andata ben oltre le aspettative, il comico ha subito una denuncia formale da parte del governo turco e il caso diplomatico venutosi a creare tra Germania e Turchia ha dimostrato la sudditanza psicologica della Germania, e di riflesso dell’Europa, di fronte a Erdogan. Il cancelliere Angela Merkel ha infatti dato il via libera alla messa sotto processo di Böhmermann applicando le disposizioni del paragrafo 103 del Codice Penale, che affidano al governo la necessità di autorizzare a un procedimento penale in seguito alla presentazione, da parte di un capo di Stato estero, di una denuncia per offese ricevute nei confronti di un cittadino tedesco. La genuflessione della Merkel è la conseguenza di un completo cambio di prospettiva operato dall’Europa nei confronti della Turchia: dopo aver corso per anni alla rincorsa di Bruxelles, vedendo perennemente frustrata la sua ambizione di unirsi all’Unione Europea, Erdogan ha operato con sempre maggiore insistenza nel teatro mediorientale, arrivando a un livello di coinvolgimento tale da risultare indispensabile all’Europa stessa una volta che le manifestazioni più impressionanti degli sconvolgimenti in atto nella regione, come l’esodo dei profughi e il dilagare del terrorismo, sono arrivati a interessare in primo piano il Vecchio Continente. È bene ricordare che di queste problematiche la Turchia è stata in larga misura complice, ma Erdogan è sempre riuscito a trarre profitto da un doppiogiochismo oramai rodato, interpretando il decisivo ruolo di ago della bilancia ed apparendo a numerosi soggetti interessati come la figura chiave del presente contesto internazionale.
E il fatto che le capacità censorie del presidente turco riescono a estendersi sino alla Germania testimonia eloquentemente il modus operandi preferito da parte di Erdogan, che negli ultimi mesi ha imposto un sensibile salto di qualità al suo controllo sull’informazione e sul sistema di poteri interni alla Turchia, assestando una serie di mirate picconate all’apparato democratico del paese e caratterizzandosi, settimana dopo settimana, come un vero e proprio “intoccabile”, una figura-tabù sulla quale è impossibile esprimersi in termini che non siano positivi. Il caso maggiormente discusso è stato sicuramente quello riguardante Zaman, il quotidiano più diffuso in Turchia, che lo scorso 4 marzo è stato sequestrato dall’autorità giudiziaria e commissariato, vedendo inoltre la sua direzione totalmente rinnovata, dopo esser stato violentemente attaccato dal governo per il sostegno accordato al principale avversario politico del presidente, l’imam Fethullah Gülen attualmente esiliato negli Stati Uniti. Zaman ha ripreso le pubblicazioni dopo due giorni, con una linea editoriale completamente nuova, smaccatamente favorevole all’esecutivo che è riuscito così a cauterizzare una delle principali fonti di opposizione all’interno del paese. Oltre al clamoroso caso Zaman, la realtà quotidiana del paese ci consegna un quadro di continue intimidazioni rivolte nei confronti di giornalisti e uomini di cultura considerati “scomodi”, di attacchi frontali contro coloro che si permettono di criticare la linea politica del governo e di clamorosi processi intentati a chi, oltre a criticare, si azzarda addirittura a presentare documenti autorevoli che testimoniano il doppiogiochismo di Erdogan, specialmente nei suoi approcci alla politica estera. Nel portare avanti la sua battaglia per la censura, il governo si è ritrovato anche in conflitto con quei settori delle istituzioni che, almeno per ora, sfuggono al suo completo controllo o mantengono ancora una loro indipendenza: ad esempio, Erdogan ha dichiarato pubblicamente di non riconoscere come ragionevole e, dunque, di voler disattendere il pronunciamento della Corte Costituzionale che, il 25 febbraio, ha definito illegittima la detenzione preventiva di Can Dündar e Erdem Gül, direttore e cronista di Cumhuriyet, in carcere da tre mesi con l’accusa di aver rivelato segreti di stato e ancora in attesa di un processo. Essi sono stati arrestati dopo aver dimostrato l’estrema ambiguità del governo turco che, oramai da anni, sostiene ed arma i gruppi jihadisti che, a parole, dichiara di combattere nell’ambito della coalizione internazionale a guida statunitense.
L’offensiva autoritaria in campo interno rappresenta uno dei due volti del grottesco progetto neo-ottomano di egemonia mediorientale che Erdogan sta coltivando negli ultimi anni e rappresenta la premessa necessaria per il conseguimento dei massimi poteri operativi in campo internazionale, in modo tale da permettergli di sviluppare la sua azione geopolitica avendo cauterizzato e reso sicuro il “fronte interno”. Il parallelismo tra le due realtà è apparso evidente nel corso della recente contesa elettorale, in seguito alla quale il popolo turco ha assegnato al partito di Erdogan la maggioranza assoluta negata solo pochi mesi prima nell’interlocutoria tornata dello scorso giugno. Essa è stata ottenuta dopo una martellante campagna i cui punti salienti sono stati la sindrome dell’assedio inoculata nella popolazione da Erdogan attraverso gli strumenti di informazione nelle mani dal governo, l’accentuazione strumentale di un sentimento conservatore fortemente condiviso da buona parte degli abitanti dell’interno del paese e l’individuazione di gruppi di nemici ben definiti, primi fra tutti i gruppi curdi vicini al PKK. Le aspirazioni totalitarie dell’aspirante Sultano hanno trovato perciò un felice riscontro nei risultati delle urne, che hanno rafforzato le sue volontà di imporsi come vero e proprio “uomo solo al comando”, istituzionalizzato nei fatti un presidenzialismo autoritario che allo stato attuale delle cose la Costituzione della Turchia non prevede e esteso l’alone di intoccabilità che avvolge la figura di Erdogan. Non è infatti un caso che proprio dopo le elezioni del novembre 2015 che hanno consegnato al Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) 317 seggi su 550 nel Parlamento di Ankara la politica repressiva abbia subito una brusca accelerazione, caratterizzata dal costante utilizzo della denuncia degli oppositori per presunti oltraggi alla persona del Presidente, molto spesso qualificabili semplicemente all’espressione di libere opinioni sull’andamento della situazione, come accaduto ai diciannove accademici arrestati lo scorso 15 gennaio dopo aver sottoscritto un appello alla pace che stigmatizzava la repressione selvaggia condotta dall’esercito turco contro la minoranza curda e i rischi connessi al mantenimento di uno stato permanente di tensione, che si sono palesati negli ultimi mesi sotto forma di una serie di attentati che hanno fatto piombare la Turchia in un vero e proprio “anno di piombo”.
Imperscrutabile e imprevedibile, Erdogan resta oggi saldo al potere, forte del sostegno che la comunità internazionale non cessa di mostrare nei suoi confronti e del controllo esercitato sul “polso” del suo paese. Il progetto di una Turchia imperiale, tuttavia, appare irrealistico nel lungo termine, alla luce soprattutto dell’attuale conflittualità con la Russia, principale alleato di due dei principali concorrenti di Erdogan (la Siria di Assad e l’Iran) e a sua volta largamente coinvolta nello scenario che Erdogan aspira ad egemonizzare. In nome di questo progetto, tuttavia, prosegue il lento svuotamento del sistema democratico e rappresentativo turco, mentre il presidente coltiva il sogno di restare in sella sino al 2023, anno del centenario della Repubblica, per poter porre la sua figura in diretta correlazione e in velata concorrenza con quella del mitico fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk. Ogni forma d’opposizione è messa a tacere in maniera brusca, e ogni critica perseguitata persino quando si verifica al di fuori del territorio turco. Da Zaman al caso Böhmermann, Erdogan continua a essere intoccabile. E finché gli altri leader internazionali continueranno a rafforzarlo nella sua convinzione di invulnerabilità, un ritorno alla normalità del sistema democratico turco è da ritenersi una vana speranza.

mercoledì 20 aprile 2016

Arrivano dodici nuovi inceneritori. Il ministero ha fretta: 'Non c'è impatto sull'ambiente"

