giovedì 31 marzo 2016

Contro la “Unione per la sicurezza e la difesa”

Non è un segreto che il prossimo passo auspicato nel processo di integrazione europea sia arrivare a una strategia realmente comune di sicurezza e difesa, una “Unione per la sicurezza e la difesa” con poteri autonomi sia dal punto di vista finanziario sia militare. I leader in tutto il continente lo hanno chiaramente indicato come priorità assoluta per i prossimi anni. A favore di una simile scelta sono spesso invocate ragioni accettabili. Tuttavia, ci sono importanti argomenti che suggeriscono che quella che comunemente è considerata una evoluzione positiva significherebbe invece il colpo di grazia per questo relativamente lungo periodo di pace e integrazione in Europa. Una difesa comune con un esercito comune, ma in assenza di una vera nazione, potrebbe condurre alla prossima guerra civile in Europa.
Già nel giugno del 2015 il Centro di Politica Strategica Europea (EPSC) – gruppo interno di consulenti in materia strategica del presidente Juncker – ha reso pubblica una nota nella quale una “minaccia di guerra in Europa”, sia di origine esterna sia interna, viene esplicitamente menzionata come impulso a muoversi in questa direzione. In particolare, la nota ha suggerito anche che il deteriorarsi della situazione economica dovrebbe spingere i paesi dell’Unione europea verso l’integrazione militare.
“Considerazioni militari, economiche e strategiche portano tutte a una conclusione inevitabile: se abbiamo bisogno di fare di più con meno denaro, aumentare gradualmente l’integrazione sulla difesa è la nostra migliore – e sola – opzione. (…) Un esercito europeo come progetto a lungo termine della volontà degli stati membri ha acceso un dibattito necessario. La vera domanda ora è dove e come iniziare. ”
In altre parole, non ci sono alternative.
“Più Europa nella difesa e nella sicurezza è assolutamente necessaria. (…) È giunto il tempo di stabilire un Quartier generale operativo (Operational Headquarters – OHQ) a Bruxelles per garantire un’efficace pianificazione, comando e controllo delle operazioni, in particolare per quando è richiesta una risposta civile/militare congiunta.”
Il Clingendael Institute, un think-tank Olandese che fornisce consulenza su questioni di politica internazionale a governo, parlamento, forze armate e settore privato, si è inserito nel dibattito con un paio di documenti sullo stesso argomento.
Con un tempismo perfetto, esattamente all’inizio della presidenza olandese del semestre europeo, a gennaio 2016, l’Istituto ha suggerito di “tirar fuori la difesa dal suo stato di utilizzo ‘eccezionale’ e a compartimenti stagni”, per “affrontare rapidamente gli ostacoli istituzionali, legali e finanziari che bloccano l’approccio integrato” e “riportare la difesa a casa per l’opinione pubblica nazionale, aiutando i cittadini a riprendere ad apprezzare il ruolo della difesa nel provvedere alla loro sicurezza.” La strategia comune di sicurezza e difesa dovrebbe “essere incentrata su strumenti civili e militari” e “l’UE dovrebbe andare oltre il soft power. Senza hard power, l’UE non sarà mai in grado di agire come un fornitore di sicurezza credibile”.
Infine, a febbraio 2016, l’Istituto dell’UE per gli studi sulla sicurezza (European Union Institute for Security Studies) ha scritto che:
“per garantire la sua sicurezza, l’Europa ha bisogno di capacità militari forti e moderne. (…) La crisi economica e fiscale in corso in Europa ha chiaramente avuto un impatto negativo sulle risorse da impegnare nelle attività legate alla sicurezza disponibili agli stati membri dell’UE. (…) In un futuro non troppo lontano, nessun singolo stato europeo avrà le risorse necessarie a sviluppare da solo una gamma completa di funzionalità – così, ora è giunto il momento di incominciare a mettere insieme le risorse.”
In un periodo di accesa discussione sul futuro dell’UE, con l’aumento delle pressioni centrifughe in diversi paesi (dal Grexit al Brexit, fino al crescente euro-scetticismo in molti stati membri), una simile spinta senza precedenti verso forme estreme di maggiore integrazione suona perlomeno strana. Una simile accelerazione contro il sentire comune espresso dalla popolazione in tutta Europa dovrebbe far suonare un campanello d’allarme.
Il ragionamento ripetuto in tutti questi documenti, ma anche in molti di seconda e terza mano propagandati sui media locali, è chiaro: l’instabilità geopolitica pone crescenti minacce, sia di origine interna sia esterna, alla sicurezza dei cittadini, che finalmente sono diventati più sensibili su questi temi; inoltre, la prolungata pressione sulle finanze pubbliche significa che gli stati hanno meno risorse a disposizione per investimenti militari, quindi unire le scarse risorse in una strategia comune di sicurezza e difesa dotata di poteri militari forti è l’unica soluzione possibile. Non c’è alternativa.
I pilastri di questa unione per la sicurezza e la difesa comune dovrebbero essere un esercito comune, il comune controllo delle frontiere, e un’unica politica estera: il sogno di ogni federalista! Difficile trovarsi in disaccordo con un simile sogno, a prima vista. Tuttavia, un’analisi più attenta suggerisce che questo potrebbe essere l’ennesimo progetto ambizioso costruito su fondamenta deboli, che in quanto tale porterebbe alla disintegrazione, anziché alla federazione.
Nel contesto di una simile architettura, chi coordinerebbe queste forze militari? Può un paese delegare il controllo militare delle sue frontiere a un organo sovranazionale non responsabile politicamente? Resterebbe un paese sovrano? Quando si dovesse decidere di mettere in atto questo controllo in circostanze specifiche, chi dovrebbe prendere la decisione? Se l’attuazione implica esternalità negative per un paese o un gruppo di paesi, come verranno gestite? Se dovessero entrare in conflitto interessi nazionali, chi dovrebbe decidere quale interesse far prevalere? Una burocrazia sovranazionale priva di responsabilità politica? O il governo (o governi) più forte? E questo sarebbe accettabile per gli altri? E se gli interessi in politica estera non collimano, quale paese alla fine prevarrebbe? E quanto tempo occorrerebbe per prendere decisioni critiche in politica estera? E i paesi “perdenti” come reagirebbero? Quanto è possibile tenere sotto controllo la frustrazione prolungata di un paese su materie riguardanti l’esercito e la difesa?
Questo caos dovrebbe suonarci familiare, come decenni di progetti ambiziosi e incompleti hanno dimostrato. Nessuno di loro ha portato l’UE più vicina all’unione politica. Lanciare il processo di unione monetaria, contro ogni razionalità economica, e, soprattutto, senza una precedente unione politica, ha portato all’instabilità economica. Il trattato di Schengen, senza unione politica, sta a sua volta portando all’instabilità sociale, come i fatti recenti mostrano.
Una “unione per la difesa e la sicurezza” che nasce imperfetta e fallace porterà, inevitabilmente, all’instabilità militare. Ma, a confronto dei precedenti, questo è un azzardo molto più rischioso: perché l’instabilità militare, alla fine, significa guerra.

mercoledì 30 marzo 2016

Continua a crescere il potere delle banche

A colpi di articoli e modifiche, il Governo Renzi consolida sempre di più quel rapporto che vede l’esecutivo garante delle banche e dei loro interessi.
Non basta aver accolto in modo del tutto strumentale la tanto contestata direttiva europea sui mutui, accorciando i tempi a favore delle banche per quanto riguarda la gestione degli immobili delle persone morose, colpevoli o non colpevoli. Il Governo Renzi fa di più.
All’interno del DDL sulla concorrenza, in discussione al Senato, c’è la volontà da parte del Pd ( e non solo) di dare la possibilità alle banche di poter proporre un pacchetto completo: mutuo, assicurazione e ristrutturazione.
In sostanza si tratta di una norma che darebbe la possibilità agli istituti di credito di non occuparsi solo dell’assicurazione sull’immobile o il semplice mutuo bensì anche la sua eventuale ristrutturazione. Il Partito delle Banche vuole dare la possibilità agli istituti di credito di poter avere società di ingegneria proprie non iscritte all’albo, questo vuol dire avere la possibilità di entrare a far parte di un mercato che chiuderebbe il cerchio dal punto di vista degli interessi delle banche. Quindi la possibilità di progettare, costruire, vendere e ristrutturare gli immobili. Le società d’ingegneria costituite in forma di società di capitali o cooperative che fino ad oggi hanno potuto operare solo nel settore pubblico, con questa norma potranno avere mano libera anche nel privato.
Certamente una guerra tra interessi di parte tra Governo e professionisti, dove questi ultimi hanno spesso difeso il loro giardino dalle liberalizzazioni. Sempre ben rappresentati all’interno del parlamento, architetti e ingegneri, hanno goduto e godono tuttora di una certa protezione, garantendosi un sistema ben oleato con quella politica che molto spesso a sua volta si è garantita il loro appoggio.
Questa norma tuttavia dà la possibilità alle banche di inserirsi tra i due litiganti, portando a sé il risultato migliore. Le ricadute saranno inevitabili anche per l’ultima ruota del carro, quelli che in pratica hanno sempre cercato di far diventare il figlio dell’operaio dottore. Inevitabilmente ci si troverà a dover fare i conti con un mercato divorato dai grossi istituti di credito, che spazzerà via il piccolo studio d’ingegneria, architettura e professionisti vari. Poiché gli unici a dover essere iscritti all’albo, dovranno essere solo i singoli professionisti impiegati nelle società d’ingegneria facente capo alle banche.Nulla dice però sull’iscrizione delle stesse società d’ingegneria all’albo professionale, e quindi al rispetto delle norme deontologiche. Il rischio è che possano gestire anche degli interventi tecnici e professionali senza dover rispettare le norme deontologiche.
In questo le banche potranno schiacciare la concorrenza data da piccoli professionisti, che devono rispettare un codice deontologico iscrivendosi appunto all’albo della categoria di riferimento, una banca con una buona diffusione sul territorio di sedi che le fanno capo, potrà sicuramente avere una maggiore facilità d’intervento, magari legando la ristrutturazione dell’immobile a un mutuo.
Il Partito delle Banche tenta in ogni modo, riuscendoci in parte, di concedere sempre più agibilità agli istituti di credito. Del resto con i tempi che corrono, il patrimonio immobiliare delle banche sarà sempre più in aumento perché sempre più in aumento sono le persone che perdono la casa.

martedì 29 marzo 2016

Crescita inferiore alla media dei paesi industrializzati

È una parabola all’ingiù quella tracciata dall’economia italiana nel corso del 2015: frena la crescita e i prezzi tornano a calare”. È quanto si legge nel quarto numero dell’Almanacco dell’economia, curato dall’area delle politiche economiche della Cgil nazionale. L’elaborazione, realizzata sui conti trimestrali Istat, evidenzia come la crescita del Paese nell’ultimo trimestre del 2015 abbia continuato a rallentare fino a tornare pericolosamente vicino allo zero (0,1%).
Leggi l'Almanacco completo | Nota metodologica
Lo stesso Istat prevede una possibile crescita del Pil, nel primo trimestre 2016, che oscilla tra meno 0,1 e 0,3 punti percentuali. Il ritmo di crescita dell’Italia, secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, “è assai più modesto delle aspettative e, comunque, inferiore alla media dei principali paesi industrializzati ed europei”.
Per la Cgil, si tratta di “uno sviluppo contenuto”, così come rilevato dall’indice di ripresa della domanda effettiva (Iride), l’indicatore economico elaborato dalla Cgil, che per il 2015 risulta rosso (meno 0,5), anche se nell’ultimo trimestre dell’anno si è colorato di verde, registrando un più 1. Una crescita sulla quale torna a gravare, a febbraio, un’inflazione negativa: meno 0,2% in termini congiunturali, meno 0,3% in termini tendenziali.
Nel 2015 la crescita del Pil di 0,6 punti percentuali è stata trainata dagli investimenti fissi lordi (più 0,6%) e dai consumi privati (più 0,9%), favoriti dai rinnovi dei contratti nazionali, dalla svalutazione fiscale e dai redditi dei nuovi occupati, mentre hanno subìto un’ulteriore riduzione sia la domanda pubblica (meno 0,7%) che la domanda estera netta (meno 11%). Non solo. Dall’analisi dell’ultimo numero dell’Almanacco si evince che dopo una variazione positiva del tasso di disoccupazione, registrata nel quarto trimestre dello scorso anno, a febbraio l’Inps ha certificato un drastico calo delle assunzioni (meno 40%) e delle trasformazioni (meno 79%), dovuto – sempre secondo la Cgil – alla netta riduzione degli incentivi fiscali per le nuove assunzioni.
È aumentato solo il lavoro accessorio: i voucher sono 9 milioni e 227mila. “La deregolazione del mercato del lavoro – si legge nello studio – non ha avuto alcun effetto positivo sull’occupazione e sulla crescita. Anzi, ha creato maggiore precarietà”. Se non si dovessero realizzare subito nuovi investimenti pubblici e non si moltiplicassero nuovi posti di qualità, presto la ripresa – appena agli inizi – sarà già al termine. “L’analisi – conclude la Cgil – conferma che creare, tutelare e rappresentare il lavoro, come abbiamo proposto con il Piano del lavoro, la Carta dei diritti e con il documento unitario di riforma del modello contrattuale, è l’unica via per uscire dalla crisi per un nuovo modello di sviluppo”.

lunedì 28 marzo 2016

ISIS. E se i nostri governi smettessero di finanziarlo?

