Sono giorni caldi questi per la Fiat. Il Salone dell’auto di Detroit è
un appuntamento importante per il mondo dell’auto, che sta vivendo un
periodo di discreta ripresa. L’ad Sergio Marchionne ne ha approfittato
per ricordare gli obiettivi del piano quadriennale presentato nel 2014:
fatturato a 110 miliardi, un utile operativo di 9, almeno 5 di utile
netto. L’azzeramento dell’indebitamento è l’altro punto chiave per
passare una buona mano a chi verrà dopo di lui. La metafora della cucina
funzionante, neanche fosse un fuorisede all’Università di Bologna, è
agghiacciante, ma i risultati gli stanno dando ragione. A due anni di
distanza, si può ormai dire che la fusione con Chrysler è andata in
porto ottimamente ed è soprattutto uno dei marchi di fresca
acquisizione, Jeep,a conoscere una fase di espansione continua,
frantumando tutti i record dei precedenti 75 anni di carriera.
La
figura di Sergio Marchionne è piuttosto controversa e si presta a due
interpretazioni decisamente contrastanti, che ricalcano la grande
contrapposizione politica dei nostri tempi.Se si analizzano gli anni del
suo imperio dall’ottica di Exor, la controllante che fa capo alla
famiglia Agnelli, l’ad in cashmere si è meritato tutti i bonus che gli
hanno staccato. Fca non era così in salute da tanto tempo, nonostante
gli anni di crisi del settore. I conti sono in continuo miglioramento,
aiutati dall’acquisizione di Chrysler a prezzo di saldo e dalla sua
successiva rivalutazione, e il gruppo si sta consolidando come il
settimo a livello globale, raggiungendola massa criticanecessaria per
poter sopravvivere tra i colossi del settore, con in più qualche
prezioso fiore all’occhiello come Ferrari.
Sono dunque tanti gli
estimatori dell’amministratore delegato, e non tutti di casa
Elkann/Agnelli. Chiunque sia impregnato di pensiero liberista (e della
sua retorica) non può che incensare la gestione di un gruppo dal futuro
roseo che solo dieci anni fa pareva in perpetua difficoltà. Miracoli
della reductio ad utile.A supportare il mero dato economico spesso entra
in gioco l’abusata retorica della libertà (del padrone). Il concetto di
libertà è ormai talmente stressato ed abusato nella sua polisemia da
aver bisogno di una ridefinizione radicale. In sostanza, comunque, per i
sostenitori del liberismo (e del capitale) il padrone è libero di fare
quel che vuole e giustamente approfitta dei vantaggi che il libero
mercato su scala globale gli offre, altrimenti è un cattivo manager (e
questo è un ragionamento in parte fondato). La seconda parte del
ragionamento, che solitamente segue la prima, cioè che se l’azienda va
bene qualche vantaggio lo avremo tutti, spesso è atrocemente miope. Ci
torneremo più avanti.Avrà fatto piacere a molti sapere che tra i
principali sostenitori del Marchionne-pensiero sta Matteo Renzi. I due,
accumunatinella lotta ai “gufi”, non si lesinano le reciproche leccate
di piume. L’ironia del Premier, in particolare, è nota almeno quanto la
sua miopia. Il 4 settembre twittò: “In bocca al lupo ai lavoratori Fiat
di Mirafiori che rientrano in fabbrica. I primi ripartono lunedì
#italiariparte”.
Peccato che Mirafiori quando venne inaugurata nel 1939 fosse un fiore
all’occhiello mondiale per il Paese, esempio supremo dell’applicazione
dei principi del taylorismo, e nel dopoguerra superò i 50000 addetti.
Oggi ne rimangono 5400, cassintegrati da anni, per un monte ore ormai
incalcolabile, e la Fiomha approfittato dell’inaugurazione del salone di
Detroit per annunciare la firma di un nuovo accordo di cigs (sigh).
Se i numeri globali di Fca sono buoni, comunque, qualche dubbio in più
lo fanno venire i numeri italiani, specie sul fonte lavoro, e qui si
delineano le motivazioni degli anti-Marchionne.Dell’abuso della cassa
integrazione in Italia nel medesimo periodo si è già accennato: solo nel
2013, due terzi dei 30000 addetti del gruppo erano cassintegrati a zero
ore. Le cose ora vanno un pochino meglio, grazie ad un mercato in
ripresa, ma dal 2003 ad oggi il numero complessivo di addetti passava da
44mila a 23mila persone, un’ecatombe. L’altra grande ombra
sull’amministratore delegato e ciò che rappresenta è il rapporto col
territorio (e con la storia del gruppo stesso), e qua ci si ricollega ai
presunti benefici che il buon andamento di Fca dovrebbe avere per tutti
(inteso come gli italiani, che faticano a capire che Fiat sia ormai un
“marchio globale” e quali siano le implicazioni di questa affermazione).