Un progetto che prevede di bruciare 2 milioni di tonnellate di rifiuti aggiuntivi in un anno, ovvero quasi il 30 per cento in più di adesso, "non incide direttamente sulle componenti ambientali". E non è possibile sapere se comporterà "il superamento dei livelli di qualità" dell'aria. Nero su bianco, è la singolare osservazione contenuta nel Rapporto preliminare al Piano nazionale inceneritori che il ministero dell'Ambiente ha presentato nei giorni scorsi, e che prevede di realizzare almeno otto nuovi impianti (destinati a salire ulteriormente, come si vedrà).
Con un obiettivo che, anche a non voler pensar male, sembra chiaro: evitare di sottoporre il documento a una Valutazione ambientale strategica (Vas), una più ampia e approfondita analisi che richiederebbe uno studio più dettagliato e, soprattutto, di essere sottoposto per 60 giorni alle osservazioni di associazioni, comitati di cittadini ed enti locali. Incluse le Regioni, che avendo le competenza in tema di rifiuti spesso hanno alzato le barricate, mentre d'ora poi non potranno che "conformarsi al programma" deciso dall'esecutivo e "provvedere alla localizzazione sul territorio delle nuove infrastrutture". Cioè senza poter battere ciglio o quasi.
Mentre tutta Europa vira verso la raccolta differenziata, a fine 2014 col decreto Sblocca Italia il governo Renzi ha promosso gli inceneritori a "insediamenti strategici di preminente interesse nazionale": una formulazione che vuol dire zero voce in capitolo (o quasi) per le amministrazioni locali, tempi dimezzati per gli espropri, concessioni più rapide, fondi ad hoc e via dicendo. Esattamente la stessa filosofia seguita, tre articoli di legge più giù, per l'estrazione e lo stoccaggio di idrocarburi, che non a caso aveva portato a inserire nelle pieghe del provvedimento l'ormai celebre "emendamento Tempa rossa" (poi ritirato e inserito nella Stabilità un anno dopo) che ha portato alle dimissioni del ministro Federica Guidi.
Per raggiungere l'autosufficienza secondo il governo l'Italia deve bruciare annualmente un altro milione e 800 mila tonnellate di rifiuti (il 27 per cento in più) e servono quindi 8 nuovi inceneritori rispetto ai 40 già in funzione e ai 6 ancora in costruzione. Tutti da dislocare al centro e al Sud, dato che il Nord già copre il suo fabbisogno. L'esecutivo ha deciso anche dove dovranno sorgere: Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Puglia, Sardegna e due in Sicilia (che però vorrebbe realizzarne sei di dimensioni minori, portando così a 12 il numero complessivo degli impianti).
Ma ecco qui quella che appare come un'autentica trovata: siccome saranno le singole Regioni a decidere dove costruirli, secondo il Rapporto preliminare del ministero dell'Ambiente non si può stabilire quanto il Piano "incida direttamente sulle componenti ambientali". E "non possono essere puntualmente determinati e calcolati effetti significativi sull'ambiente", a cominciare dal "superamento dei livelli di qualità ambientale". Tutti elementi, per il dicastero guidato da Gian Luca Galletti, che potranno essere valutati solo una volta che le Regioni avranno deciso dove realizzare con precisione gli inceneritori. Quindi per ora non serve nessun ulteriore approfondimento. Come dire: intanto andiamo avanti, poi se ne parla.
Di fatto, si tratta di una mezza verità: perché se è vero che non si può stabilire l'impatto in uno specifico territorio, bruciare un terzo di rifiuti in più qualche ricaduta ambientale la avrà pure. E, se non altro a livello aggregato, qualche stima è possibile realizzarla.
Chi lo ha fatto, con una calcolatrice e un po' di buona volontà, è stato il Forum dei movimenti per l'acqua, che partendo da uno studio dell'Arpa-Emilia Romagna sugli inceneritori di ultima generazione ha quantificato che il surplus di incenerimento comporterà ogni anno la produzione di 450 mila tonnellate in più di scorie e ceneri, 2 mila tonnellate di ossidi di azoto, 545 chili di mercurio e altrettanti del velenoso tallio. Senza dimenticare 110 tonnellate in più di polveri sottili, 1,1 grammi di diossine e furani e 1 milione e mezzo di tonnellate di anidride carbonica, quell'anidride carbonica che l'Italia si è impegnata a ridurrenell'ultima conferenza sul clima.
Numeri che, inseriti in un Rapporto, potrebbero far storcere il naso. Magari sollevando ricorsi amministrativi o malcontento a livello locale che potrebbe rimettere tutto in discussione. Meglio piuttosto definire non quantificabili le ricadute sull'ambiente. Tanto un rimedio per costruire, una volta che i lavori sono partiti, si trova sempre. Anche il governo Berlusconi classificò "di interesse strategico" l’inceneritore di Acerra quando era ancora solo allo stato progettuale. Poi, davanti alle proteste, lo elevò a sito militare. E così, come poi accaduto anche in Val di Susa, a proteggere il cantiere con mezzi blindati e mitra spianati arrivò l’esercito.

martedì 19 aprile 2016

La Buona Scuola cambia il verso: dai neutrini al Gottardo

Cari insegnanti vicini e lontani, insegnanti che nelle aule scolastiche portano brande, viveri l’equipaggiamento da giovane escursionista, il nuovo kit “ Siamo tutti meccanici”, la valigetta del pronto soccorso munito anche di gocce omeopatiche contro il logorio del professore multimediale, psicologo, referente degli scheletri nell’aule di scienze e di tutti i laboratori in cui vivono più acari che reperti scolastici, dispensatori automatici di moduli da scaricare, report, verbali da inserire nel registro elettronico, inseguitori del punto in cui connette il vostro tablet nell’intero edificio scolastico e se non basta, nomadi nel cortile per individuare il punto G dove improvvisamente una tacca del vostro PC si confonde con le vostre lacrime in un fazzolettino già prestato alla vostra allieva che piangeva perché le bionde trecce, gli occhi azzurri, le sue calzette rosse e l’innocenza delle gote sue se si erano scontrati con Mario “Er mejo der Colosseo”, sappiate che il nostro Premier, il più odiato dagli insegnanti italiani reo confesso di aver turlupinato la Scuola italiana riducendola in cacatina di piccione, si è clamorosamente meritato il podio ex.aequo con Maria Stella Gelmini, con la gaffe più clamorosa dopo il giuramento del Parlamento italiano sul fatto che Ruby fosse la nipote di Moubarack. Pensavamo che più di così, dopo aver assistito a volte increduli, a volte scagliando freccette sul ritratto della Giannini, a volte picchiando ripetutamente la fronte contro lo stipite dell’armadietto in cucina, di aver già pagato in anticipo il nostro ingresso in Paradiso. E invece no! Ancora una volta il nostro capo-scout ci ha lasciato a bocca aperta. Ma proprio a bocca aperta con il rischio di rimanere con una lesione permanente attribuibile a gravi scompensi cardiaci. Incominciando la conferenza stampa, l’uomo che non deve chiedere mai perché si elegge da solo, con fare per lui serio, annuncia con voce solenne e formale l’imminente inaugurazione del tunnel ferroviario del Gottardo tra i punti di vanto per l’intraprendenza del suo governo. Peccato che l’opera sia stata realizzata in Svizzera, ben al di fuori dei confini italiani. Mi sa che quando inaugureranno il tunnel, il gira la ruota, dovrà portarsi il passaporto. Evidentemente l’insigne premier ancora non ci ha raccontato di quando ha separato le acque del Mar Rosso per salvare gli schiavi, oppure quando inaugurerà il Canale di Panama e infine quando ha deviato la pallottola che mirava a Papa Wojtyla. Ma il suo Ministro dei Trasporti ha fatto finta di niente o hanno avuto la stessa insegnante di Geografia della Gelmini? La Geografia cambia verso e immaginiamoci quando parlerà del Ponte sullo Stretto! Lo collegherà direttamente al Marocco. Ma le sue gaffe sono all’ordine del giorno, tanto che mi chiedo se un giorno mi apparirà davanti all’entrata di Scuola un grande cartello con scritto :”Benvenuto sei stata su Scherzi a parte”. Ricordiamo con piacere che il padre della Buona Scuola, colui che con la riforma della scuola ha minato le basi dei principi fondamentali della conoscenza e del sapere, sottoponendo gli insegnanti ad una rivoltante logica aziendalistica, lobbistica, distante anni luce dalle idee innovatrici e progressiste dei Padri Costituenti, non è nuovo a frasi dissacratorie intrise di un’ignoranza di base degne di quello che propaganda. Ricordiamo onore all’Iran” davanti al primo Ministro dell’Iraq, cultura umanista, l’Eni è un pezzo fondamentale dei nostri servizi segreti, frase vagamente freudiana pensandola il giorno prima del referendum. Republica con una b e non dimentichiamoci che incontrando Netanyahu, allude alla bellezza del Devid di Maichelangelo e poi, fuori onda, si dilunga sul fascino della Joconda di Leonardo do Nascimento de Araujo. Non dimenticheremo mai i famosi termini: “Shish”, “Bikosa”,“Destracciar”,“Ukrai” in un monologo stupefacente in inglese. Non lo dimenticheremo mai. E vi ricordate quando diceva education, education, education, rivolto alla Giannini e proclamandola docente d’inglese? Da qui si poteva capire come sceglieva i suoi Ministri. Dal voto che potevano dargli, questa è la sua fantastica Italia. Vedi caro illuminatissimo Capo del Governo che succede con i tagli alla cultura? Che si diventa umanisti, si invita a non votare al referendum, si parlano le lingue come si rispetta la Costituzione e si fanno viaggiare i neutrini nel tunnel del Gottardo. Alla luce di tutto ciò, cari insegnanti vicini e lontani, domani andiamo a votare e facciamoci riconoscere come cittadini coscienti che vogliono e devono compiere un gesto democratico perché l’unico pericolo sociale vero è l’ignoranza. E noi ne siamo immuni.