Amaramente paradossale risulta la circostanza che l’ultimo bersaglio dell’Isis sia costituito da Bruxelles, capitale di quell’Europa senz’anima che tanto ha fatto per spianare la strada ai terroristi, fornendo loro carburante ideologico con le sue guerre d’aggressione ma anche carburante finanziario. Da questo secondo punto di vista risulta ancora più amaramente paradossale la circostanza che i terroristi abbiano compiuto questa nuova strage proprio all’indomani dell’accordo raggiunto con uno Stato, la Turchia, in cui sono stati recentemente arrestati due importanti giornalisti proprio per aver messo sotto accusa legami e sostegni fra il regime di Erdogan e i tagliagole.
Quanti dei tre miliardi che l’Europa tremebonda si accinge a regalare al Sultano nella speranza, del tutto infondata, che la salvi dal “flagello” dei profughi da essa stessa provocati, finiranno nelle tasche dei terroristi? Quante delle armi e degli esplosivi che le avide industrie degli armamenti europei riversano negli arsenali delle tirannie del Golfo non vengono poi destinati ai terroristi? Peraltro, come acutamente sostenuto da David Graeber sul Guardian, la Turchia si applica sistematicamente da tempo a smantellare, mediante da ultimo il ricorso anche a gas venefici, le sole forze realmente intenzionate e capaci di combattere il terrorismo sul terreno, come hanno ampiamente dimostrato a Kobane ed altrove, e cioè le combattive milizie popolari kurde del PKK, del’YPG e dell’YPJ.
E l’Europa assiste senza battere ciglio, anzi appoggia il Sultano in ogni sua mossa. Questa Europa non è solo codarda, ma anche autolesionista. O meglio, si può a questo punto anche dubitare che sia interesse e volontà di governi sempre più screditati proteggere le vite dei propri cittadini. Si può ipotizzare che qualcuno abbia pensato che, in fondo, il clima di panico instaurato dalle organizzazioni terroristiche possa essere utilizzato per far digerire all’opinione pubblica qualsiasi misura antipopolare.
Da che mondo è mondo lo stato di guerra mette a tacere ogni opposizione e sempre più si parla, anche se a sproposito, di guerra. Fatto sta che gli attentati di Bruxelles e prima ancora quelli di Parigi, hanno dimostrato la totale assenza di una politica della sicurezza da parte di agenzie pure strapagate ma piene a quanto pare di incompetenti e cialtroni. Eppure non mancano, in Italia e altrove, professionalità di alto livello nel settore. Ma è probabile che i mediocri governanti del continente in crisi preferiscano affidarsi a loro pari, anziché dare fiducia e spazio alle persone capaci e intelligenti.
È sotto gli occhi di tutti quello che Alberto Negri, sul Sole24 Ore, definisce il fallimento dell’intelligence europea. Non si può non essere d’accordo con lui quando afferma che la guerra al terrorismo lanciata da Bush junior ha moltiplicato i gruppi terroristici e che “la ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord.
Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero”. Aggiungerei che questa guerra intelligente va fatta con le armi dell’informazione e dell’acquisizione del consenso, ma per vincerla nulla di meglio che inondare di denaro, armi e sostegno politico, i padrini dell’Isis, mentre assistono silenziosi e complici al massacro di chi contro l’Isis si è battuto e continua a battersi con onore e con successo. Occorre quindi rivedere a fondo la politica estera e quella interna dell’Unione. Va attuato, e sarebbe ora, un effettivo coordinamento delle agenzie di sicurezza che, oltre che inefficaci e poco disposte a collaborare fra di loro, si mostrano in alcuni casi scarsamente trasparenti.
Il coordinamento delle iniziative sulla sicurezza, peraltro, accogliendo l’auspicio di Putin, va realizzato anche in sede internazionale. Va inoltre realizzato un capillare controllo del territorio in collaborazione con le organizzazioni sociali, anche e soprattutto quelle delle immigrati, il che richiede un approccio nuovo al tema delicato e cruciale dell’integrazione, respingendo ogni tentazione di indulgere alla “guerra fra le civiltà”, che costituisce il regalo più ambito per i terroristi. Per dirla con Tommaso Di Francesco sul manifesto: “Si ferma lo Stato islamico solo togliendogli da sotto i piedi il terreno fertile della guerra e dell’odio”. dobbiamo trasformare l’Europa e sottrarla all’attuale cricca

venerdì 25 marzo 2016

Da oltre 35 anni le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico

Con la guerra del 2003, scrive Alberto Negri sul Sole24ore, con cui dei leader approssimativi volevano ridisegnare il Medio Oriente, gli Usa hanno scoperchiato il vaso di Pandora è non l'hanno più richiuso. Al Qaeda, da cui in seguito è nato l’Isis, dall’Afghanistan si spostò in Mesopotamia. I gruppi jihadisti si sono moltiplicati e dopo il Califfato ci sarà qualche cosa d’altro, soprattutto se andremo a bombardare in Libia come nel 2011 senza sapere davvero cosa fare e con chi. La Tunisia sta già pagando l’instabilità nordafricana del post-Gheddafi che ha contagiato tutto il Sahel e le frontiere europee da un pezzo sono sprofondate di alcune migliaia di chilometri a Oriente e Occidente: l’Europa di Bruxelles è stata l’ultima ad accorgersene finendo con l’arrangiare un dubbio accordo sui profughi con la Turchia.
Il Califfato non aveva inizialmente come obiettivo l’Occidente ma in primo luogo il governo sciita di Baghdad e poi quello filo iraniano di Assad: lo scopo era la rivincita dei sunniti in Mesopotamia e nel Levante, un proposito condiviso dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa.
Con l’evidente menzogna di sostenere un’opposizione moderata quasi inesistente, gli Stati Uniti hanno dato via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada della Jihad” con l’afflusso di migliaia di jihadisti da tutto il mondo musulmano, Europa compresa.
La risacca sanguinosa di un conflitto con 250mila morti e milioni di profughi da qualche tempo è tornata e vive accanto a noi. Il delirio terrorista del jihadismo ha una sua logica alla quale non siamo per niente estranei. Ma oggi versiamo lacrime, stringiamo i denti, paghiamo i nostri errori e magari anche qualche promessa mancata.
Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel
2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente.
Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati.
Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico - è avvenuto anche in Bosnia - per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo.
I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta.
Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica".

giovedì 24 marzo 2016

Yemen, le migliaia di vittime del "nostro" terrorismo che l'occidente ignora

Il Pentagono ha emesso una nota annunciando un attacco aereo in Yemen che ha ucciso "decine di combattenti" in quello che viene descritto come un campo di addestramento di al-Qaeda in una zona montuosa dello Yemen. Lo riferisce una nota.
Il raid segue un recente bombardamento saudita in un mercato del paese che ha provocato oltre 100 vittime civili. Si tratta delle vittime del “terrorismo occidentale”, come l'ha definito correttamente Noam Chomsky, che al mondo che si crede libero non interessa ricordare. Mai.
Il Pentagono non ha comunicato la posizione del presunto campo d'addestramento e se ci fossero civili tra le vittime. "Decine di combattenti AQAP sono stati rimossi dal campo di battaglia", si legge. L'attacco aereo, quindi, priverebbe di al-Qaeda della sua capacità "di usare lo Yemen come base per attacchi che minacciano le persone degli Stati Uniti, e dimostra il nostro impegno a sconfiggere Al Qaeda". Questa ultima precisazione era necessaria, in effetti.
I funzionari di sicurezza Yemen e un testimone ascoltato da AP riportano come l&#
39;attacco aereo ha colpito una ex base militare che era stata rilevata da militanti di al-Qaeda a 75 chilometri a ovest della roccaforte città del gruppo terroristico di Mukalla.
L'attacco aereo americano avviene durante l'operazione militare a guida saudita in Yemen contro i ribelli Houthi e le forze fedeli all'ex presidente Ali Abdullah Saleh. L'esercito americano sostiene questa coalizione che si è macchiata di indicibili crimini umanitari. Almeno 6.000 persone sono state uccise nello Yemen dal marzo 2015, molti dei quali civili. Nel mese di gennaio, un panel delle Nazioni Unite ha riferito al Consiglio di Sicurezza di aver rivelato "attacchi diffusi e sistematici contro obiettivi civili da parte dell'Arabia Saudita." All'inizio di marzo, le forze aeree saudite hanno colpito un mercato ad Hajja, uccidendo 106 civili, tra cui 24 bambini. L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra'ad Al Hussein ha dichiarato che l'obiettivo non aveva alcun significato militare dato che il checkpoint Houthi più vicina si trovava a 250 metri di distanza dal mercato.
Ma si tratta del “nostro” terrorismo e di quello di nostri “alleati” e quindi il tutto avviene nel silenzio complice di tutti.

