domenica 31 gennaio 2016

La retorica dei diritti civili dalle "autorità morali" che hanno distrutto Libia e Siria

Un Paese scandalizzato per le statue coperte durante la visita del presidente iraniano Rohani in Italia. Capirei lo scandalo se non provenisse - e fosse aizzato - dalle stesse autorità "morali" che nulla hanno da dire sul sostegno dato a orde di terroristi islamici nell'aggredire un Paese come la Siria che in Medio Oriente si segnalava anche per l'avanzata condizione femminile. A queste stesse "autorità morali" chiederei quale sia ora la condizione delle donne in Libia dopo la "liberazione" del 2011 grazie alle nostre armi!
Ancora una volta la retorica - perché tale è in questo quadro - dei diritti civili presiede ad una operazione di delegittimazione di un Paese - l'Iran - uscito da anni di proscrizione e fautore di un ordine internazionale cooperante.

sabato 30 gennaio 2016

La NATO verso il collasso

Il 27 gennaio il comando europeo delle Forze Armate degli Stati Uniti (EUCOM) stilava l’aggiornamento della strategia in Europa per “Impedire l’aggressione russa sotto forma di crescente comportamento aggressivo e militarizzazione dell’Artico. La Russia è una sfida seria ai nostri alleati e partner in diverse regioni, è un problema globale che richiede una risposta globale”. Il rappresentante permanente della Russia presso la NATO, Aleksandr Grushko, ha detto “è impossibile commentare nelle forme corrette, perché tale tesi è completamente al di fuori della realtà. Tale formulazione prevede che gli Stati Uniti riuniscano gli alleati, i cui ranghi sono ultimamente dispersi. Dato che nuove minacce e sfide richiedono risposte collettive, devono riunirsi sotto l’ala degli Stati Uniti ed esser costretti ad investire nella difesa per rafforzare il fianco orientale con una nuova cortina di ferro. Le ragioni dell’adozione della nuova strategia sono più profonde del mero desiderio degli Stati Uniti di radunare gli alleati europei” dichiarava il Vicedirettore del Centro informazioni analitiche di Tauride Sergej Ermakov. “La grave esacerbazione delle relazioni con la Russia è il compito principale del comando europeo degli Stati Uniti, per “garantirsi un ambiente sicuro”. Intendendo esattamente l’allineamento degli alleati europei a ranghi serrati e il rafforzamento della NATO come strumento per normalizzare la presenza militare degli Stati Uniti nella regione. Gli USA vogliono rafforzare la NATO, ma non tutti i Paesi membri dell’Alleanza hanno fretta di aumentare la spesa per la difesa”. Alcuni Paesi come Polonia ed Estonia hanno aumentato la spesa militare ben al 2% del PIL, un contributo insignificante. Inoltre il comando europeo degli Stati Uniti negli ultimi 10 anni ha seriamente ridotto il dispiegamento militare. “La copertura dei territori controllati dall’EUCOM è addirittura aumentata verso la regione artica. Formalmente la zona di responsabilità del Comando Europeo ha lasciato l’Africa perché è stato creato il Comando Africa degli Stati Uniti, ma in realtà AFRICOM si basa sulle risorse di EUCOM. Obiettivi vaghi, risorse limitate e assenza di serie minacce militari all’Europa, fino a poco prima, permisero ad EUCOM una vita rilassata… Ma dopo i fatti di Crimea si è scatenato l’inferno”. Il fatto che l’esercito russo potesse operare con successo in condizioni di combattimento quasi reale fu una sorpresa sgradevole, in particolare effettuando quelle operazioni che la NATO classifica come “intervento umanitario”. “Ciò ha comportato cambiamenti nella cosiddetta concezione dello schieramento avanzato volto a rafforzare la presenza statunitense in Europa. L’obiettivo di EUCOM è creare una fitta rete di piccole basi in Europa, permettendo agli USA di rischierarvi le proprie forze contro la Russia. Ma se durante la Guerra Fredda gli USA avevano 400000 soldati in Europa, dopo il “rafforzamento della presenza statunitense in Europa” saranno circa 80000”.
Ciò impone alla Federazione russa d'”Investire nella Difesa e a costruire una linea difensiva. Questo è necessario, anche se tali azioni possono scatenare una nuova corsa agli armamenti… Oggi c’è un graduale cambio di leadership nello spazio geopolitico globale“, dichiarava l’accademico dell’Accademia dei problemi geopolitici, l’ex-direttore del Primo Dipartimento per la Cooperazione Militare Internazionale del Ministero della Difesa della Federazione Russa, Colonnello-Generale Leonid Ivashov. “L’occidente si è esaurito ed ora molla, mentre l’età dell’Oriente si afferma. In questo processo assistiamo ad una rivolta contro il diktat statunitense. Come sempre, gli alleati di ieri iniziano ad agire contro Washington. Arabia Saudita e Turchia vedono che l’Iran ha raggiunto il suo obiettivo liberandosi dalle sanzioni. Il processo globale di liberazione dalla dittatura statunitense appare ovvio anche all’Europa. Perciò gli Stati Uniti cercano di sopprimere l’aspirazione russa all’indipendenza, per mantenere anche l’Europa sotto controllo. In caso contrario, c’è il rischio che la liberazione dalla dittatura statunitense diventi un massiccio movimento coordinato. Per riunire l’Europa, è necessario esibire una minaccia estera comune, pratica comune degli Stati Uniti. Quando la minaccia diventa lo SIIL e i profughi da Medio Oriente e Nord Africa, la Russia passa in secondo piano e la solidarietà della NATO comincia ad andare a pezzi. Così gli statunitensi fanno tutto il possibile per presentare i russi nel familiare ruolo di principale nemico. Nel 2015, ricordo, gli Stati Uniti adottarono la nuova strategia di sicurezza nazionale. Nel documento la Russia veniva indicata 13 volte sempre in un contesto negativo. La Russia è il principale nemico nella dottrina militare aggiornata degli Stati Uniti, che ora cercano di riscrivere i punti chiave della strategia della NATO. E’ impossibile aspettarsi altro dagli Stati Uniti date le attuali condizioni“.