domenica 17 aprile 2016

Giovani delusi: vogliono lavorare e avere figli, pronti a lasciare l'Italia

Hanno voglia di fare, sono disponibili a trasferirsi in altri Paesi, si considerano abbastanza felici nonostante l'Italia li deluda. È questa la fotografia dei giovani italiani scattata dal Rapporto 2016 dell'Istituto Toniolo, presentato oggi a Milano. Basato su un campione di 9 mila giovani tra i 18 e i 32 anni, indaga la loro condizione e le loro aspettative. Tre su quattro ritengono che nel Belpaese le opportunità offerte siano inferiori rispetto alla media degli altri paesi sviluppati. Tanto che il 61,1% si dichiara disponibile a trasferirsi stabilmente per lavoro all'estero. I coetanei europei non hanno la stessa propensione: tra i giovani tedeschi sono appena il 32,9%, tra francesi e inglesi il 41% e tra gli spagnoli il 45%.
Nell'indagine c'è anche una domanda netta e per certi versi spiazzante. Sei felice? Tra chi studia o lavora, quelli che si ritengono abbastanza felici si aggirano intorno al 60%. Percentuale che scende al 49,2% tra i Neet, ossia coloro che non frequentano corsi di studio e non cercano un'occupazione. “Essere felici nella fase giovanile -afferma Alessandro Rosina, tra i curatori della ricerca- risulta sempre meno una condizione dell’essere spensierati e sempre più legata al fare, alla possibilità di mettersi alla prova con successo in un contesto che incoraggia ad essere attivi nel migliorare il proprio futuro".
Il 55% degli intervistati considera la capacità di adattarsi l’elemento più utile per trovare lavoro, seguito dalla solida formazione di competenze avanzate (20,1%) e solo al terzo posto il titolo di studio (15,1%). Il 91% degli intervistati concorda (molto o abbastanza) nel ritenere il lavoro come uno strumento diretto a procurare reddito. Cruciale inoltre per affrontare il futuro (88%) e per costruirsi una vita familiare (87,5%). Un po’ più bassa la quota di chi lo considera come una modalità di autorealizzazione (85%).
I giovani italiani vorrebbero avere figli, ma tutto dipende dall'avere o meno un lavoro. Il numero di figli idealmente desiderato supera mediamente i due, ma concretamente sono disponibili a metterne al mondo 1,5, un dato che comunque è vicino alla media europea. "Il lavoro è sempre più considerato, materialmente e psicologicamente, un asse portante irrinunciabile attorno al quale poter costruire progettualmente la propria vita" si legge nel Rapporto. Fondamentale è poi l'aiuto che ricevono dalle famiglie, che hanno anche voce in capitolo sulle scelte scolastiche e di vita, più di quanto non capiti ai coetanei europei. (dp)

venerdì 15 aprile 2016

Stop agli animali nei circhi: il disegno di legge del governo italiano. Una vittoria importante

Stop agli animali nei circhi: finalmente il governo, nel nuovo codice degli spettacoli, ne prevede la “graduale dismissione”. Niente più elefanti, giraffe, scimmie, tigri e leoni a intrattenere gli spettatori con esibizioni dietro le quali si cela spesso un vero e proprio sfruttamento degli animali sottoposti a violente costrizioni fisiche e psichiche.
ITALIANI CONTRARI A CIRCO CON ANIMALI -
Una vittoria importante per le associazioni animaliste che, da sempre, si battono per l’eliminazione degli animali dai circhi e un modo per l’arte circense di ritornare ad essere apprezzata dalla totalità dell’opinione pubblica. Ricordiamo che, come rileva l’Eurispes, il 71,4 per cento degli italiani è contrario all’utilizzo degli animali nei circhi.
Spazio quindi a un circo in grado di intrattenere attraverso le straordinarie doti di artisti, acrobati, pagliacci.
IL DISEGNO DI LEGGE CONTRO L’USO DEGLI ANIMALI NEI CIRCHI -
Un impegno importante quello del governo, concretizzato in un disegno di legge depositato in Parlamento, anche se per arrivare ad una soluzione definitiva bisognerà ancora attendere almeno un paio d’anni. Un passo importante già compiuto dalla Catalogna invece, dove sono già state vietate le corride e dove nel 2017 scatterà il divieto di utilizzo degli animali per le esibizioni circensi. E oltre alla Catalogna, hanno già introdotto divieti vari di utilizzo degli animali nei circhi anche l’Olanda, la Grecia, il Belgio, Austria, Norvegia, Malta, Cipro e anche il Messico.

giovedì 14 aprile 2016

La patologia del «sistema» Italia

La corruzione non è un dato esclusivo dell'Italia, ma «l’etica pubblica ha conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale. Il manifesto, 12 aprile 2016
Ho letto le osservazioni critiche di Alfio Mastropaolo riguardanti un mio articolo sulla corruzione e su esse, per motivi di chiarezza, vorrei rapidamente tornare.
Non ho sostenuto che l’Italia sia un caso «unico», quasi che altrove la corruzione fosse sconosciuta. Ho cercato di segnalare, anche con qualche rinvio a fatti accaduti in paesi a noi comparabili, come l’etica pubblica abbia conosciuto dalle nostre parti un degrado che ha infettato il funzionamento dell’intero sistema, diventandone un dato strutturale.
Oltre a molti libri «di battaglia», esiste da tempo una buona letteratura che, sia pure con accenti diversi, dà solide basi a questa constatazione, fornendo elementi precisi per spiegare una persistenza e una continuità nel tempo, incarnate talora addirittura dalle medesime persone, che hanno prodotto una proterva «controetica», esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari (con quelle che sono state chiamate assoluzioni «sociologiche» dei corrotti).
Sono stati così generati non solo comportamenti amministrativi sempre più diffusi e addirittura interventi legislativi, ma un vero e proprio «indirizzo politico», che viene rivelato dalla continua cascata di documenti ufficiali che quantificano non solo singoli casi di corruzione, ma la corruzione strutturale di interi «comparti», dagli appalti pubblici alla sanità.
Tutto questo non ha corrispondenza in Francia, Germania, Regno Unito e in altri paesi che ci precedono nella graduatoria di Transparency International, che non sopravvaluto (non l’ho citata), ma che ha sicuramente qualche significato informativo.
Certo, tutto questo rimanda alle ragioni sociali del fenomeno, ha uno sfondo e un denominatore comuni da ritrovare nella esasperazione della logica del profitto e di una finanziarizzazione che davvero ha fatto del denaro la misura di tutte le cose. Ma, come si diceva un tempo, fatta questa constatazione occorre una «analisi differenziata». E questa ci farebbe scoprire, senza troppa fatica, che proprio i «riti di espiazione», ai quali Mastropaolo rimanda, rivelano situazioni assai diverse a seconda che riguardino casi individuali o interi ceti o strutture.
Non è che l’Italia li celebri in modo più vistoso. E’ proprio la loro dimensione sociale a rivelare una qualità assai diversa del fenomeno, dalla quale non si può prescindere se si vuole avviare una efficace strategia di contrasto.
Accentuando, per visibili ragioni polemiche, la portata della corruzione italiana, intendevo mettere l’accento su patologie istituzionali, non certificare la scomparsa delle persone oneste, o la totale perdita del senso dello Stato (anche se poi, quando si vuole ritrovarlo nelle istituzioni si finisce troppo spesso nel citare la Banca d’Italia). Non caso prendevo le mosse dalla «controsocietà degli onesti» di Italo Calvino.
Aggiungo che le concrete proposte di Mastropaolo sono tutte condivisibili, e su tutte in vari tempi mi sono espresso o direttamente impegnato. Non hanno dato finora frutti. E questo vuol dire che bisogna lavorare per una cultura che rimuova questo ostacolo.
Il terreno è quello dell’etica civile. Se poi questo produce l’accusa di moralismo, che sia benvenuta.