mercoledì 23 marzo 2016

Da Parigi a Bruxelles: l’ora della guerra

La stazione metro Maelbeek, il quartier generale della Commissione Europea, la sede del Consiglio d’Europa, l’ufficio regionale delle Nazioni Unite formano un quadrilatero i cui angoli distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro. A Bruxelles centro, appena fuori l’Ilot sacré, il cuore del cuore della città simbolo della disunita Europa dell’Unione. Chiunque abbia orchestrato e realizzato gli attentati di stamane, che hanno pesantemente colpito anche lo scalo aereo di Zaventem, continua a cercare luoghi affollati (stazioni bus e metro) presso palazzi-simbolo, com’è accaduto di recente ad Ankara, dove l’edificio che ospita la centrale della polizia diventava lo schermo su cui proiettare l’esplosione. Luoghi simbolo, comunque non colpiti, perché la morte che deve seminare paura, rapisce la gente negli spazi pubblici, chiusi come la hall dell’aeroporto e la banchina o il vagone del metro. Oppure aperti: la fermata dei bus, la piazza monumentale di Istanbul. Sangue innocente occidentale ricercato dagli attentatori, siano probabili kamikaze del Daesh o altri jihadisti, oppure sangue yazida e cristiano mediorientale, versato due anni addietro.
Ma anche sangue di altre etnie e confessioni disseminato con centinaia di migliaia di vittime civili nei conflitti locali, i parenti e gli amici degli attuali profughi di isole greche, Idomeni e Calais. Qulle che apertamente dicono: fuggiamo dalla morte! In quest’ultimo caso i macellai non sono solo miliziani neri. Sono i tanti contendenti di territori – quello siriano, ad esempio – o i possessori dell’egemonia nelle province afghane e in molte terre dove geopolitica fa rima con dominio. Sangue sparso, dunque, dalle più diverse bandiere.
Eserciti, paramilitari, mercenari, predoni che giustificano i propri crimini con quelli del nemico. Un nemico, peraltro, nel tempo addirittura cangiante. Se la guerra palese, che dalle nostre case vediamo solo nelle immagini tv, destabilizza e rende irriconoscibile ogni territorio, devastandolo e abbrutendone la sopravvivenza, la guerra strisciante, che ci può toccare e uccidere, insinua terrore e paranoia. Come quegli angoli di strada infestati dai cecchini, dove si può scamparla o farla finita perché si passa nel momento sbagliato. Nelle nostre città trasformate in obiettivi d’attacco, dove si rischia di più? Sarebbe fobico tracciare mappe del pericolo, che può materializzarsi ovunque e in nessun luogo.
Se la logica dell’attentatore seguirà percorsi simbolici ciascuna capitale, ogni città e finanche paese potranno individuarne di propri e tracciare le ‘zone rosse’. Ma luoghi dove quotidianamente si consuma il tran-tran del popolo minuto, fatto di trasporti (malmessi), uffici (inefficienti), industrie (sempre più scarse), centri commerciali (sempre più invadenti) e mercati, scuole, ospedali, tutti possono diventare bersaglio. E non parliamo dei simboli civili per eccellenza: il monumento frequentato da turisti, l’affollata via dello shopping, il luogo di culto, il locale di svago. Già scelti dal ‘sistema della bomba e del kalashnikov’ per colpire, dalla Valle delle Regine vent’anni fa a Luxor, a Istiqlal Caddesi qualche giorno addietro, dalla moschea di Najran nello scorso ottobre, al Bataclan parigino un mese dopo; come un tempo si sceglievano le piazze sindacali: la bresciana della Loggia nel 1974 e sei mesi fa s’è scelta la stazione di Ankara. Il conflitto celato che il jihadismo impone al mondo occidentale, rendendo insicuri non solo i siti vacanzieri dove fino a ieri ci si recava, ma lo stesso tragitto fra l’abitazione e il posto di lavoro, rappresenta la guerra subdola con cui un certo fondamentalismo del libro risponde al fondamentalismo del capitale e della divisa, seminatore di “missioni di pace”. Dovremmo focalizzarci maggiormente su come nelle guerre palesi, nascoste, mascherate agiscano gli armigeri e i finanziatori, più gli ideologi di un’esistenza armata che ci viene già spacciata come imprescindibile.

martedì 22 marzo 2016

Come Cuba, la Corea del Nord è demonizzata perchè ha osato pestare i piedi all’imperialismo occidentale

Presto, molto probabilmente, ci saranno nuove sanzioni brutali imposte contro la Corea del Nord (DPRK). E ci saranno massicce esercitazioni militari provocatorie con la partecipazione degli Stati Uniti e della Corea del Sud (ROK). In breve “tutto come al solito”: l’occidente continua a torturare la DPRK; la provoca, la isola, la demonizza e la disumanizza, assicurando che non operi normalmente, per non parlare di prosperare.
Il condiscendente pubblico occidentale continua a digerire obbediente tutte le menzogne vergognose che gli vengono servite dai media dominanti. In realtà ciò non sorprende; in Europa e in America del Nord la gente ha già smesso molto tempo fa di mettere in discussione i dogmi ufficiali.
La Corea del Nord è dipinta come uno stato eremita folle, alla fame, subnormale e sottosviluppato, i cui leader sono costantemente dediti all’alcol, alle puttane, ad assassinarsi l’un l’altro e a costruire armi nucleari primitive ma letali al fine di distruggere il mondo.
Quelli di noi che hanno familiarità con la DPRK sanno che è tutto un mucchio di laide, vergognose menzogne. Pyongyang è una città elegante, ben funzionante, con grande edilizia pubblica, eccellenti trasporti pubblici, spazi pubblici e strutture ricreative, teatri, strutture sportive e aree verdi. E nonostante le mostruose sanzioni, la campagna è molto più prospera di quanto si vede nei disperati stati vassalli dell’occidente, quali l’Indonesia e le Filippine.
Almeno qualcosa c’è; ci sono stati almeno alcuni articoli onesti scritti a proposito di queste bugie grottesche e della propaganda occidentale.
Ma resta la domanda centrale: “Perché l’occidente è così ossessionato nel demonizzare la Corea del Nord?”
E la risposta è semplice: come Cuba, la Corea del Nord ha osato pestare i piedi al colonialismo e all’imperialismo occidentali. Sacrificando i suoi figli e le sue figlie ha contribuito a liberare molti paesi africani e ha offerto assistenza alle forze più progressiste del continente più saccheggiato e devastato.
Questa è una cosa che l’occidente non perdona mai. Vive dello sfrenato saccheggio di tutti i continenti; prospera essenzialmente saccheggiando le sue colonie. I paesi che hanno visto le guerre di liberazione, i paesi che hanno combattuto per la libertà del mondo colonizzato – Unione Sovietica/Russia, Cina, Cuba e DPRK – sono stati designati dagli ideologi occidentali come i luoghi più “pericolosi” e “malvagi” della terra.
In Europa e in America del Nord masse condizionate (in realtà hanno tratto profitto dal colonialismo e dal neocolonialismo per secoli), si rifiutano testardamente di capire questo motivo principale per cui l’Impero ha fatto soffrire la Corea del Nord per decenni.

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Il mio compagno Mwandawiro Mghanga, presidente dell’SDP e anche membro del Comitato Esecutivo del Forum della Rete Africana della Sinistra (ALNEF) con sede a Dakar, Senegal, ha scritto per questo articolo:
Il Partito Socialdemocratico del Kenya (SDP) condanna le sanzioni ingiustificate contro la Corea del Nord (DPRK) istigate dall’imperialismo guidato dagli Stati Uniti d’America. Siamo consapevoli che l’imperialismo non ha mai interrotto la sua guerra in armi e fredda contro la DPRK che con una delle più grandi, patriottiche, eroiche e rivoluzionarie guerre armate di liberazione nazionale anticolonialiste e anti-imperialiste è riuscita a conquistare la vera indipendenza della metà settentrionale della Corea. Quando ha invaso la Corea del Nord l’imperialismo statunitense, come in precedenza il colonialismo giapponese, ha subito una delle sconfitte militari più umilianti che non perdonerà mai nella sua storia reazionaria. Sappiamo anche che gli USA e l’occidente odiano la DPRK velenosamente, per il suo rifiuto di essere una marionetta dell’imperialismo, come la Corea del Sud. Una guerra sporca di falsa propaganda è stata scatenata contro la DPRK per il suo rifiuto della via capitalista e neocoloniale alla schiavitù, al sottosviluppo e allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, scegliendo invece la via dello sviluppo per la libertà, l’umanità e il socialismo.
Noi in Africa non accetteremo di essere ingannati da imperialisti che sono sempre stati parte integrante dei nostri problemi. L’imperialismo non è e non è mai stato amico dell’Africa, ma suo nemico. I patrioti e i rivoluzionari africani non permetteranno mai che l’imperialismo ci dica chi sono i nostri amici. Poiché sappiamo quali sono i nostri amici! E la Corea del Nord è sempre stata un vero amico dell’Africa. Quando l’intero continente africano era sotto il colonialismo occidentale la Corea, sotto la guida rivoluzionaria di Kim Il Sung, stava combattendo il colonialismo giapponese e mostrando contemporaneamente solidarietà all’Africa. Poi la DPRK, nel nome dell’internazionalismo socialista, ha aumentato il suo sostegno morale, militare e materiale di altro genere ai paesi africani nella loro lotta per la liberazione dal colonialismo, dall’imperialismo e dall’apartheid. Immediatamente dopo l’indipendenza dal colonialismo negli anni ’60 migliaia di africani, inclusi kenioti, hanno ricevuto istruzione superiore, tecnica e specializzata gratuita nella DPRK. La DPRK non ha solo offerto armi, finanziamenti e altra solidarietà materiale a Namibia, Sudafrica, Angola e Mozambico nella guerra contro l’apartheid e l’imperialismo, ma ha inviato anche concretamente rivoluzionari internazionalisti in Africa a combattere fianco a fianco con gli africani per l’Africa. La DPRK ha combattuto con l’Egitto e l’Africa durante la guerra del 1967 contro il brutale regime sionista di Israele appoggiato dai paesi occidentali. Oggi la DPRK è accanto a paesi africani nella richiesta di un nuovo giusto ordine internazionale. In questo la DPRK è incolpata dall’imperialismo e dai regimi fantoccio dell’imperialismo di essere all’avanguardia e di mostrare con il proprio esempio che non può esserci un nuovo giusto ordine internazionale se non anticapitalista e anti-imperialista; deve essere socialista.
L’internazionalismo nordcoreano è leggendario, così come lo è l’internazionalismo cubano. E questo è il minimo che possiamo fare oggi, quando il paese affronta nuove sfide enormi e brutali: ricordare quanto ha dato al mondo, quanto ha giù sacrificato per il bene dell’umanità. Ho parlato con persone a Windhoek che, con le lacrime agli occhi, ricordavano la lotta della Corea del Nord contro i regimi appoggiati dall’apartheid (sudafricano) sia in Namibia sia in Angola. Naturalmente l’apartheid sudafricano godeva del pieno sostegno dell’occidente. Per ripagare tale favore truppe sudafricane si sono unite alla lotta contro la Corea del Nord e la Cina nel corso della Guerra di Corea.
Come citato da Mwandawiro Mghanga la Corea del Nord ha combattuto contro Israele; i suoi piloti hanno guidato caccia egiziani nella guerra arabo-israeliana del 1973. La DPRK ha preso parte alla lotta di liberazione in Angola e ha combattuto in Rodesia (oggi Zimbabwe), Lesotho e Namibia e nelle Seychelles. Ha offerto assistenza al Congresso Nazionale Africano e alla sua epica lotta per liberare il Sudafrica dall’apartheid. In passato ha aiutato le nazioni africane allora progressiste, tra cui Guinea, Etiopia, Zimbabwe, Mali e Tanzania.
Arthur Tewungwa, politico ugandese d’opposizione del Partito del Congresso Popolare dell’Uganda (UPC) confronta il coinvolgimento della DPRK e dell’occidente nel suo pausa e nella regione dei Grandi Laghi africani:
L’Uganda ha beneficiato di questo rapporto con la Corea del Nord negli anni ’80 quando essa ha aiutato il governo a combattere contro i ribelli Museveni che erano sostenuti dagli USA e dal Regno Unito. Moralmente, in confronto con la DPRK, questi ultimi due stati non hanno motivi validi per il bagno di sangue da essi scatenato nella regione dei Grandi Laghi.
*
La Corea del Nord è stata interamente abbandonata, lasciata al suo destino? E’ stata ‘tradita’?
Christopher Black, un eminente avvocato internazionale residente a Toronto, Canada:
Il fatto che gli USA, come membro del SC [Consiglio di Sicurezza dell’ONU – n.d.t.] stiano imponendo sanzioni a un paese che stanno minacciando è ipocrita e ingiusto. Che i russi e i cinesi si siano uniti agli USA in questo, invece di sollecitare sanzioni contro gli Stati Uniti per le loro minacce alla DPRK e le loro nuove esercitazioni militari, che sono un pericolo chiaro e attuale per la DPRK, è vergognoso. Se i russi e i cinesi sono sinceri, perché non insistono che gli USA ritirino le loro forze nell’area in modo che la DPRK si senta meno minacciata e non compiono passi per garantire la sicurezza della DPRK? Non spiegano le loro azioni, ma le loro azioni li rendono collaboratori degli USA contro la DPRK.
La situazione è tetra, ma molto probabilmente non fatale; non fatale ancora.
Jeff J. Brown, un eminente esperto della Cina residente a Pechino, non cela il suo ottimismo per quel che riguarda i rapporti sino-russi con la DPRK:
Non c’è molto di quello che la Corea del Nord fa nell’arena internazionale in cui Baba Pechino non abbia mano. Sono due fraterni paesi comunisti e 65 anni fa i cinesi hanno versato molto sangue e denaro per salvare la Corea del Nord dall’occidente. Il figlio di Mao Zedong morì in battaglia nella Guerra di Corea, combattendo contro l’imperialismo yankee. Ci sono due milioni di coreani etnici che vivono lungo il confine con la Corea del Nord e un altro mezzo milione di settentrionali che vive e lavora in Cina. I coreani sono una minoranza riconosciuta in Cina. Nessun altro paese al mondo comprende la Corea del Nord quanto la Cina. Questa vicinanza è emblematica del loro confine comune, il fiume Yalu, che è così basso che può essere attraversato a guado. Hanno un confine in comune anche con un altro alleato chiave: la Russia. La Cina è il vero fratello maggiore e protettore della Corea del Nord. Francamente, di fronte alle imminenti sanzioni dell’UNSC [Consiglio di Sicurezza dell’ONU – n.d.t.] contro la Corea del Nord penso che l’occidente sia suonato come un tamburo, ed è dal tamburo che è martellata fuori la merda.
Naturalmente sia la Cina sia la Russia hanno lunghi confini terrestri con la Corea del Nord, strade e ferrovie che collegano tutti e tre i paesi. Secondo mie fonti di Mosca e Pechino è altamente improbabile che i due più stretti alleati della DPRK acconsentano alle nuove sanzioni, che le “appoggino” ufficialmente o no.
Ma la logica utilizzata da Christopher Black è assolutamente corretta: è l’occidente che dovrebbe subire le sanzioni più dure immaginabili, non la DPRK.
E’ l’occidente, non la Corea, che ha assassinato un miliardo di esseri umani lungo la sua intera storia. E’ l’occidente che ha colonizzato, saccheggiato, stuprato e reso schiave persone in ogni angolo del pianeta. Quale mandato morale ha per proporre e imporre sanzioni contro qualcuno?
Viviamo in un mondo contorto, realmente perverso, dove gli assassini di massa agiscono da giudici e di fatto la fanno franca.
La Corea del Nord ha versato sangue per la liberazione dell’Africa. Ha mostrato vera solidarietà ai derubati, ai torturati, a quelli che Franz Fanon soleva chiamare i “Dannati della Terra”. E’ per questo che, secondo la logica perversa (che ha radici nel fondamentalismo religioso e culturale occidentale) deve essere punita, umiliata e possibilmente cancellata dalla faccia della terra.
Non perché ha fatto qualcosa di oggettivamente “cattivo”, ma perché l’obiettività ha perso il suo significato. Termini quali “bene” e “male” sono ora decisi secondo un unico criterio: “bene” è tutto ciò che serve gli interessi dell’Impero occidentale, “male” è ciò che ne contesta la dittatura globale.
Se si salva il villaggio che è stato designato dall’Impero come luogo da stuprare e saccheggiare, si sarà puniti nel modo più sadico e brutale. La Corea del Nord ha fatto esattamente questo. Salvo che non salvato solo un villaggio, ma ha contribuito a liberare un intero continente!
Andre Vltchek è un romanziere, documentarista e giornalista d’inchiesta. Ha seguito guerre e conflitti in dozzine di paesi. Il suo libro più recente è ‘Exposing Lies of the Empire’. Ha anche scritto, con Noam Chomsky ‘On Western Terrorism: From Hiroshima to Drone Warfare’. Andre gira documentari per teleSUR e PressTV. Dopo aver vissuto per molti anni in America Latina e Oceania, Vltchek attualmente risiede e lavora in Asia Orientale e nel Medio Oriente.