Qualunque azienda ha col suo territorio un rapporto di amore/odio (e al
posto di azienda e territorio si potrebbero usare, rispettivamente, i
termini padrone/lavoratori o capitale/lavoro). L’inghippo sta in questa
proposizione “se l’azienda va bene c’è lavoro, se va male no”, che aveva
un senso quando esistevano barriere di vario ordine (culturali,
psicologiche, linguistiche, legislative, tecniche, infrastrutturali),
oggi non più. Fiat ha ricevuto tanto dall’Italia e dagli italiani (e
pure dato, in realtà). Stando alla Cgia di Mestre, un’ottima fonte di
dati, circa 7,6 miliardi di euro dal 1977 a oggi, senza contare
incentivi ed agevolazioni, così come la cassa integrazione, che oltre ad
essere un ammortizzatore sociale è pure “uno strumento per fare
margine”, stando alle parole dello stesso Marchionne. Eppure, senza
tanti scrupoli, la sede legale è stata spostata in Olanda (dove le
regole di governance consentono un controllo più stretto alla Exor) e
soprattutto la sede fiscale in Inghilterra, dove la tassazione per le
imprese è decisamente più favorevole (e questo un impatto negativo sugli
italiani ce l’ha eccome). D’altronde, lo stesso Marchionne ha la
residenza fiscale in Svizzera, nel cantone di Zugo, dove l’aliquota
massima è del 23 percento.
Un impatto ancora più diretto sulla
salute dell’economia (e dei lavoratori) italiana ce l’ha la politica
degli investimenti (che pure, ad onor del vero, pare stiano
faticosamente ripartendo anche qua). Perché anche se Marchionne ha più
volte dichiarato che l’Italia rimarrà strategica per il gruppo, è
altrettanto vero che strategica non vuol dire centrale e che i fatti
abbiamo ampiamente smentito le sue parole. Mentre abusava della cassa
integrazione in Italia infatti,Fca investiva, congiuntamente al governo
serbo, circa 1,2 miliardi nel distretto industriale della fu Zastava, la
fabbrica di automobili della Jugoslavia, a Kragujevac, assumendo 3000
persone, pagate 300 euro al mese per turni da 12 ore. Qualora non lo
sapeste, la 500L si produce in Serbia a queste condizioni. Eppure la
disoccupazione in Serbia è alle stelle e i conti pubblici in difficoltà,
dunque a Fiat non si può dir di no. E’, questa, una costante del
capitalismo, che vive sugli sviluppi asimmetrici. Quando cadono le
barriere che limitano la circolazione di capitali e merci, la
concorrenza diventa spietata e, soprattutto, al ribasso. Dunque le
fabbriche volano dove i lavoratori hanno meno tutele (o sono più
competitivi, a seconda dei punti di vista) e le residenze fiscali dove
le tasse sono più basse (o dove lo Stato si piega a chi detiene il vero
potere, cioè le grandi corporation, sperando di avere un vantaggio
momentaneo facendo dumping fiscale e tagliando servizi).
Quelle
in campo sono due visioni antitetiche del mondo. Mike Manley, Head of
Jeep Brand, ha dichiarato, commentando i risultati positive di Jeep:
“Nel 2015 abbiamo inaugurato uno stabilimento di produzione in Brasile e
siamo tornati a produrre anche in Cina dopo un’assenza di quasi dieci
anni, rendendo così il marchio Jeep ancora più globale”. Ecco, il punto
della questione, e della valutazione dell’operato del simbolo
Marchionne, sta tutto qua: localismo vs globalismo, sovrapponibile a
lavoro vs capitale.
Il grande limite di questo modello di
sviluppo è evidente: la concorrenza al ribasso, fiscale o salariale,
oltre a garantire grandi margini e pochissime tutele, cioè a far vincere
il capitale sul lavoro, è destinata a portare il mondo in una spirale
recessiva (che si sta già avvicinando, visto che l’Europa della
delocalizzazione e dell’austerity è il buco nero della domanda globale).
Questo lo capì già Henry Ford, quello della Ford T, che ispirò un
Giovanni Agnelli in America ad inizio Novecento per imparare dagli
americani: se vuoi vendere, qualcuno deve comprare, e quel qualcuno sono
i tuoi operai. Ford passò alla storia per la catena di montaggio, ma
quello fu solo uno degli aspetti dell’applicazione dei principi del
taylorismo. La prima cosa che fece, infatti, fu rivalutare i salari dei
suoi dipendenti, che la Ford T così cominciarono a comprarla. Oltre un
secolo dopo, Marchionne sembra aver dimenticato la lezione.