mercoledì 13 aprile 2016

Il Dna “supereroe” che annulla le malattie genetiche

Lo studio “Analysis of 589,306 genomes identifies individuals resilient to severe Mendelian childhood diseases. Nature Biotechnology”, pubblicato su Nature Biotechnology da un team della Icahn School of Medicine del Mount Sinai-New York, 23andMe, Sage Bionetworks, Ontario Institute for Cancer Research e da altre istituzioni scientifica, fa parte di una grande collaborazione globale per studiare il genoma umano, ma gli scienziati statunitensi hanno effettuato la prima ricerca sistematica su centinaia di disturbi mendeliani in centinaia di migliaia di individui apparentemente non affetti da alcuna di questi disturbi, per identificare i fattori protettivi. I ricercatori della Icahn School of Medicine spiegano che «Questo studio retrospettivo di oltre 589.000 genomi è stato un primo passo per il Resilience Project», avviato nel 2014 da Stephen Friend ed Eric Schadt che pensano che studiando un gran numero di adulti sani, gli scienziati potrebbero trovare rari individui che sono influenzato da varianti genetiche che dovrebbero indurre la malattia ma che non l’hanno sviluppata. L’analisi del genoma di queste persone resilienti potrebbe far scoprire i meccanismi naturali di protezione che potrebbero servire a realizzare trattamenti innovativi per le persone colpite da queste malattie.
Eric Schadt, che insegna genomica alla Mount Sinai e direttore dell’Icahn Institute for Genomics and Multiscale Biology, sottolinea che «La maggior parte studi di genomica si concentrano sulla ricerca della causa di una malattia, ma vediamo enormi opportunità nel capire che cosa mantiene la gente in buona salute. Milioni di anni di evoluzione hanno prodotto meccanismi di protezione molto più numerosi di quello che attualmente comprendiamo, che caratterizzano la complessità dei nostri genomi, in ultima analisi rivelano gli elementi che potrebbero promuovere la salute in modi che non abbiamo nemmeno immaginato». Nello studio, i ricercatori hanno analizzato il DNA di 12 data sets raccolti in precedenza, utilizzando un targeted sequencing panel di nuova concezione per lo screening di 874 geni per 584 diverse malattie genetiche distinte. Malattie che sono per lo più metaboliche, neurologiche o disturbi dello sviluppo, presenti durante l’infanzia con sintomi gravi. Tutti i genomi analizzati provengono da adulti ai quali non sono mai state diagnosticate queste malattie. Un sofisticato ed approfondito processo di analisi ha identificato 13 persone sane con varianti genetiche associate ad 8 malattie e che quindi sono in possesso di quello che James Gallagher definisce “DNA supereroe” su BBC News. Le 13 persone sane trovate dallo studio dovrebbero infatti aver sviluppato una delle 8 malattie genetiche gravi: fibrosi cistica, sindrome di Smith-Lemli-Opitz, disautonomia familiare, epidermolisi bollosa, sindrome di Pfeiffer, poliendocrinopatia autoimmune, sindromi acampomelica ecamptomelica e atelosteogenesi.
Secondo Anne Wojcicki, amministratore delegato di 23andMe, «Questo studio dimostra il potere di poter utilizzare Big Data per porre nuove domande biologiche. Più di 400.000 clienti 23andMe hanno contribuito a questo sforzo, il che mostra che i consumatori impegnati sono in grado di avere un impatto reale sulla ricerca scientifica».
Per ottenere il piccolo gruppo di persone potenzialmente resilienti da un elenco originale di circa 16.000 candidati, i ricercatori hanno dovuto affrontare due sfide significative: oltre il 75% dei candidati sono stati eliminati per la carenza dei dati esistenti, evidenziando la necessità di protocolli e standard per una migliore interpretazione dei dati genetici; a causa delle limitazioni delle politiche di consenso informato degli studi originali, nessuno dei 13 candidati finali può essere contattato per ulteriori domande e quindi, senza altre informazioni, sarà impossibile determinare se queste persone sono veramente resilienti alle malattie.
Stephen Friend, presidente di Sage Bionetworks, professore di genomica all’Icahn School of Medicine e co-fondatore del Resilience Project, «Qui abbiamo una lezione importante sul genoma per gli scienziati di tutto il mondo: il valore di ogni progetto diventa esponenzialmente maggiore quando le politiche di consenso informato permettono ad altri scienziati di raggiungere i partecipanti allo studio originale. Se riuscissimo a contattare queste 13 persone, potremmo essere ancora più vicini a trovare protezioni naturali contro le malattie. Prevediamo di lanciare in futuro uno studio prospettico che includerà una politica di consenso utile più generale».
Eric Topol, direttore dello Scripps Translational Science Institute e chief academic officer di Scripps Health, che non ha partecipato allo studio, apprezza l’approccio innovativo: «Mentre la maggior parte della ricerca genomica in medicina si era concentrata sulla malattia, questo importante lavoro esemplifica il vantaggio di studiare la salute e la resilienza – il contrario della malattia – per capire il meccanismo per la protezione in individui con sequenze di varianti patogene»
Il team di ricercatori si propone di realizzare un nuovo studio patendo da zero e nel quale i pazienti possono essere rintracciati e sostiene che grazie a questo approccio potrebbero essere trovate altre forme di protezione da malattie come la demenza.

martedì 12 aprile 2016

La rivoluzione al tempo del Jobs Act

Quel che traspare dagli ultimi dati, a meno che nel frattempo non vengano cambiati o rimossi, è che la disoccupazione sia risalita al 11.7%. Un numero prevedibile anche quando il Governo distribuiva le magie illusorie del Jobs Act: la crescita dei posti di lavoro si é infatti registrata per le persone dai 50 anni in su e sono, rispettivamente, le fascie dei più giovani quelle maggiormente ingessate e di chi é “nella seconda età” ad essere esposte in termini di minori occupati. Questo già di per sé non abbassa, ma anzi ripropone il conflitto intergenerazionale. I segnali positivi del contratto “a tutele crescenti” che potremmo anche ridenominare “contratto determinato allungato” derivavano dagli sgravi fiscali, mentre adesso l’esonero- finanziato dai contribuenti- é più basso e l’illusione viene meno
Ci sarebbe tra le proposte al vaglio dell’esecutivo l’idea di sbloccare la flessibilità attraverso i contratti di lavoro decentralizzati, sul modello Marchionne, legati interamente alla produttività. Peraltro si può ricavare una scelta orientata in questa direzione già nella legge di stabilità 2015. L’elogio in questi giorni da parte del Presidente del Consiglio nei confronti dell’Ad di Fiat Chrysler sottende proprio questo asso nella manica da parte del Premier: uscire da un’organizzazione verticistica e nazionale del mercato del lavoro. In questa sede, non si contesta la scelta di per sé, da un punto di vista microeconomico può anche avere una sua efficacia e non si nega che il sistema corporativo, familistico, generatore di una democrazia più consociativa che liberale, sposi l’interesse dei grandi gruppi sindacali, da Confindustria alla Cgil. Il continuo interscambio di casacche, la predisposizione al trasformismo non sembrano modelli di democrazia alla quale aderire. Perché gli effetti collaterali che sono scaturiti da questa struttura pianificata non sono positivi: distribuzione anziché allocazione delle risorse, sacche di voto da conquistare attraverso mance che potremmo definire “politicamente interessanti” e via dicendo. Sullo sfondo di tutto ciò la poca trasparenza di lobby che anche dalle ultime vicende non sono regolamentate e che beneficiano di emendamenti-canaglia da parte dei governi
Ma non sarà la riconversione organizzativa a spostare definitivamente il pendolo del ciclo economico di questo paese. A meno che qualche economista non inizi a tirare fuori le famose riforme Hartz, promulgate dal socialdemocratico Schroeder in Germania. Per chiarirsi: quello è in definitiva il modello verso cui l’Europa e l’Italia di Renzi stanno andando. Le riforme Hartz sono il classico argomento di chi guarda il dito e non la luna. E la luna nel caso tedesco sono i suoi mercati di sbocco che si sono avviati con l’allargamento europeo nei mercati dell’est, tra il 2004 e il 2007.
Guardando al non poco rilevante interesse nazionale, chi scrive non ha nulla contro l’egemonia mercantilistica. Basta chiamare le cose con il loro nome. L’Italia ha dei problemi da un ventennio in termini di produttività, ma per recuperare l’efficenza interna le riforme strutturali non sono sufficienti e l’obiettivo caso mai è quello di implementarle in un contesto di mutata politica economica (logica assicurativa). Da concretizzare, quindi, con un combinato disposto di politiche espansive che rimettano in moto l’economia del paese: investimenti, politica industriale – e il piano del Premier sulla banda ultra-larga se portato a termine va in questa direzione- e anche con una politica del cambio rivedibile, in modo tale che sia possibile riassorbire lo svantaggio di competitività: l’una manovra non esclude l’altra. Sbilanciare del tutto un sistema economico che non ha gli stessi interessi e gli stessi target del mercantilismo nordico sulla dipendenza dei mercati esteri e quindi sulle esportazioni, ha gli stessi rischi sistemici di chi per anni ha pensato di poter imbarcare acqua ad interim- e soprattutto di averla bevuta quell’acqua anziché utilizzarla per irrigare nuovi campi.