lunedì 21 marzo 2016

ACQUA: IL GOVERNO CALPESTA IL VOTO REFERENDARIO

«Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l'acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l'intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel quale ci troviamo.
Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l'anno del referendum o dei referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato l'Italicum alla Consulta).
Questo non significa che quest'anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell'Adriatico. Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni, questo attivismo testimonia l'esistenza di riserve diffuse di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non sollecitate dall'alto che non possono per alcuna ragione essere sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i cittadini diventano protagonisti della costruzione dell'agenda politica, dell'indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese.
Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum "sociali", che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di leggi recenti (Jobs act, "buona scuola") che più fortemente incidono sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l'Italicum. Le leggi d'iniziativa popolare riguardano l'articolo 81 della Costituzione, il diritto allo studio nell'università (per iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell'ambiente e dei beni comuni. E bisogna aggiungere l'iniziativa della Cgil che sta consultando tutti i suoi iscritti su una "Carta dei diritti universali del lavoro", mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.
Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la riflessione su "ciò che resta della democrazia" (è il titolo del bel libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l'unico referendum che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e che si possa ignorarne gli effetti.
Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono giunti negli ultimi giorni, nell'approvare le nuove norme sui servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l'acqua rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma qui, come s'era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della "adeguatezza della remunerazione del capitale investito" cancellato dal voto referendario.
È evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le istituzioni rischia d'essere vanificato. Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l'affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente travolgerli.
Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l'attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso dall'alto, e dunque l'opposto del referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra "il capo e la folla" indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così delicato della democrazia diretta.
Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di democrazia "plebiscitaria", "autoritaria", "dispotica" (forse la lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente parlare di democrazia "in pubblico" e che il moltiplicarsi degli strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che la democrazia si è fatta "continua". Ma forse, se vogliamo indagare il nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo trasferimento a quest'ultimo di quote crescenti di potere di decisione, questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre Rosanvallon, di una "democrazia di appropriazione", nella quale il mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini, passaggio necessario per recuperare una "democrazia della fiducia"».

domenica 20 marzo 2016

Ecco per cosa si vota. E cosa si sceglie davvero

Il 17 aprile si vota. Il referendum sulla politica energetica italiana è passato finora quasi sotto silenzio, ma l’appuntamento è importante. In ballo c’è il futuro dello sviluppo energetico del nostro paese con la possibilità di dare un segnale forte in favore di una scelta di sostenibilità e di una sterzata nella direzione delle fonti rinnovabili. Ma l’argomento non è di immediata comprensione, contiene diversi aspetti tecnici e il silenzio della maggior parte dell’informazione non aiuta il raggiungimento del quorum. A questo si aggiunge la decisione del governo di non accorpare il referendum con le amministrative ma di stabilire una data a sé, nonostante l’evidente risparmio che avrebbe comportato l’election day. L’intento è quello di puntare sul non raggiungimento del quorum, accusano i comitati No Triv. Ma per cosa si vota esattamente il 17 aprile? Vediamo.
Il referendum è stato chiesto da nove consigli regionali, ed è la prima volta che avviene, rispetto alla più consueta raccolta delle 500mila firme. La norma sottoposta a referendum abrogativo si trova nella legge di stabilità 2016. Ecco il quesito che si troverà sulla scheda:“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?”
Ma cosa significa? Anzitutto bisogna chiarire che oggetto del referendum sono solo le trivellazioni che vengono effettuate entro le 12 miglia marine (circa venti chilometri). Non sono la maggior parte delle trivellazioni italiane, che sono complessivamente 66 e sono collocate soprattutto al di là delle 12 miglia. Tutte queste trivellazioni, così come quelle effettuate sul territorio, restano fuori dal referendum. Dunque parliamo solo di quelle localizzate entro le 12 miglia. Sono complessivamente 21: 7 in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata, 2 in Emilia Romagna, 1 nelle Marche e 1 in Veneto. Queste trivellazioni vengono effettuate da diverse compagnie estrattive sulla base di una concessione che ha la durata iniziale di 30 anni. E poi può essere prorogata per due volte, cinque anni ciascuna. In totale dunque durano 40 anni. Che succede dopo i 40 anni? Secondo la normativa finora esistente la concessione scade e la trivellazione finisce. Ed ecco il provvedimento del governo Renzi: la norma inserita nella legge di stabilità dice che anche quando il periodo concesso finisce, l’attività possa essere continuata fino alla durata di vita utile del giacimento, cioè fino a che il giacimento non si esaurisce.
Questo è il punto. I referendari chiedono che questa novità sia cancellata e si torni alla scadenza “naturale” delle concessioni. Ora, visto che le concessioni esistenti risalgono mediamente agli Anni 70, se vincesse il SI, entro 5-10 anni le concessioni verrebbero a scadere e quindi l’attività estrattiva dovrebbe cessare. Importante sottolineare che il quesito referendario oltre a non riguardare le trivellazioni oltre le 12 miglia, non tocca nemmeno possibili nuove trivellazioni entro le 12 miglia che sono, e restano, vietate per legge. Dunque si tratta di decidere il destino di 21 trivellazioni già esistenti e in funzione nel nostro mare, entro le 12 miglia.
C’è da dire che i contrari al referendum non si trovano solo nel governo o tra i petrolieri. Per diversi motivi, dubbi sono stati espressi anche in altri ambienti. Ad esempio nella Cgil, che teme le ripercussioni sull’occupazione. Il settore estrattivo occupa circa 40mila persone e comprende un’industria meccanica ad alta specializzazione che si è sviluppata negli anni. Il timore è che il progressivo abbandono delle concessioni, se dovesse vincere il Sì, causi una emorragia di posti di lavoro. C’è un’altra obiezione, più generale, che i sostenitori del No (o del mancato quorum…) avanzano. E’ quella del fabbisogno energetico. Le trivellazioni nel nostro mare, in particolare quelle entro le 12 miglia, oggetto del referendum, estraggono soprattutto gas metano. Queste coprono circa il 10% del fabbisogno nazionale. Poi, in misura molto minore, c’è l’estrazione del petrolio. E’ vero, dicono i fautori del No, in prospettiva si auspica l’aumento delle energie verdi ma nel frattempo non possiamo permetterci di rinunciare a quello che abbiamo. Anche perché andrebbe sostituito da corrispondenti importazioni. Insomma, meglio un uovo petrolifero oggi che una gallina verde domani. Esiste anche un comitato che si chiama “Ottimisti e razionali”, presieduto dall’ex deputato Pci Gianfranco Borghini.
Il Sì al referendum è sostenuto da una rete di comitati che possiamo indicare genericamente come No Triv, riunito in un coordinamento nazionale . I comitati locali si trovano soprattutto nelle regioni interessate dalle trivellazioni, come la Sicilia, la Calabria, la Basilicata, la Puglia. Per il Sì sono anche le principali organizzazioni ambientaliste. Tre su tutte: Greenpeace, Legambiente e Wwf. Non che non si riconosca il carattere piuttosto tecnico del referendum, ammettendo che questo potrebbe scoraggiare il voto. Ma proprio per questo il messaggio punta al cuore politico della questione. Che è la scelta di campo in tema di energia. Finalmente, dicono i sostenitori del Sì, possiamo esprimerci su una questione cruciale. E, nell’anno della Conferenza internazionale sul clima, con l’allarme per il riscaldamento globale, bisogna mandare un messaggio chiaro: il futuro deve essere sostenibile. E’ vero, si dice, il quesito riguarda una porzione determinata e, in fondo, minoritaria, della strategia energetica nazionale e non impegna in alcun modo il governo alla scelta ecologica. Ma la vittoria del Sì avrebbe un effetto politico e simbolico ben più forte dello specifico referendario. Spingendo la politica a fare quei passi verso le energie rinnovabili che in altri paesi europei sono stati fatti negli anni passati e che in Italia sono al palo, o quasi.
Il 17 aprile, dunque, questa è la posta in gioco. Un quesito tecnico ma una possibile ricaduta politica di prima grandezza. Possibile se il quorum verrà raggiunto: questa sarà la battaglia delle prossime settimane dei Comitati: far crescere quella mobilitazione capillare che portò alla storica, e inaspettata, vittoria del 2011 nel referendum per l’acqua pubblica.