venerdì 29 gennaio 2016

Pensionati in fuga

“Una nuova partenza”. “Colora il tuo futuro”. Lo suggerisce ai pensionati italiani una delle nuove agenzie nate per orientarli e supportarli - occupandosi delle pratiche burocratiche per il trasferimento di residenza, della pensione e del conto bancario, oltre che dell’individuazione dell’immobile più consono alle esigenze dei clienti - nella fuga dal Belpaese. Perché non vivere meglio? Perché si, ammoniscono dalle pagine del loro sito.
“Basta vivere in mezzo a tristi palazzi di cemento al freddo e umido”, pagando “affitti molto cari, bollette astronomiche, tasse sempre maggiori”. Tutte buone ragioni che, insieme al “costo della vita elevato, clima freddo e piovoso, criminalità crescente”, stanno rendendo sempre più massiccio l’esodo dei capelli grigi italiani.
Facendo due conti, in effetti, dal 2008 a oggi un pensionato italiano ha perso mille e quattrocento euro di potere d’acquisto, corrispondente a centodiciotto euro al mese, essendo soggetti a un prelievo doppio rispetto a quello spagnolo, triplo rispetto a quello francese e si va dagli oltre quattromila euro sopportati dal pensionato italiano ai trentanove a carico di quello tedesco. Tanto vale trasferirsi a Tenerife, Lanzarote, Bulgaria e Portogallo.
Perché sono “uno spettacolo della natura” o perché è “l’isola dove è sempre primavera”, oppure perché si respira “cultura, sole e mare a tasso zero”, e così “raddoppia la pensione e la serenità”. Soprattutto se si considera che in alcuni Stati si può chiedere all’INPS di ricevere la pensione lorda, cioè comprensiva delle tasse che non si pagheranno più in Italia, che un appartamento in buono stato, in affitto per una coppia, si trova a centocinquanta euro al mese e che la bolletta dell’energia elettrica, utilizzata anche per il riscaldamento (è il caso della Bulgaria), non supera i sessanta euro mensili.
Insomma, “non è mai troppo tardi per realizzare i propri sogni”, si legge nella home page di un’altra agenzia che fornisce assistenza per servizi amministrativi e tecnici, dalla consulenza fiscale o immobiliare all’organizzazione di eventi e corsi per chi già si è trasferito. In un Paese dove il regime fiscale è agevolato sia per il lavoro autonomo e dipendente sia per gli investimenti, dove l’IVA non esiste ed è sostituita da un’aliquota unica, corrispondente al 7 per cento e in cui il costo della vita è molto basso, dicono.
Dove la benzina costa poco più di un euro al litro, un pacchetto di sigarette due euro e sessantatre centesimi, il noleggio di una macchina per un mese, con un chilometraggio illimitato, trecentocinquanta euro. Dulcis in fundo, il sistema sanitario (in questo caso, delle Canarie) è eccellente.
Perché no, dunque? I numeri, dati INPS del 2014, parlano chiaro: in Europa si riscontra un incremento del 5,7 per cento rispetto all’anno precedente, passando da circa duemila e trecento pensionati, soprattutto fra i sessanta e i sessantaquattro anni, fuggiti nel 2010 a oltre cinquemila solo nel 2015. Per loro, l’importo medio mensile è più elevato, a rappresentare che emigrano titolari di pensioni medio-alte, tipo pensionati cessati al pubblico impiego che si trasferiscono all’estero per sfruttare la propria esperienza professionale Oltralpe.
Principalmente in Svizzera, Germania, Francia, Spagna, Belgio, Romania, Slovenia, Gran Bretagna e Polonia. Novità degli ultimi anni, l’esodo dei pensionati militari, i quali, dopo essere diventati titolari di pensione, sono ‘fuggiti’ dal Belpaese: rappresentano il 23,5 per cento del totale delle pensioni pubbliche pagate oltre i confini nazionali. Coraggiosi i pensionati dello Stivale, disposti a imparare una nuova lingua per vivere una nuova vita.