lunedì 11 aprile 2016

Il “suicidio per negazione della realtà” dell’UE

Ciò che doveva accadere è accaduto. L’UE, essendo una catena di anelli deboli, infine ha ceduto e gli olandesi sono i primi a votare contro l’associazione con l’Ucraina. Naturalmente, gli euroburocrati troveranno qualche scusa per dichiarare il voto non valido, si può affermare che una legge è stata violata, si può anche negoziare qualche piccola modifica sull’accordo di associazione, o si potrebbe anche decidere semplicemente d’ignorare questa votazione. Ma niente di tutto ciò farà alcuna differenza: la verità innegabile è che gli ucraini non sono graditi nell’Unione europea, non come soci e tanto meno come membri. Quindi né UE, né NATO, né “futuro europeo” per l’Ucraina. Il pallone che alimentava le speranze ingenue e brutte di euromaidan è scoppiato e il piano euro-ucraino cade e brucia come l’Hindenburg. Tale disastro non doveva accadere, è del tutto artificiale. In un mondo più sano Unione europea, Russia e Ucraina avrebbero negoziato un accordo tripartito che avrebbe dato all’Ucraina il ruolo che geografia e storia gli hanno dato: essere il ponte tra Russia ed UE. Ma l’UE ha respinto categoricamente questa opzione più volte, semplicemente dichiarando che “l’Ucraina è uno Stato sovrano e la Russia non ha alcuna voce sulla questione ucraina“. Questo gioco a somma zero è stato imposto alla Russia, ma ora è l’Unione europea che vi perde tutto, anche se non è affatto una vittoria per la Russia. La triste realtà è che tutti perdono. Ora l’UE deve accettare la sconfitta totale della sua politica ucraina, e la Russia deve solo guardare morire lo Stato fallito al confine, mentre l’Ucraina semplicemente va a pezzi con una morte dolorosa. Gli euroburoucrati l’accetteranno? Probabilmente no. Faranno ciò che hanno sempre fatto, negheranno minimizzeranno e, peggio, faranno finta che non sia successo nulla. Diranno che il 60% del 30% di una piccola nazione europea non decide per l’intero continente. O dichiareranno che, invece della vecchia “associazione” l’UE offrirà all’Ucraina di meglio, un'”amicizia sincera” forse, o l'”amore eterno”, o anche una “fratellanza continentale”. Ma sarà tutto inutile, perché i cittadini europei sono chiaramente stanchi degli ukronazi, come anche i loro “amici” polacchi che valutano la costruzione di un muro per mantenere i loro “amici ucraini” lontani dalla Polonia; un sentito amore!
Prima conseguenza: costi finanziari
630_360_1453715758-2730-krym Ma è troppo tardi per gli europei. La vera cattiva notizia è che dovranno pagare la maggior parte dei costi della più o meno ricostruzione dell’Ucraina. La Russia semplicemente non può farlo. La sua economia è troppo piccola ed è già alle prese con il tentativo di ristabilire l’ordine in Crimea (che si rivela molto difficile, con la mafia locale che cerca di tornare ad agire quando operava sotto il controllo ucraino). Inoltre, la Russia dovrà badare al Donbas, com’è abbastanza evidente. Così la Russia è indaffarata. Gli Stati Uniti potrebbero pagare, ma non lo faranno. Anche se Hillary sarà eletta (nominata dallo ‘Stato profondo’ degli Stati Uniti’), l’enorme programma di salvataggio economico dell’Ucraina non passerebbe mai al Congresso, non quando gli Stati Uniti stessi hanno bisogno di un programma simile per ricostruire le proprie decrepite e trascurate infrastrutture ed economia. Ma soprattutto la Russia ha i mezzi per chiudere i confini. La nuova Guardia Nazionale russa assumerà le responsabilità di vari ministeri e agenzie, come il Servizio federale della migrazione. La Russia ha già un molto efficiente Corpo delle guardie di confine subordinato al Servizio di Sicurezza Federale (ex-KGB). Si stima che la Guardia di frontiera abbia attualmente 10 sedi regionali, 80 unità di confine, 950 avamposti e oltre 400 posti di blocco. Ogni giorno il servizio effettua 11000 pattuglie. In totale, il compito di protezione delle frontiere della Federazione russa è svolto da circa 200000 guardie di frontiera. Questo corpo ha propria aviazione, marina costiera, UAV, intelligence, unità blindate e persino Spetsnaz. La realtà è che la Guardia di frontiera russa è più potente della maggior parte degli eserciti europei. E ora avrà il pieno sostegno della Guardia Nazionale. Non ci si sbagli, la Russia può, e se necessario, bloccherà e proteggerà i propri confini. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, hanno la migliore protezione delle frontiere del pianeta: gli oceani Atlantico e Pacifico. Così, quando l’Ucraina diverrà un buco nero (il processo è a buon punto) gli unici che non potranno proteggersi, ma che possono spendere per risolvere tale pasticcio, saranno gli europei. Sì, certo, Stati Uniti e Russia aiuteranno, lo faranno per motivi diversi. Ma la maggior parte dei costi ricadrà direttamente sul contribuente europeo. Questo è il prezzo che l’UE dovrà pagare, prima o poi, per la propria arroganza ed incompetenza.
Seconda conseguenza: la sicurezza
3IRVM Ci sarà anche un altro prezzo da pagare, questa volta il costo della sicurezza. La NATO minaccia guerra al confine con la Russia, infine svegliando l'”orso russo”. Non solo la Russia ora schiera i formidabili missili Iskander a Kaliningrad, ma ha raddoppiato le dimensioni delle già formidabili forze aviotrasportate. Ecco cosa scrissi nel dicembre 2014: “I russi non hanno paura della minaccia militare rappresentata dalla NATO. La loro reazione alle ultime mosse della NATO (nuove basi ed effettivi in Europa centrale, altri stanziamenti, ecc.) viene denunciata come provocatoria, ma i funzionari russi insistono sul fatto che la Russia può gestire tale minaccia militare. Come un deputato russo ha detto, “5 gruppi di reazione rapida sono un problema che possiamo risolvere con un missile”. Una formula semplice ma fondamentalmente corretta. Come ho già detto, la decisione di raddoppiare le dimensioni delle forze aviotrasportate russe e di aggiornare l’elitario 45.mo Reggimento Aeroportato Speciale a Brigata era già stata presa comunque. Si potrebbe dire che la Russia ha anticipato la creazione della forza NATO di 10000 uomini portando le proprie forze aeroportate da 36000 a 72000 effettivi. E’ tipico di Putin, mentre la NATO annuncia con fanfare e fuochi d’artificio che la NATO creerà una speciale forza “punta di diamante” di reazione rapida di 10000 uomini, Putin raddoppia rapidamente le dimensioni delle Forze aviotrasportate russe a 72000 effettivi. E, mi si creda, i veterani delle forze aviotrasportate russe sono una forza di combattimento molto più efficiente dell’edonistica e demotivata multi-nazionale (28 Paesi) Euroforza di 5000 elementi che la NATO si arrabatta a mettere insieme. I comandanti degli USA lo sanno bene“. Ma la Russia non ha fatto solo questo. Putin ha ordinato la ricreazione della minaccia corazzata russa della fine della Guerra Fredda: la Prima Armata Corazzata della Guardia formata da 2 divisioni corazzate (le migliori russe, la 2.da Divisione Fucilieri motorizzati della Guardia Tamanskaja e la 4.ta Divisione corazzata della Guardia Kantemirovskaja), con oltre 500 carri armati T-14 Armata. Quest’Armata corazzata sarà supportata dalla 20.ma Armata Combinata della Guardia. Non ci si sbagli, è una forza enorme e potente il cui scopo è molto simile alle famose Armate d’assalto sovietiche della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda: “spezzare le più ostiche linee difensive penetrando tatticamente con ampiezza e profondità sufficiente a consentire l’impiego di formazioni mobili per sfruttare lo sfondamento“.
Brava Europa, ti sei tracciata una croce gigantesca sulla fronte!
9E6VzbTPochissimo di tutto ciò viene riportato dai media occidentali, naturalmente, e così il pubblico in generale non sa che mentre la NATO e i politici occidentali fingevano di fare i duri cercando di spaventare la Russia, i russi hanno deciso di prendere sul serio tali minacce adottando passi pratici. Per qualcuno come me che ha vissuto la Guerra fredda e seguiva le forze sovietiche in Germania orientale, è doloroso e nauseante vedere come l’occidente abbia letteralmente costretto la Russia alla nuova guerra fredda, né voluta né necessaria. Naturalmente, sono assolutamente sicuro che non vi sia alcuna “minaccia russa” in Oriente, e l’unico modo per avere tale potenza militare è attaccare per primi, ma la triste realtà è che i Paesi UE/NATO sono ora direttamente nel mirino delle Forze russe. Aggravando il tutto vi è ora la forte possibilità che Hillary e la sua banda di neocon occupi presto la Casa Bianca. Dio solo sa di cosa costoro siano capaci. Hillary, i cui unici “successi” nella vita sembrano avere spinto Bill a bombardare i serbi e aver infognato la Libia, dovrà dimostrare che lei vale più di un uomo come Putin. Cercherà di spaventare e fare la prepotente per sottometterlo, ma il popolo russo, che non dimentica, vede l’occidente come una degenerata ed arrogante società, con Conchita Wurst come polena, semplicemente incapace di combattere un vero scontro, scegliendo solo i deboli. Non è la paura che i neocon ispirano ai russi, ma il disgusto. Al massimo, possono suscitare preoccupazione per l’arroganza apparentemente infinita e un’autolesionistica mancanza di lungimiranza. Come ho già scritto molte volte, i russi temono la guerra, non c’è che dire, ma a differenza degli anglosionisti, ne sono comunque pronti. Gli europei ora lentamente arrivano a capire che affrontano una lunga e molto dolorosa guerra contro il terrorismo wahabita. Gli attentati di Parigi e Bruxelles sono solo l’avvio di una guerra che durerà molti anni. Ci sono voluti più di dieci anni alla Russia per schiacciare definitivamente i terroristi wahhabiti nel Caucaso, e con un uomo come Vladimir Putin alla guida del Paese. Si guardino François Hollande e Angela Merkel e si capirà nel profondo come tali tristi pagliacci non combineranno nulla. Basta paragonare la reazione di Vladimir Putin all’abbattimento dell’aereo della compagnia aerea russa nel Sinai coi singhiozzi di Federica Mogherini dopo gli attentati a Bruxelles. Ora immaginatevi a capo dei terroristi wahabiti, e aggiungerei sessisti da una vita, e guardate la foto sotto. Influenzerebbe la scelta degli obiettivi? Ovvio. Lo stesso vale confrontando le operazioni USA/NATO in Siria con il risultato in poco meno di sei mesi delle Forze Aerospaziali russe. Gli Stati, proprio come le persone, hanno un proprio “linguaggio del corpo” e mentre il linguaggio del corpo della Russia dimostra un potere fiducioso e formidabile, il linguaggio del corpo dell’UE e, in misura minore degli Stati Uniti, mostra debolezza, arroganza e incompetenza, spesso confinante con il suicidio (come la politica di Merkel sull’immigrazione).
La linea di fondo
La linea di fondo di tale pasticcio è questa: ciò che Stati Uniti ed Unione europea hanno fatto in Ucraina (e altrove) è incredibilmente stupido. Ma gli Stati Uniti possono permettersi tali errori, mentre l’UE chiaramente no. Quanto alla Russia, sì sicuramente è ferita da tali politiche, ma il dolore è volto dal Cremlino a rafforzare la Russia su molti livelli, politici, militari e anche economici, anche se qui i progressi sono stati minimi e la 5.ta colonna è ancora molto forte, anche se sono fiducioso su una purga tanto necessaria. Ciò che l’Unione europea ha fatto è essenzialmente una “suicida negazione della realtà”. Ciò che seguirà dovrebbe essere un cambio di regime, non di un solo Paese, ma dell’intero continente. Credo che tale cambio di regime sia inevitabile, ma la grande domanda è per quanto durerà tale lenta e dolorosa agonia dell’UE? Ahimè, potrebbe richiedere molti anni, credo. I capi dell’UE non chiederanno elegantemente scusa dimettendosi, è una classe di soli parassiti che vive nelle strutture dell’UE e che disperatamente resiste a eventuali riforme significative, senza badare a un cambio di regime, perché sempre metteranno i loro gretti interessi da classe compradora al di sopra dei popoli o dell’ovvietà. I cittadini dell’Unione scopriranno che non hanno modo d’imporre un cambio politico con la scheda elettorale, che vivono in una finta democrazia e che tutto ciò che gli è stato promesso è solo una vuota e brutta menzogna. L’Ucraina non è diventata Europa, ma l’Europa è diventata Ucraina.
Benvenuta nel mondo reale, UE!