venerdì 18 marzo 2016

Tutti i motivi per non trivellare l'Italia

In questi giorni un sacco di gente scrive cose a casaccio sul referendum. Il Sole 24Ore, Jacopo Gilberti, Alberto Clo', Pierluigi Vecchia, e altre persone mai sentite prima. Sono in questa petrol-trincea da quasi dieci anni. Non ci guadagno niente (a differenza dei petrolieri) a fare questa sorta di crociata, non ho "preconcetti ideologici". Un sacco di gente viene qui o ad attaccare o a ricopiare. Hanno pure cercato di farlo chiudere questo blog. Ma non fa niente, continuo, anche se stanca. Voglio solo che l'Italia non diventi un enorme campo di petrolio, ma sia piu' bella e piu' sana. Tutto qui. Potrei andarmene al mare a Santa Monica, e invece sono qui perche' e' importante. E spero che tutti possano fare del proprio meglio per incoraggiare il SI il giorno 17 Aprile 2016.
I “Professori” ci dicono che trivellare l’Italia serve per soddisfare il nostro fabbisogno nazionale, per lo sviluppo economico, per l’occupazione, e che tutto sarà fatto in modo “sostenibile”. Questo è quello che dicono loro. Invece, io l’ho girata tutta l’Italia petrolizzanda e petrolizzata ed è lampante, ai miei occhi almeno, che l’idea di “aggiustare” la nazione facendo buchi a destra e a manca non è la soluzione. Ecco perche':
1. Paesaggio e turismo
L’Italia è un paese densamente abitato, con un paesaggio invidiabile, variegato, fatto di colline, di mare, di boschi, di posti unici. Dove le mettiamo queste trivelle? Ovunque ti giri c’è comunità, c’è vita, c’è potenziale di bellezza, non deserto. Come si può pensare di trivellare a pochi chilometri da Venezia o da Pantelleria? Petrolizzare un territorio significa imbruttirlo, avvelenarlo, annientando quasi tutto quello che già sul territorio esiste o potrebbe esistere. E significa farlo sul lungo termine. Chi comprerà una casa con vista pozzo? Quale turista vorrà venire in Italia a vedere il mare o le colline bucherellate dalle trivelle o a respirare aria di raffineria? Fra l’altro la tutela del paesaggio è uno dei punti fondamentali della nostra Costituzione.
2. Petrolio scadente
Il petrolio presente in Italia – in generale – è scadente, in qualità ed in quantità, ed è difficile da estrarre perché posto in profondità. E’ saturo di impurità sulfuree che vanno eliminate il più vicino possibile ai punti estrattivi. Non abbiamo nel sottosuolo il petrolio dei film texani, quanto invece una sorta di melma, maleodorante, densa e corrosiva che necessita di vari trattamenti prima di arrivare ad un prodotto finale.
3. Infrastrutture invasive e rifiuti
Questo fa sì che ci sia bisogno di infrastrutture ad hoc: pozzi, centrali di desolforazione, oleodotti, strade, porti petroliferi, industrializzazione di aree che sono al momento quasi tutte agricole, boschive, turistiche. Non dimentichiamo gli abbondanti materiali di scarto prodotti dalle trivellazioni – tossici, difficili e costosi da smaltire – con tutti i business più o meno legali che ci girano attorno. E non dimentichiamo il mare, dove la ricerca di petrolio può causare spiaggiamenti di cetacei, e dove è prassi ordinaria in tutto il mondo lo scarico in acqua di rifiuti petroliferi secondo il principio “occhio non vede, cuore non duole”.
4. Inquinamento aria
Sia dai pozzi che dalle centrali di desolforazione vengono emesse sostanze nocive e dannose all’agricoltura, alle persone, agli animali. Fra questi, l’idrogeno solforato (H2S), nitrati (NOx), i composti organici volatili (VOC), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH), nanopolveri pericolose. Alcune di queste sostanze sono provatamente cancerogene e causano danni al DNA ed ai feti. Possono anche causare piogge acide, compromettere la qualità del raccolto e la salute del bestiame. Chi eseguirà i monitoraggi, chi controllerà lo stato di salute delle persone? E’ giusto far correre questi rischi ai residenti, dato che gli effetti nefasti del petrolio sulla salute umana sono noti, e da tanto tempo, nella letteratura medico-scientifica?
5. Inquinamento acqua
Nonostante le cementificazioni dei pozzi e l’utilizzo di materiale isolante negli oleodotti, tali strutture con il passare degli anni presentano cedimenti strutturali, anche lievi, dovuti al logorio, alle pressioni, allo stress meccanico. L’elevata estensione degli oleodotti, e la profondità dei pozzi, rende difficile individuare queste fessure, che possono restare aperte a lungo, inquinando l’acqua del sottosuolo e danneggiando gli ecosistemi con elevati costi di ripristino.
6. Idrogeologia e sismicità
L’Italia è a rischio sismico, con già tanti problemi di stabilità idrogeologica, di subsidenza, a cui si aggiungono in molti casi l’abusivismo e la malaedilizia. In alcuni rari casi (ma ne basta uno solo!) le ispezioni sismiche, le trivellazioni, la re-iniezione sotterranea di materiale di scarto ad alta pressione possono alterare gli equilibri sotterranei, checché ne dica qualcuno dei “tuttapostisti” accademici italiani. Come non conosciamo perfettamente la distribuzione delle falde acquifere, così non conosciamo perfettamente neanche quella delle faglie sismiche. Stuzzicare i delicati equilibri geologici può innescare terremoti, anche di magnitudine elevata. E’ già successo in Russia, in California, in Colorado.
7. Incidenti
Anche prendendo tutte le precauzioni possibili, i pozzi possono sempre avere malfunzionamenti. In Italia abbiamo avuto già esempi di scoppi o incidenti gravi con emissioni incontrollate di idrocarburi per vari giorni senza che nessuno sapesse cosa fare: nelle risaie vicino a Trecate, nei mari attorno alla piattaforma Paguro, nei campi di Policoro. Per risanare Trecate non è bastato un decennio. Non per niente in California c’è una fascia protettiva anti-trivelle di 160 chilometri da riva, e non per niente è dal 1969 che non si buca più il mare.
8. Speculatori
Molte delle ditte che intendono trivellare l’Italia sono minori, straniere, con piccoli capitali sociali. Spesso annunciano di volere fare il salto di qualità con il petrolio d’Italia perché – e lo dicono candidamente ai loro investitori – da noi le leggi sono meno severe, è facile avere i permessi, le spese di ingresso sul territorio sono basse. Saranno, queste micro ditte irlandesi, australiane, statunitensi e canadesi, capaci di gestire i controlli ambientali a regola d’arte? Ed in caso di incidenti, con i loro esigui capitali sociali, avranno le risorse per affrontare operazioni di pronto intervento, risanamento ambientale e risarcimento danni?
9. Minimi benefici
Il petrolio d’Italia non farà arricchire gli Italiani, non porterà lavoro, e tanto meno risolverà i problemi del bilancio energetico nazionale. Le royalties d’Italia sono basse, e la maggior parte di questo petrolio verrà estratto da ditte straniere, libere di vendere il greggio su mercati internazionali. E’ pura speculazione, niente più.
10. Basilicata
Ed anche se tutto fosse fatto a opera d’arte, il vero conto va fatto su tutto quello che il petrolio distruggerà, sui rischi che ci farà correre, a fronte dei suoi presunti vantaggi. In Italia abbiamo già una regione che è stata immolata al petrolio e di cui il resto d’Italia sa poco. E’ la Basilicata, che fornisce a questa nazione circa il 7% del suo fabbisogno nazionale. Tutti i problemi elencati sopra sono realtà in Basilicata: sorgenti e laghi con acqua destinate al consumo umano inquinate da idrocarburi, declino dell’agricoltura, del turismo, petrolio finanche nel miele, aumento di malattie, mancanza di lavoro, smaltimento illegale di materiali tossici, anche nei campi agricoli. E cosa ha guadagnato la Basilicata da tutto ciò? Un dato per tutti: secondo l’Istat, la Basilicata è la regione più povera d’Italia. Era la più povera prima che arrivassero i petrolieri con le loro vuote promesse di ricchezza, lo è ancora oggi.
Invece che fare buchi, e voler succhiare petrolio fino allo stremo, no

giovedì 17 marzo 2016

REFERENDUM TRIVELLE

Da domani l'avvio formale per la raccolta delle firme per i referendyum su scuola pubblica, no inceneritori, trivelle zero e difesa beni comuni
Partono i Referendum sociali per la scuola pubblica, per bloccare il Piano nazionale inceneritori, per l’opzione “Trivelle zero” in Italia e per la difesa dei beni comuni.
Il 13 a Roma al Cinema Palazzo si è svolta una partecipatissima assemblea nazionale con centinaia di persone provenienti da tutta Italia che ha dato avvio alla nuova stagione referendaria.
Da domani 17 marzo si avvierà il deposito dei primi quesiti alla Cassazione per far partire la raccolta delle firme con un evento unitario e diffuso il 9 e 10 aprile che darà vita alla campagna nazionale di mobilitazione che si chiuderà entro il 9 luglio prossimo.
L’obiettivo è superare le 500.000 firme necessarie per tutti i sei quesiti referendari già in campo, oltre quelli contro la privatizzazione dei beni comuni in via di definizione, per andare al voto nella primavera del 2017.
L’approvazione dei principali provvedimenti governativi, dalla Buona Scuola allo Sblocca Italia, con cui si è attaccato il ruolo della scuola pubblica, privatizzati i beni comuni e i servizi pubblici, aggredito l’ambiente, a partire dalle trivellazioni e da un autoritario aumento di nuovi inceneritori ed abbattuti i diritti del lavoro, ha innescato un crescente percorso di lotta che sostiene un opposto modello di sviluppo fatto di tanti comitati, movimenti, sindacati, associazioni che hanno iniziato ad incontrarsi in numerose assemblee sul territorio, da Bologna a Pescara, da Ancona a Napoli ed a Roma.