domenica 10 aprile 2016

Così vanno avanti le intimidazioni ai No Tav

Ci sono fatti, pur all'apparenza minori, che consentono di cogliere in modo plastico il senso di alcune vicende giudiziarie. Sono accaduti di nuovo, nei giorni scorsi, in Val Susa (sempre più cartina di tornasole delle peggiori derive istituzionali). Non si è trattato, questa volta, di contestazioni, tanto drammatiche quanto fantasiose, di terrorismo e neppure del tentativo di ridurre al silenzio voci fuori dal coro. Si è trattato «soltanto» di una, a dir poco anomala, applicazione di arresti domiciliari e di obblighi di presentazione a otto attivisti No Tav imputati di resistenza a pubblico ufficiale per un episodio non dissimile, quanto a rilevanza penale, da un banale diverbio stradale.
Nei giorni scorsi il Tribunale del riesame, revocando tutti gli arresti domiciliari e alcuni obblighi di firma, ha, ancora una volta, ridimensionato l'impostazione della procura torinese (che avrebbe voluto addirittura gli imputati in carcere) ma ciò non toglie, anzi sottolinea ulteriormente, la gravità e il segno dell'operazione.
I fatti, dunque, come descritti nell'ordinanza cautelare. Il 17 settembre 2015 un'autopattuglia del carabinieri di Susa ferma un furgone con a bordo due attivisti No Tav che rientrano da una «estemporanea iniziativa di contestazione svoltasi al cantiere di Chiomonte». Il conducente del furgone, pur noto ai carabinieri operanti, esibisce carta di identità e documenti di circolazione del mezzo mentre il passeggero rifiuta di declinare le generalità. Durante il controllo sopraggiunge un'auto con quattro attivisti che ingaggiano un'accesa discussione con i carabinieri nel corso della quale uno dei presenti afferra per un braccio e strattona il maresciallo dell'autopattuglia. Nulla di più e nulla di meno.
Sei mesi dopo, le misure cautelari. Eseguite in modo spettacolare e con il corredo di perquisizioni domiciliari e personali a raffica. Si legge in uno dei decreti autorizzativi che le perquisizioni, finalizzate alla ricerca di «materiali e documentazione anche su supporto informatico inerenti i fatti per cui si procede», non devono riguardare solo gli imputati ma «qualunque altro soggetto anche solo temporaneamente presente nei luoghi perquisendi» e possono avvenire anche in ora notturna («stanti le ragioni di urgenza dovute al pericolo che si disperdano ovvero deteriorino in tutto o in parte le prove e tracce relative ai reati contestati»).
C'è da non crederci. La discussione tra attivisti e carabinieri era incontestata e descritta da subito sui siti del movimento, il fatto era di evidente modestia, i partecipanti erano tutti valligiani conosciuti dai carabinieri e da essi identificati (come precisato nell'annotazione di polizia giudiziaria), cinque di loro erano incensurati. C'erano dunque, a tutto concedere, le condizioni per un ordinario processo a piede libero in cui discutere di molte cose: delle reali modalità del fatto, delle responsabilità dei singoli (posto che alcuni degli imputati non risultano neppure essere intervenuti nella discussione), di eventuali reazioni ad atti arbitrari dei pubblici ufficiali (alcuni dei quali usi rimpiangere i metodi del fascismo) e via elencando.
Perché, dunque, le misure cautelari? E perché le perquisizioni, all'evidenza inutili ai fini dichiarati (per la natura del fatto contestato e per il tempo da esso trascorso)? E ancora: perché perquisire le persone temporaneamente (e magari casualmente) presenti nei luoghi in cui si trovavano gli imputati? Perché costringere a denudarsi, con l'accompagnamento di commenti volgari e umilianti, tutte le donne presenti? Quali materiali inerenti un episodio di resistenza potevano trovarsi nei computer o nei telefoni sequestrati a persone non gravate da alcun indizio di partecipazione al reato? Perché sequestrare (come puntualmente accaduto) oggetti del tutto privi di significato con riferimento alla resistenza? Quali ragioni di urgenza imponevano, sei mesi dopo i fatti, di procedere in tempo di notte?
La risposta è tanto semplice quanto preoccupante. Per anni magistrati autorevoli e meno autorevoli – supportati da schiere di giornalisti e commentatori – hanno gridato ai quattro venti che gli interventi repressivi disposti non riguardavano il movimento No Tav ma solo reati specifici commessi da frange estremiste e violente, per lo più estranee alla Val Susa. Così cercando di dividere e di isolare. Ora anche la maschera è caduta. I destinatari delle misure cautelari sono stati vecchi e giovani valligiani imputati per fatti che in ogni altra parte d'Italia avrebbero meritato, al massimo, un dibattimento di routine al di fuori da ogni «corsia preferenziale». E le perquisizioni effettuate, nella loro inutilità e improprietà, evocano un intento persecutorio e intimidatorio e una prassi di indagine senza limiti alla ricerca di non si sa che cosa. Bersaglio dell'intervento repressivo è sempre più chiaramente, in altri termini, il movimento no Tav in quanto tale (e, dunque, l'attività di opposizione da esso svolta).
A conferma - se ce ne fosse bisogno - di quanto accertato dal Tribunale permanente dei popoli nella sentenza 8 novembre 2015 nella quale si segnalano, in Val Susa, «risposte istituzionali che spesso hanno superato la soglia fisiologica del mantenimento dell'ordine democratico e dell'equilibrato perseguimento dei reati, inducendo - per le loro modalità, distorsioni o eccessi - significative violazioni di diritti costituzionalmente garantiti». È un segnale da non sottovalutare, non solo per la Val Susa.

sabato 9 aprile 2016

New York, la resa dei conti

A poco più di una settimana dal voto del 19 aprile che coinvolgerà i contendenti alle nomination presidenziale dei due principali partiti statunitensi nello Stato di New York, l’attesa è già alle stelle. Per la prima volta dopo numerose tornate, la strada per Washington passerà obbligatoriamente per la Grande Mela, a causa del ruolo capitale che giocherà lo Stato in cui si trova la principale città degli USA nel decidere le condizioni con cui il Partito Democratico e il Partito Repubblicano arriveranno alle loro convention estive, nelle quali dovranno ufficializzare i candidati per le elezioni di novembre, tra i quali numerosi esponenti sono proprio strettamente legati alla città di New York. Di quest’ultima sono infatti nativi i due personaggi politici che maggiormente hanno fatto parlare di sé, sebbene per ragioni tra loro completamente antitetiche, nei primi mesi delle primarie, ovverosia il democratico Bernie Sanders e il repubblicano Donald Trump, mentre Hillary Clinton ha rappresentato lo Stato come senatrice tra il 2001 e il 2009. È dal 1945, anno della morte di Franklin Delano Roosevelt, che lo Stato di New York non risultava tanto coinvolto nella campagna per l’elezione dell’inquilino della Casa Bianca, e da ciò ne consegue un ulteriore incremento di significatività per l’imminente voto delle primarie. Il posizionamento tradizionale del caucus newyorkese lo ha reso, in numerosi casi, ininfluente ai fini del risultato finale della contesa interpartitica. In questo frangente, al contrario, esso potrà fornire indicazioni preziose tanto per comprendere i nomi degli sfidanti di novembre quanto per analizzare la distribuzione dei rapporti di forza tra le diverse correnti e le varie formazioni.
Sul fronte democratico bisognerà tastare l’effettivo impatto dello slancio che in queste ultime settimane ha caratterizzato l’arzillo Bernie Sanders, uscito vincitore in ben sei tornate su sette a partire dal 22 marzo, e la tenuta del candidato maggiormente progressista della corsa presidenziale dinnanzi all’elettorato liberal dello Stato di New York, tradizionale roccaforte dei Clinton il cui elettorato è composto in misura considerevole da individui appartenenti a fasce della popolazione che altrove hanno dimostrato maggior feeling con Sanders; inoltre, il caucus newyorkese sarà la vera e propria prova del nove per la futura campagna del Partito Democratico in vista di novembre: l’appoggio popolare all’ascesa di Sanders sta spostando notevolmente l’equilibrio interno del partito e, anche nel caso in cui la Convention Democratica di luglio votasse a maggioranza per la candidatura della Clinton, esso potrebbe risultare decisiva per l’impostazione di un programma partitico maggiormente progressista, al cui interno posizioni largamente propagandate da Sanders come la necessità di una copertura sanitaria universale e di una radicale riforma di Wall Street potrebbero rientrare a pieno diritto. Se New York esprimerà un giudizio favorevole a Sanders, permettendogli di erodere ulteriormente il vantaggio della Clinton, è possibile che queste proposte, presupposto per l’edificazione di un Future to belive in, come recita lo slogan della campagna di Sanders, risulteranno investite di un’autorevolezza ancora maggiore. Questo sarà il senso principale della campagna del Senatore del Vermont nelle prossime settimane: egli infatti ha già vinto la sua sfida personale, riuscendo a dimostrare l’effettiva costruibilità di una piattaforma politica realmente riformista in uno dei grandi partiti statunitensi, ora si tratta di costruire architetture stabili al di sopra delle fondamenta gettate. In ogni caso il divario tra Sanders e la Clinton resta consistente, anche alla luce del divario conseguito tra Sanders e l’ex first lady nelle preferenze dei membri del Comitato Nazionale Democratico: i componenti di quest’organo, di cui fanno parte anche i governatori e i membri della Camera dei Rappresentanti e del Senato espressi dal Partito Democratico, hanno sino ad ora espresso 472 preferenze per la Clinton contro le sole 32 raccolte da Sanders. Da ciò ne consegue quanto sia di capitale importanza per l’ala progressista conseguire un successo importante in uno Stato chiave come New York per poter rilanciare ulteriormente le proprie ambizioni.
Nel Grand Old Party continua invece, più caotica che mai, la grande bagarre tra gli sfidanti che aspirano alla nomination di una formazione ogni giorno sempre più divisa, scombussolata dal passaggio del ciclone Trump, la cui ascesa ha portato i vertici tradizionali del partito a cercare più volte un candidato capace di arginare la corsa del magnate newyorkese. Fallita ignominiosamente la campagna di Jeb Bush e tramutatasi in un nulla di fatto anche quella di Marco Rubio, oramai l’establishment repubblicano ha iniziato a giocare di rimessa, puntando al massimo risultato che i suoi rappresentanti possono permettersi di raggiungere da qui all’estate, ovverosia impedire a Trump di conquistare la maggioranza assoluta dei delegati. L’istrionico outsider tramutatosi in frontrunner ha sino ad ora raccolto nella sua corsa alla nomination 749 delegati su 1237 necessari per centrare la maggioranza assoluta, e nel contempo il suo principale sfidante Ted Cruz è stato investito del ruolo di “argine” contro il dilagare impetuoso di Trump. Sebbene siano tramontate oramai le sue chances di sopravanzare in ultima istanza il suo avversario, Cruz sta ricevendo negli ultimi giorni il sostegno da diversi membri del Grand Old Party, evidentemente ansiosi di mantenere la sua nave il più possibile in linea di galleggiamento, impedendole di colare a picco di fronte ai colpi inferti da Donald Trump, che riesce a prevalere su Cruz tanto dal punto di vista della pervasività delle sue posizioni quanto nella sfida retorica a distanza che quotidianamente si manifesta attraverso comizi, interviste e conferenze stampa trasmesse in diretta televisiva. Cruz è riuscito a superare Trump nel recente caucus del Wyoming, e ora un suo successo a New York sarebbe decisamente funzionale agli obiettivi degli oppositori del tycoon, desiderosi di vedere il Partito Repubblicano arrivare alla sua Convention in una situazione di incertezza e stallo, con una maggioranza di delegati non definita, al fine di poter imporre un candidato “di unità” che saldi tra loro tutti i rappresentanti del partito ostili a Trump. La figura in questione, dopo il declino dell’ex sindaco di New York Bloomberg, potrebbe essere scelto attraverso la “via istituzionale” dell’investitura di Paul Ryan, attualmente presidente della Camera dei Rappresentanti.
Il piano degli oppositori di Trump è tuttavia quantomeno rischioso: esso si basa sul presupposto, tutto da dimostrare, che al momento della verità la “disciplina di partito” imponga a tutti i delegati della Convention non favorevoli a quest’ultimo di convergere verso un’unità di intenti che oggigiorno è a dir poco ottimistico vagheggiare come possibile. La frattura tra le numerose anime del Grand Old Party ha rappresentato infatti una causa dell’ascesa di Trump, non un suo effetto: e l’idea di curare la malattia dell’organismo celandone forzatamente il sintomo appare in partenza a dir poco peregrina. Il gioco è decisamente rischioso, e le conseguenze per il Grand Old Party potrebbero essere disastrose se, ad esempio, un Trump messo in minoranza decidesse di correre ugualmente per la Casa Bianca da candidato indipendente, portando di conseguenza a un’emorragia di suffragi per il Partito Repubblicano. New York è investita dunque del ruolo di campo di battaglia decisivo per constatare l’effettiva attuabilità di tale stratagemma. Il caucus repubblicano del 19 aprile promette scintille, e potrebbe rivelarsi un vero e proprio punto di svolta per i destini del partito in prospettiva delle elezioni presidenziali di novembre. La più grande e simbolica città degli USA sarà a breve investita di un significato politico di importanza paragonabile alla decisiva influenza esercitata da quest’ultima e dal suo Stato sulla vita dell’intera nazione. Sebbene dopo l’appuntamento del 19 aprile restino ancora numerosi caucus di primaria importanza (fra cui quello californiano, che assegnerà il maggior numero di delegati), è chiaro che le implicazioni politiche e sociali del voto newyorkese sarà passibile di influenzare il futuro delle primarie: tutti i programmi dei candidati presidenti presuppongono per la loro realizzazione un risultato positivo in questo cruciale appuntamento. La strada per la Casa Bianca passa obbligatoriamente dalla Grande Mela, in corrispondenza della quale si intravede una chiara strettoia: solo chi riuscirà a passare indenne dalle Forche Caudine del voto dello Stato di New York potrà ragionevolmente pensare di poter ancora ambire alla massima carica della nazione americana.