Si è pertanto avviata l’alleanza sociale tra i movimenti per la scuola pubblica, per l’acqua bene comune, contro la devastazione ambientale che si oppone alle trivellazioni e contro il piano nazionale per vecchi e nuovi inceneritori che insieme chiedono di puntare ad una società “democratica” che investa sul valore della scuola pubblica, sulla sostenibilità ambientale e la difesa della salute pubblica, sulla gestione pubblica dei servizi locali, sul lavoro stabile e sul diritto al reddito che veda la piena attuazione del dettato costituzionale, e non il suo smantellamento.
L’iniziativa incrocia infatti il tema della democrazia e della sua espansione, che altro non è se non il rovescio della medaglia dell’affermazione dei diritti fondamentali. La nostra stagione dei referendum sociali, pur nella sua dimensione autonoma, vuole contribuire anche alla campagna per il NO alla controriforma istituzionale, con la convinzione che parlare di democrazia non significa ragionare puramente di architettura istituzionale ma del potere che hanno le persone di decidere sulle scelte di fondo che riguardano gli assetti della società.

mercoledì 16 marzo 2016

Renzi “vende” l’acqua Obiettivo: far salire le tariffeDeputati PD calpestano i voti di 26 milioni di cittadini

La maggioranza dei deputati eletti con una legge incostituzionale obbediscono a un capo del governo non eletto dai cittadini e calpestano i voti di 26 milioni di italiani E il popolo tace. Il Fatto quotdiano, 15 marzo 2016
La gestione obbligatoria a scala di ambito ottimale per acqua, rifiuti, trasporti e gas è una delle importanti novità introdotte dai decreti Madia su partecipate e servizi pubblici”. Alfredo De Girolamo di lavoro fa il presidente di Confservizi Cispel Toscana, l’associazione regionale delle imprese del settore, luogo renzianissimo, e ieri celebrava – in apposito convegno – l’addio al referendum sull’acqua pubblica che stamattina governo e maggioranza sanciranno nelle aule parlamentari.
BREVE RIEPILOGO. Dopo quasi 5 anni arriva finalmente al voto nella commissione Ambiente di Montecitorio una legge che rispettava gli esiti del voto di 26 milioni di cittadini: il servizio idrico va gestito da un ente pubblico, non dal mercato. Nonostante la legge sia stata scritta da parlamentari di parecchi partiti (Pd, Sel, M5S e altri), ora qualcuno ci ha ripensato: un emendamento del Pd che sarà votato stamattina cancella proprio il cuore della legge, cioè la previsione che il gestore dell’acqua debba essere pubblico. Governo e relatore hanno dato “parere favorevole”, cioè lo hanno fatto proprio. Niente legge per l’acqua pubblica, restano quelle per l’acqua privata scritte in questi due anni dal governo. Proprio quelle leggi che ieri celebravano le imprese toscane e benedette sempre da Utilitalia, la Confindustria del settore.
L’esecutivo, infatti, lavora da tempo al tradimento della volontà popolare: il decreto “Sblocca Italia” indicò l’obiettivo nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multiutility capaci di competere all’estero. A livello normativo, tra l’altro, la cosa venne incentivata grazie alla previsione che “gestore unico” (obbligatorio per ogni ambito territoriale) divenga chi ha già in mano il servizio “per almeno il 25% della popolazione” (ridono A2A, Iren, Hera, Acea). La legge di Stabilità, poi, incentiva i Comuni a privatizzare i servizi pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno.
Un decreto attuativo della riforma della P.A., infine, prevede che le tariffe tengano conto della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. È appena il caso di ricordare che uno dei due referendum sull’acqua stabiliva proprio che bisognasse cancellare dalla bolletta la voce che garantiva “adeguata remunerazione del capitale investito”.
Insomma, mentre si appresta a bocciare la gestione pubblica del servizio idrico, Renzi reintroduce nelle bollette una voce esclusa per volontà di 26 milioni di italiani. Nel 2011 su questo punto cioè se si dovesse impedire al mercato di fare profitto sull’acqua il premier votò “no” per “non bloccare gli investimenti privati”. Non che i privati o le società miste ne abbiano fatti molti in questi anni, ma la scusa è sempre la stessa: non si possono bloccare gli investimenti, dice il ministro dell’Ambiente Galletti.
PROBLEMA: si scrive investimenti, si legge bolletta più cara. Dice il presidente di Utilitalia, Giovanni Valotti: “Considerando che abbiamo le tariffe tra le più basse d’Europa, avremmo ampi spazi di recupero per gli investimenti”. Poi, considerando che i suoi danti causa vorranno anche guadagnare bisognerà prevedere un altro “ampio spazio di recupero” per i profitti. Nel 2015 Erasmo D’Angelis, all’epoca responsabile delle infrastrutture idriche a Palazzo Chigi, spiegò che pochi big player e bollette più care erano l’unica via per questo governo. Bene, dal 2008 al 2015 le tariffe idriche sono pressoché raddoppiate, mentre la qualità della rete idrica non pare migliorata né dove gestisce il pubblico, né dove c’è il privato. Quanto agli investimenti, invece, gran parte di quelli fatti dal 2008 sono stati fatti con soldi pubblici.

martedì 15 marzo 2016

Il governo vuole privatizzare l’acqua: addio referendum

L'ennesima volta che dobbiamo esclamare: "che abbiamo combattuto a fare?" Forse solo per arrivare a comprendere che gli italiani, se lo sopportano, sono come li vuole Renzi. Il Fatto quotidiano, 13 marzo 2016
Quanto contano i 26 milioni di italiani che nel lontano giugno del 2011 votarono “sì” ai due referendum sull’acqua pubblica? Poco o niente. Da pochi giorni questa è non solo la realtà, ma anche la risposta ufficiale del governo Renzi: la gestione dei servizi idrici non deve essere pubblica, ma di mercato. Al di là di ogni altra considerazione, non un buon viatico per il referendum sulle trivelle che si celebra ad aprile. Ecco la storia dell’acqua.
Dalle urne al no di Renzi in quasi cinque anni
Nel 2011 i cittadini italiani dissero che andava abrogato il decreto Ronchi, che obbligava gli enti locali a mettere a gara anche la distribuzione dell’acqua nelle case, e che andava cancellata la voce della bolletta che garantiva “adeguata remunerazione del capitale investito dai gestori”. Gli italiani dissero in sostanza che quel servizio non andava messo sul mercato, ma gestito dal pubblico senza fini di lucro. In quasi cinque anni quel referendum non ha avuto alcun esito: le bollette sono cambiate solo in superficie e non esiste una legge che obblighi i Comuni a “ripubblicizzare” il servizio.
Ora però, alla Camera, hanno cominciato a discutere un ddl di iniziativa popolare che risale al 2007: lo presentarono i movimenti per l’acqua pubblica e in questa legislatura “aggiustato
” da un intergruppo parlamentare in cui figurano deputati di Pd, Sel e Movimento 5 Stelle, partiti che appoggiarono il referendum. Federica Daga (M5S) è la prima firmataria di una legge che qualifica l’acqua come “diritto umano” e, come tale, garantisce a tutti una fornitura minima di 50 litri al giorno pagata, se serve, dalla fiscalità generale. Il cuore del ddl è l’articolo 6: prescrive l’affidamento del servizio idrico solo a enti di diritto pubblico pienamente controllati dallo Stato (niente Spa pubblico-privato), gli enti hanno un anno per adeguarsi.
Il problema è che la legge, ora che si comincia a votare per portarla in Aula, a qualcuno non va più bene: martedì 8 marzo i resoconti di Montecitorio danno conto dell’esistenza di due emendamenti di Enrico Borghi e Piergiorgio Carrescia (deputati Pd come gli altri firmatari che chiedono di “sopprimere i mere” l’articolo 6, cioè il cuore della legge. Il 9 marzo, poi, il relatore Massimiliano Manfredi (Pd) “esprime parere favorevole sugli identici emendamenti Borghi e Carrescia”. La sottosegretaria Silvia Velo, a nome del governo, “concorda”. L’esecutivo, insomma, vuole cancellare l’articolo centrale della legge, quello che invera la volontà di 26 milioni di italiani (oltre la metà degli aventi diritto): martedì è il giorno della verità in commissione.
Il problema della legge: coperture poco serie
Va detto che il ddl Daga non è senza macchie. Il punto più critico è l’articolo 12, dove si parla di soldi (che pure servono per cacciare i privati e mettere a posto la rete). Sono nero su bianco coperture da anime belle : 1 miliardo l’anno dagli F35; risparmi dell’evasione fiscale (2 miliardi); aumento della tassa sulle transazioni finanziarie e un paio di tasse di scopo su prodotti inquinanti. Quanto al “Fondo nazionale per la ripubblicizzazione” cioè i soldi da dare subito ai privati per cacciarli si citano anticipazioni di Cassa depositi e prestiti non quantificate. Questa vaghezza ha spinto anche il Servizio Studi della Camera a chiedere correttivi e “norme coerenti coi principi di contabilità pubblica”.
Il problema vero, in termini di fondi, sono gli investimenti sulla rete: in generale quella italiana ha un tasso di dispersione del 37%, mancano impianti di depurazione e fognari, si fa poca manutenzione. L’Autorità per l’energia ha calcolato i soldi necessari in 65 miliardi in 30 anni, ovviamente con spese più ingenti all’inizio.
Dentro il modello economico Ue, però, l’Italia non può fare investimenti così importanti. Per questo si “vende” l’acqua ai privati, che poi però gli investimenti non li fanno: secondo lo stesso governo, dal 2006 i privati hanno pagato solo l’11% dei fondi investiti nel settore idrico, il resto sono soldi pubblici. Pure il caso di Napoli, unica grande città ad aver rispettato l’esito del referendum, non propaganda le virtù del mercato: la società Abc ha chiuso il 2015 in utile per 8 milioni nonostante tariffe tra le più basse d’Italia (ora però ha il problema che la Regione di De Luca ha fatto una pessima legge sul settore idrico).
I piani di Palazzo Chigi e la truffa del diritto Ue
L’appoggio del governo alla cancellazione della volontà popolare è un fatto nuovo, ma non inimmaginabile dati i precedenti. La stessa responsabile “acqua” del ministero dell’Ambiente, Gaia Checcucci, ha sostenuto a Presadiretta che “il referendum ha abrogato il decreto Ronchi e ora è quindi in vigore il quadro normativo comunitario, che consente dunque la gestione privata, mista o pubblica”. Insomma, come se in 26 milioni non avessero parlato.
Nella pratica, Renzi lavora contro il referendum fin dallo “Sblocca Italia” del 2014, che indica l’obiettivo della sua azione nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche grandi multiutility capaci di competere all’estero. A livello normativo, tra l’altro, la cosa viene incentivata grazie alla previsione che “gestore unico” (obbligatorio per ogni ambito territoriale) divenga chi ha già in mano il servizio “per almeno il 25 % della popolazione” (ridono A2A, Iren, Hera, Acea, etc).
Si passa poi alla Legge di Stabilità che incentiva i Comuni a privatizzare i servizi pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità interno. Ora un decreto attuativo della riforma Madia della P.A. oltre a spingere sulle solite fusioni in poche grandi realtà cancella anche l’altro referendum, quello sulla tariffa: si dovrà tener conto della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. E tanti saluti ai 26 milioni.

lunedì 14 marzo 2016

Ex inviato ONU: "Se l'Occidente avesse ascoltato la Russia, il conflitto in Siria sarebbe finito 4 anni fa."

Lakhdar Brahimi, ex inviato dell'ONU per la Siria ha sottolineato che "non ci sono i buoni nella tragedia della Siria" ed ha lanciato critiche ai paesi occidentali e musulmani.
Il conflitto in Siria sarebbe finito quattro anni fa, se l'Occidente avesse ascoltato la Russia, ha dichiarato l'ex inviato dell'ONU per la Siria, Lakhdar Brahimi, in un'intervista ad Al Jazeera.
"Allora la Russia aveva una visione più realistica della situazione rispetto agli altri. Penso che tutti dovrebbero ascoltare i russi e più spesso. Sapevano come stavano realmente le cose", ha affermato Lakhdar Brahimi.
Secondo Brahimi, "se tutti avessero avuto un quadro più preciso di ciò che sta accadendo in Siria", il conflitto avrebbe potuto essere risolto quattro anni fa.
Inoltre, l'ex inviato dell'ONU ha sottolineato che "non ci sono buoni nella tragedia della Siria" ed ha lanciato critiche ai paesi occidentali e musulmani per non avere come priorità gli interessi del popolo siriano.
"Non solo il mondo musulmano, ma il mondo intero ha tradito la Siria. Che hanno fatto gli americani? I francesi cosa hanno fatto? E gli inglesi? Nessuno ha aiutato i siriani", ha aggiunto.
Per quanto riguarda il cessate il fuoco in Siria, entrato in vigore il 27 febbraio, Brahimi ha difeso la tregua nel Paese ed ha precisato che "non solo è da rispettare, ma si deve anche estendere". "Loro [le forze governative e gruppi armati di opposizione] sono disposti a negoziare e la speranza che questi negoziati inizino", ha spiegato.

domenica 13 marzo 2016

FUKUSHIMA, CINQUE ANNI DOPO IL DISASTRO NON SI ARRESTA

Cinque anni fa uno tsunami travolgeva la centrale nucleare di Fukushima. Da allora, migliaia di persone sono al lavoro nel sito atomico così come in un vasto perimetro attorno allo stesso, per tentare di salvare il salvabile, raffreddando i reattori danneggiati con enormi quantità di acqua e decontaminando il territorio circostante. Che risulta ancora in gran parte disabitato.
Eppure il governo e la lobby nucleare stanno tentando in tutti i modi, ormai da anni, di riavviare le centrali giapponesi. E un dibattito particolarmente ampio è in atto anche sul tema delle evacuazioni, ordinate in seguito al disastro dell’11 marzo 2011 e che le autorità hanno cominciato a revocare, seppur a macchia di leopardo. Alcune associazioni ambientaliste hanno lanciato in questo senso appelli all’esecutivo di Tokyo affinché mantenga lo stato di emergenza per le aree colpite.
Nel frattempo, uno studio di due Ong scientifiche americane spiega che a causa dell’assorbimento diretto e indiretto (quest’ultimo attraverso l’assunzione di acqua e cibo contaminati) tra la popolazione del Giappone è possibile ipotizzare una netta crescita delle patologie tumorali. In particolare, lo studio è stato effettuato analizzando i dati relativi ai bambini della provincia di Fukushima e a tutte le persone addette alle operazioni di bonifica del territorio e di manutenzione della centrale.

venerdì 11 marzo 2016

USA: droni sulla Somalia

La notizia del blitz condotto dai droni americani in territorio somalo lo scorso fine settimana ha segnato una notevole escalation dell’impegno militare di Washington in questo paese in parallelo all’espansione delle operazioni “anti-terrorismo” in Africa e in Medio Oriente. Solo alcuni giorni dopo il bombardamento, il Pentagono ha fatto sapere di avere ucciso con una singola incursione 150 presunti militanti dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda, al-Shabaab, in un campo di addestramento situato duecento chilometri a nord della capitale della Somalia, Mogadiscio.
L’attacco sarebbe giunto dopo settimane di sorveglianza da parte statunitense e, secondo la versione ufficiale - impossibile da verificare in maniera indipendente - le vittime stavano partecipando a una cerimonia per la fine del loro addestramento. I nuovi militanti fondamentalisti, sempre secondo il dipartimento della Difesa americano, avrebbero dovuto essere impiegati in attentati terroristici contro gli Stati Uniti o i paesi loro alleati in Africa orientale.
Per il Pentagono, infine, il raid dei droni USA non avrebbe fatto nessuna vittima civile. Quest’ultima affermazione è da prendere particolarmente con le molle, visti i criteri tutt’altro che rigorosi con cui gli Stati Uniti identificano le vittime degli assassini extra-giudiziari mirati in paesi sovrani.
Tutte le informazioni sulla maggiore operazione portata a termine dai militari americani in Somalia dall’inizio dell’impegno contro il “terrorismo” in questo paese sono state riportate dai principali media internazionali come fatti assodati. Soprattutto, la natura dell’impegno di Washington in Somalia quasi mai è stata analizzata in maniera critica, collegandola cioè ai disegni perseguiti dagli USA in paesi dall’eccezionale importanza strategica e al ruolo svolto in questo ambito dalla cosiddetta “guerra al terrore”.
Da qualche tempo, comunque, al-Shabaab stava mostrando segnali di ripresa dopo una serie di sconfitte inflitte dal contingente militare dell’Unione Africana, appoggiato dagli Stati Uniti, in grado di strappare buona parte del territorio somalo controllato dall’organizzazione qaedista. Svariati attentati compiuti nei mesi scorsi hanno dato così l’opportunità agli USA di giustificare un attacco consistente come quello del fine settimane.
In precedenza, le incursioni con i droni americani in Somalia erano prevalentemente indirizzate contro singoli leader di al-Shabaab, come quelle del settembre 2014 e del marzo successivo che uccisero, rispettivamente, Ahmed Abdi Godane e Adan Garar. Questi assassini mirati furono seguiti dalle prevedibili rassicurazioni circa l’inevitabile indebolimento di al-Shabaab, anche se il gruppo fondamentalista si è ben presto ristabilito per tornare a essere uno degli obiettivi primari dell’impegno militare americano in Africa.
I militanti somali, da parte loro, tramite un portavoce hanno confermato martedì la notizia dell’incursione USA, sia pure definendo “esagerato” il bilancio delle vittime. Al-Shabaab, infatti, eviterebbe raduni di centinaia di uomini in un solo punto proprio per il timore dei droni, la cui presenza nei cieli del paese del Corno d’Africa è ovviamente ben nota.
I velivoli armati senza pilota del Pentagono prendono dunque di mira da anni i militanti di al-Shabaab in Somalia, la cui nascita e ascesa sono però direttamente collegate alle manovre americane e occidentali in genere in questo paese martoriato. L’origine del gruppo jihadista risale alla sconfitta un decennio fa dell’Unione delle Corti Islamiche, da cui esso deriva, per mano del cosiddetto Governo Federale di Transizione e dell’esercito etiope, entrambi appoggiati dall’Occidente.
In seguito, al-Shabaab avrebbe sfruttato la debolezza del governo e l’ostilità diffusa verso le truppe etiopi in Somalia per conquistare terreno e stabilire il proprio controllo sulla stessa capitale. Solo nel 2011 il Governo di Transizione e la missione militare dell’Unione Africana (AMISOM), con l’appoggio americano, riuscirono a liberare Mogadiscio e, da allora, la campagna USA con i droni ha assunto carattere di regolarità anche nel paese dell’Africa orientale.
L’impegno delle potenze regionali e internazionali per esercitare il proprio controllo sulla Somalia ha innescato e alimentato conflitti interni rovinosi che hanno a loro volta devastato il paese, la cui popolazione vive oggi quasi interamente in stato di estrema povertà.
Anche se inquadrato nella “guerra al terrore”, lo sforzo americano in Somalia è motivato principalmente dalla posizione strategica che essa può vantare nel continente africano. Come lo Yemen immediatamente a nord, e non a caso anch’esso teatro di una lunga e sanguinosa campagna con i droni e, da qualche mese, di una brutale guerra condotta dall’Arabia Saudita, la Somalia si affaccia sul Golfo di Aden che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano.
Da questa via d’acqua transitano ingenti traffici commerciali, inclusi quelli petroliferi diretti verso i paesi occidentali. Non solo, il Golfo di Aden e il delicatissimo stretto di Bab el-Mandeb che divide lo Yemen e il vicino Gibuti - dove sorge l’unica base militare americana permanente in Africa - rappresentano il punto di connessione con l’Oceano Indiano e l’Asia orientale, considerati sempre più come i centri nevralgici degli scambi commerciali planetari.
In questo scenario, la Cina svolge un ruolo decisivo nei calcoli strategici di Washington, visto che i traffici che percorrono queste rotte riguardano in buona parte proprio il principale rivale degli Stati Uniti su scala globale. Inoltre, l’impegno militare americano in Africa è di fatto il tentativo di contrastare l’influenza economica cinese nel continente, cresciuta esponenzialmente nell’ultimo decennio nonostante il rallentamento dell’ultimo periodo.
Non potendo competere sul fronte economico con Pechino, Washington intende espandere la propria presenza militare e le partnership con i paesi africani in questo ambito, utilizzando il pretesto della guerra al terrorismo internazionale che, per molti versi, è l’emanazione stessa della politica estera degli Stati Uniti.
Proprio l’Africa è infatti al centro di un’accelerazione dell’impegno americano in questo frangente. Come ha diligentemente scritto lunedì il New York Times, “l’arrivo dello Stato Islamico [ISIS] in Libia ha alimentato il timore che il gruppo fondamentalista possa espandere la propria presenza in altri paesi nordafricani”.
La distruzione della Libia grazie alle manovre occidentali ha finito d’altra parte per destabilizzare tutta l’Africa settentrionale, offrendo all’Occidente nuove possibilità di intervenire militarmente per imporre o salvaguardare i propri interessi strategici. Le forze americane, come spiega sempre il Times, stanno così “aiutando [le forze locali] nella guerra contro al-Qaeda in Mali, Niger e Burkina Faso; contro Boko Haram in Nigeria, Camerun e Ciad; contro al-Shabaab in Somalia e Kenya”.
Proprio un paio di settimane fa, un’incursione dei droni americani aveva colpito un campo di addestramento dell’ISIS a Sabratha, in Libia, uccidendo una quarantina di “militanti”. L’operazione, secondo i vertici militari USA, rientrava nei piani in fase di studio per ampliare anche nel paese che fu di Gheddafi la campagna fatta di bombardamenti mirati contro le forze del terrorismo jihadista.

giovedì 10 marzo 2016

Libia, lo scoop del Nyt e il "pizzino" mandato all'Italia

Il New York Times (e chiaramente a catena tutti gli organi di stampa del mondo che si crede libero) pubblica uno scoop sensazionale martedì pomeriggio: gli Stati Uniti stanno valutando un piano dettagliato contro l'Isis in Libia, insieme agli alleati Italia, Francia e Regno Unito. In particolare, il Pentagono avrebbe presentato alla Casa Bianca, una serie di opzioni a partire da quella che prevede un fuoco di fila di bombardamenti aerei. L'obiettivo dei possibili raid, spiega il New York Times, sono almeno 30-40 'target' in quattro aree del Paese nordafricano. Quindi "c' un piano degli Usa per attaccare la Libia". E la notizia quale sarebbe? Come sappiamo bene, gli Stati Uniti non hanno nessuna premura di effettuare raid aerei contro “target” libici e non hanno armato i droni a Sigonella per una mostra.
E allora perché l'organo principale del regime nord-americano ha voluto mandare al mondo questo messaggio? E a chi è diretto?
Nell’assenza di una politica estera (e militare) comunitaria, in Europa ognuno pensa per sé: Francia e Gran Bretagna sono già impegnate concretamente in Libia.
Come ai tempi in cui questi paesi si divertivano a disegnare con un righello le sorti di intere popolazioni alla fine della prima guerra mondiale, per quanto incredibile e inquietante possa apparire, stiamo assistendo ad un revival coloniale, ad una corsa frenetica tra forze speciali per accaparrarsi per primi, al di fuori di qualsiasi legittimazione internazionale, le risorse petrolifere della Libia, paese per ora inerme, diviso e quindi una facile preda.
Probabilmente, una volta stabilizzato, il paese sarà diviso tra Francia (Fezzan), Gran Bretagna (Cirenaica) e Italia (Tripolitania), mentre gli Stati Uniti vigileranno dall'alto su tutte e tre le zone. Questo piano per divenire operativo necessita dell'intervento italiano perché Francia e Regno Unito, dopo i crimini del 2011, non possono.
E, quindi, gli Stati Uniti, attraverso la non notizia del New York Times - e il giorno dopo il dietrofront di Renzi - stanno semplicemente mandando un "pizzino" all'Italia con scritto: “Fate presto”. Altrimenti della carcassa libica non resterà nulla.