venerdì 8 aprile 2016

L’ITALIA E MALTA HANNO DAVVERO SCAMBIATO DIRITTI PETROLIFERI CON RIFUGIATI?

Mentre la crisi dei rifugiati siriani è arrivata a un’impasse, sia in termine di sicurezza Europea sia di diritti umani dei rifugiati, Bruxelles si trova a dover negare accuse di un patto segreto tra Malta e l’Italia per scambiare rifugiati con diritti di esplorazione petrolifera.
Il leader dell’opposizione di Malta sostiene che Malta e l’Italia hanno stretto un accordo segreto in cui Malta rinuncia ai diritti di esplorazione petrolifera su un’area offshore oggetto di disputa con l’Italia, in cambio dell’assegnazione all’Italia della quota di migranti recuperati in mare che spetterebbe a Malta.
A fine marzo, all’apice della crisi dei rifugiati siriani, la Commissione Europea è stata costretta a rispondere a queste accuse, negandole, ma la situazione è complessa.
Il leader dell’opposizione maltese, Simon Busuttil del Partito Nazionalista, e membro del Parlamento Europeo fino al 2013, alla fine dello scorso anno ha accusato il governo maltese di aver permesso al governo italiano di trivellare in cerca di olio in acque maltesi, nell’ambito di uno scambio poco pulito tra petrolio e migranti.
Le sue accuse sono state amplificate del report di un quotidiano italiano, Il Giornale, secondo cui il premier italiano Matteo Renzi ha stretto tale accordo con il premier maltese Joseph Muscat.
Lo scorso settembre, il ministro maltese degli affari interni Carmelo Abela ha dichiarato che Malta aveva un accordo informale con l’Italia perché questa si accollasse dei migranti irregolari provenienti da Malta, ma il ministro aveva corretto in seguito la sua dichiarazione facendo riferimento a una situazione di “stretta collaborazione” tra l’Italia e Malta, secondo il report del giornale italiano.
Anche se Malta ha ammesso la collaborazione stretta, i funzionari del paese sostengono che non c’è un accordo che lega il discorso migranti alle esplorazioni petrolifere.
Ora la Commissione deve prepararsi.
Malta è il membro dell’UE più vicino alle coste libiche. Considerato questo, il parlamentare di centrodestra Elisabetta Gardini ha recentemente chiesto alla Commissione Europea di spiegare come mai ci sono così pochi arrivi di migranti a Malta.
La domanda era impegnativa.
Dal 2015, delle 142.000 persone che hanno lasciato le loro case per dirigersi in Europa, lasciando le coste nordafricane, solo un centinaio circa sono arrivate a Malta. E’ un dato molto strano nel mezzo di un’acuta crisi di rifugiati.
Nel 2013, gli ufficiali maltesi avevano registrato 2.008 sbarchi. Nello stesso periodo, l’Italia aveva accolto 150.000 rifugiati. L’ipotesi che non esista alcun accordo suggerirebbe che i rifugiati semplicemente non desiderano provare a raggiungere Malta.
Alla fine del mese scorso, la Commissione Europea ha finalmente risposto alle accuse: il commissario europeo agli affari interni e alla migrazione Dimitris Avramopoulos ha detto di “non essere al corrente di alcun accordo bilaterale… tra le autorità italiane e maltesi riguardo le operazioni di “Search and Rescue” (SAR) nel mare Mediterraneo”.
Il fatto di “non essere al corrente” non risolve la questione.
Ciò detto, come riporta “the Independent” la Commissione ha notato che guarda caso l’area di esplorazione petrolifera in questione si sovrappone alle aree di recupero dei migranti.
La Commissione ha detto che, anche se non è al corrente di alcun accordo, se tale accordo fosse in essere, sarebbe in linea con i normali accordi di gestione dei confini.
“Quando si parla del meccanismo di rilocazione di emergenza, la Commissione lo considera un atto per istituire misure concrete di solidarietà e contribuire ad un’equa condivisione delle responsabilità tra gli Stati membri, in linea con l’articolo 80 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea,” secondo la Commissione.
Di cosa stiamo parlando in termini petroliferi? Di un grosso affare, potenzialmente. Secondo una fonte indipendente, Malta dispone di un potenziale di 260 milioni di barili. Ma Malta e l’Italia sono bloccati dalla disputa sulle zone di esplorazione offshore e sulle zone di recupero migranti.
Il nocciolo della questione è una legge italiana del 2012 che di fatto raddoppiava la zona marittima italiana in direzione sudest rispetto alla Sicilia e in direzione della costa libica. Malta aveva protestato per la sovrapposizione con aree che ritiene sue. Alla fine del 2015, Malta e l’Italia hanno raggiunto un accordo informale di sospensione delle trivellazioni esplorative in quell’area.
Una domanda aperta potrebbe essere questa: l’accordo UE-Turchia in essere – che vedrà la Turchia riprendersi i rifugiati sbarcati in Grecia (in cambio di qualche favore da parte della UE e qualche aiuto finanziario) – essenzialmente eliminerà la rotta dei migranti attraverso il mare Egeo. Questo potrebbe risvegliare l’interesse dei migranti nella rotta attraverso la Libia. Se Malta si è davvero liberata della sua zona di recupero, significa grossi problemi per l’Italia, che dovrà accollarseli tutti.