mercoledì 9 marzo 2016

Acqua pubblica: la legge depotenziata

Secondo le Nazioni Unite, ogni essere umano ha bisogno di almeno 50 litri al giorno di acqua potabile per vivere una vita dignitosa. Per alcuni deputati italiani, però, ne bastano 40. Così, almeno, è scritto in uno degli emendamenti alla proposta di legge relativa alla “gestione pubblica delle acque e disposizioni per la ripubblicizzazione del servizio idrico”, che a partire da martedì 8 marzo verrà esaminata dalla Commissione ambiente della Camera dei deputati.
Il testo è “figlio” della Legge d’iniziativa popolare in materia promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, che nel 2007 raccolse oltre 400 mila firme. Ma secondo il Forum, che è attivo dal 2006 e nel 2011 è stato uno dei protagonisti del vittorioso referendum “2 sì per l’acqua bene comune”, “alcuni emendamenti depositati puntano a stravolgere l'impianto generale del testo e ne travisano i principi essenziali, come il riconoscimento del diritto umano all'acqua e il modello di gestione pubblica del servizio idrico integrato”, cioè di acquedotto, depurazione e fognature.
Nel marzo del 2014 la proposta di legge era stata depositata da un centinaio di deputati. Alcuni, però, risultano anche tra coloro che hanno depositato gli emendamenti “truffa”, come sono stati definiti dal Forum, che ha invitato nei giorni 7 e 8 marzo a inviare una mail a tutti i componenti della Commissione ambiente. L’obiettivo: chiedere “il ritiro degli emendamenti che contrastano con i principi ispiratori della proposta di legge e con l'esito del referendum 2011 e con gli impegni condivisi da coloro che hanno deciso di aderire all'intergruppo parlamentare per l'acqua”.
Tra gli elementi critici, vi è la richiesta di una soppressione integrale dell’articolo 6, “Ripubblicizzazione della gestione del servizio idrico integrato. Decadenza delle forme di gestione. Fase transitoria”. Esso prevede, nel testo depositato, che la gestione e l'erogazione del servizio idrico integrato non possono essere separate e possono essere affidate “esclusivamente a enti di diritto pubblico”, cioè a soggetti che non hanno scopo di lucro, e che i gestori non siano “assoggettati […] al patto di stabilità interno”, quello che limita la capacità d’investimento degli enti locali. “Dalla data di entrata in vigore della presente legge -inoltre- non sono possibili acquisizioni di quote azionarie di società di gestione del servizio idrico integrato”. Alla soppressione è destinato anche il successivo articolo 7, relativo alla istituzione del Fondo nazionale per la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato.
Per quanto riguarda invece il quantitativo minimo vitale di acqua potabile da garantire ad ogni cittadino, oltre alla riduzione del 20 per cento (da 50 a 40 litri) del fabbisogno giornaliero stimato, scompare in un emendamento ogni riferimento alla copertura tramite la fiscalità generale.
Inoltre, viene stabilito che “i costi del servizio idrico integrato devono essere integralmente coperti attraverso la tariffa”. L’impostazione del secondo tra i quesiti referendari votati nel 2011, invece, prevedeva lo spostamento della spesa per investimenti sulla fiscalità generale.
Tra gli emendamenti promossi dai deputati della maggioranza ce n’è almeno uno -all’articolo 4- interessante. È quello che stabilisce come “il servizio idrico integrato è considerato un servizio pubblico locale di interesse economico generale”. Per questo, la legge in discussione andrebbe ad intervenire anche sul Testo unico dell’ambiente (152/2006), modificando un comma. Le parole “l’affidamento diretto (cioè senza una gara ad evidenza pubblica, ndr) può avvenire a favore di società interamente pubbliche” sono sostituite dalle seguenti: “In via prioritaria è disposto l'affidamento diretto in favore di società interamente pubbliche”. La gestione pubblica diventa prioritaria, ma non è l’unica possibile (come vorrebbe il Forum italiano dei movimenti per l’acqua).

martedì 8 marzo 2016

Crisi senza vie d'uscita. In primo luogo per il Sud d'Europa

Dopo anni di austerità, il paese sta molto peggio di prima. Le ricette dettate dall'Unione Europea per mettere in ordine i conti pubblici e far ripartire la crescita – taglio della spesa publica, privatizzazioni, taglio di pensioni e welfare, abolizione delle tutele dei lavoratori, abbassamento dei salari reali medi (i nuovi assunti guadagnano molto meno di quelli che vanno a sostituire) - hanno prodotto l'esatto opposto: i conti stanno peggio di prima (il rapporto debito/Pil è aumentanto dal 103 al 133%) e la produzione di ricchezza annuale (Pil) è scesa di 10 punti percentuali.
Un disastro che spinge anche gli analisti di Cnfindustria a chiedersi le ragioni di questa situazione. I più luidi, come Vito Lops de IlSole24Ore, smettono di esercitarsi sulla litania delle “riforme” e si rimettono a ragionare di fondamentali economici. Per scoprire che, sì, dall'unione monetaria in poi (traduzione: dall'adozione dell'euro, nel 2002), sono aumentate le differenze tra Europa del Nord e del Sud. Esattamente come l'unificazione delle “due Germanie”, sulla base del cambio alla pari tra le due monete, aveva distrutto la struttura industriale dell'Est a vantaggio dell'Ovest.
I trattati europei, sistematicamente strutturati per favorire questo trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord (ma anche all'interno di queste aree, con il rafforzamento di alcuni poli meglio inseriti nelle filiere produttive principali e lo smantellamento di altri), rivelano a distanza di anni quanto meno un'incapacità totale dei negoziatori italiani d'allora, ciechi di fronte alle prevedibili conseguenze degli accordi che andavano a firmare. Pesava probabilmente l'idea – l'ideologia – che l'Europa ci avrebbe salvato dai nostri difetti nazionali (ingigantiti dalla dominanza anche “culturale” di un Berlusconi che non si riusciva a ridimensionare per altrettanti incapacità politica interna), così come in Spagna ci si è affidati alla Ue per allontanare i fantasmi del franchismo.
Ma soprattutto quei trattati rivelano il carattere costituente dei rapporti di forza economici esistenti allora e ancor più squilibratisi, di conseguenza, nel corso di questo quindicennio.
Lo si comprende quando l'analisi cerca di individuare un “che fare”, capitalisticamente sensato, e si trova davanti a una serie di non possumus.
Non si possono fare investimenti pubblici perché il vincolo sui conti, essendo peggiorati, si è fatto più stringente. E in assenza di investimenti pubblici quelli privati non si fanno nenanche vedere da lontano.
Non si può aumentare la spesa per “stimolare la domanda”, anzi secondo la Ue andrebbe ulteriormente ridotta (è in arrivo un “richiamo” di Bruxelles al governo per l'eccessiva flessibilità inserita nella legge di stabilità).
Non si può evitare di importare deflazione, naturalmente, perché i prezzi del petrolio e di altre materie prime, crollati in seguito al rallentamento drastico della Cina e altri paesi emergenti, non dipendono dalle scelte di politica economica dei governi nazionali, neanche dellle superpotenze.
Ammanettati e imbavagliati, insomma, costretti ad accantonare “avanzi primari” solo per ripagare debiti che – con la deflazione e il Pil in negativo – aumentano invece di diminuire.
Ovvio che in una gabbia simile, oltre al benessere economico, vada in frantumi anche la Costituzione, la partecipazione popolare alla vita politica, la democrazia parlamentare stessa. Un ripiegamento senza fine, se non ci vede quanto vicini si è al punto di non ritorno.

lunedì 7 marzo 2016

Il messaggio a Renzi dal cuore di tenebra della Libia

Il ministro degli Esteri del governo di Tripoli, Aly Abuzaakouk, ha detto che il suo governo non accetterà mai alcun intervento militare straniero in Libia ammantato sotto qualsiasi scusa. A riferirlo è l'agenzia Mena riportando una dichiarazione fatta ieri dal ministro in televisione. Su eventuali operazioni militari internazionali contro "coloro che si riconoscono nell'Isis", Abuzaakouk ha detto che "siamo in grado di combattere questi gruppi e respingere qualsiasi intervento militare nel paese", riferisce l'agenzia egiziana.
La Mena aggiunge che il ministro ha smentito di aver detto ai media italiani di aver bisogno di un ruolo dell'Italia nella guida delle operazioni internazionali. In effetti in una intervista rilasciata al Corriere della Sera il ministro pochi giorni fa, il ministro degli esteri libico aveva detto testualmente: “A noi va anche bene che l'Italia assuma il ruolo di leader dell'intervento internazionale nella guerra contro le forze emergenti dell'Isis in Libia. Ma attenzione: occorre che qualsiasi azione militare nel Paese sia minuziosamente concordata con il nostro governo a Tripoli e le nostre forze militari sul campo. Se così non fosse, qualsiasi tipo di operazione si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale".
Il problema poi è che il famoso governo di unità nazionale stenta a prendere vita. La conferma viene dall’intervista rilasciata oggi dal ministro degli esteri Gentiloni al Sole 24 Ore: “ Il percorso è sempre stato definito da chi lo ha promosso assolutamente fragile ed è incompiuto perché c’è una maggioranza nel Parlamento di Tobruk per varare il governo di accordo nazionale ma a questa maggioranza finora non è stato consentito di esprimersi” ha ammesso Gentiloni.
Intanto sono rientrati questa mattina in Italia i due tecnici della Bonatti sequestrati in Libia mesi fa e sopravvissuti al rapimento. L’aereo è atterrato all’aeroporto di Ciampino alle 5 di questa mattina . Sul loro rilascio e sull’uccisione degli altri due tecnici pesano ancora molte ombre e interrogativi. In base ad alcune fonti i due tecnici uccisi sarebbero stati giustiziati con un colpo alla nuca poco prima che il convoglio dei rapitori si scontrasse con le forze di sicurezza libica. Altre fonti parlano invece di un loro utilizzo come scudi umani finiti sotto il fuoco “amico” dei miliziani che li avevano scambiati per uomini dell&#
39;Isis, in una strada in mezzo al deserto a circa 30 Km da Sabrata. Infine non è chiaro se i due tecnici che oggi sono tornati in Italia siano stati liberati con un blitz oppure siano stati semplicemente abbandonati dai sequestratori in fuga, in una zona periferica di Sabrata.
Il presidente del consiglio Renzi si barcamena dentro una crisi internazionale estremamente seria e che mal si presta alle rodomontate con cui è abituato a gestire la politica interna. La linea del governo italiano, ha detto Renzi ieri sulla enews, è chiara e non cambia: un eventuale impegno in Libia potrebbe esserci solo “sulla base della richiesta di un governo legittimato» di quel paese, e «comunque avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari e istituzionali necessari”. La parola guerra, ha ammonito Renzi è troppo “drammaticamente seria per essere evocata con la facilità con cui viene utilizzata in queste ore da alcune forze politiche e da alcuni commentatori. Prudenza, equilibrio, buon senso: queste le nostre parole d'ordine, ben diverse da chi immagina di intervenire in modo superficiale e poco assennato”.
Un atteggiamento giustamente prudente ma che contrasta con gli operation order già attivati in tutto il sistema militare di basi, flotte e contingenti e che troppo spesso hanno messo il Parlamento davanti al fatto compiuto. A dire come stanno le cose del terreno è stato l’ex premier Romano Prodi intervenendo al festival di Limes, la rivista di geopolitica, in corso a Genova. "Il problema della Libia -ha detto Prodi - è di un Paese in totale dissoluzione. Per questo quando dico che non si può andare in guerra se non c'è un richiamo totale del Paese, perché entrare in un Paese in dissoluzione con una forza armata significa radunare tutti contro di sé. Non credo che né l'Italia né qualcun altro possa permetterselo".
Continuano nel frattempo i posizionamenti sul terreno. "Una squadra di circa 20 soldati dal 4 ° brigata di fanteria si sta ora spostando verso la Tunisia per aiutare a contrastare la circolazione illegale transfrontaliera dalla Libia e a sostegno delle autorità tunisine", ha fatto sapere il ministro delle difesa britannico Michael Fallon.