giovedì 28 gennaio 2016

Qatar 2022, una prigione a cielo aperto

Durissimo atto d’accusa della Confederazione sindacale internazionale (Ituc) agli organizzatori dei Mondiali di calcio: “Uno Stato schiavistico, negati diritti e libertà fondamentali”. Mille morti sul lavoro all’anno, stimate ulteriori 7 mila vittime
“Il costo del ‘business’ nello stato schiavistico del Qatar è la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali per 1,8 milioni di lavoratori migranti”. È con questo atto d’accusa netto e coraggioso che Sharan Burrow, segretario generale dell’International trade union confederation (Ituc), introduce il “Frontlines Report 2015”, redatto dalla Confederazione sul Qatar e sui lavori che il paese arabo sta realizzando per i Mondiali di calcio del 2022. Un atto d’accusa che non risparmia nessuno: governo, imprese di costruzione, multinazionali, catene alberghiere e di distribuzione, università occidentali, tutti complici nel mantenere un sistema fondato sul “modello della moderna schiavitù, che nega i diritti umani e del lavoro e istituzionalizza l’abuso, la povertà dei salari, le condizioni di lavoro estreme e le squallide condizioni di vita”. Parole durissime, quelle di Burrow: “Il Qatar è una prigione a cielo aperto e i suoi leader vogliono mantenerla così”.
La Coppa del mondo Fifa 2022 è un “business” gigantesco. Il volume d’affari complessivo è superiore ai 200 bilioni di dollari (ricordiamo che un bilione è pari a mille miliardi), di cui beneficiano anzitutto le corporation di costruzioni e logistica dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti (attraverso joint venture con partner locali). “Il Qatar – spiega il rapporto Ituc – ha bisogno non solo di costruire nuovi stadi di calcio per le partite, ma, a differenza delle altre nazioni ospitanti più recenti, il piccolo Stato del Golfo ha bisogno di costruire anche tutto il resto, come alberghi, nuovo, aeroporto, campi di allenamento, trasporti pubblici, strade, reti di elettricità e acqua, infrastrutture di ogni genere”.
I lavoratori migranti sono impiegati sei giorni su sette, per 78 ore a settimana. Gli straordinati non sono pagati e la temperatura arriva fino a 49 gradi
Attualmente lavorano in Qatar 1,8 milioni di migranti: il gruppo più numeroso proviene dall’India (800 mila), seguono i lavoratori del Nepal (700 mila). Non è facile indicare esattamente il numero di infortuni, a causa del rifiuto del governo di pubblicare statistiche specifiche o consentire indagini indipendenti. Un calcolo realizzato sulla base dell’Health Report 2013 del Qatar (pubblicato nell’aprile scorso), che riporta il tasso di mortalità per gli stranieri in età lavorativa, raggiunge l’impressionante cifra di 1.091 decessi all'anno. Da qui la stima dell'Ituc “che più di 7 mila lavoratori moriranno prima che un pallone sia calciato alla Coppa del mondo”.
Ma la cifra potrebbe essere sottostimata: dai ufficiali dei governi di India e Nepal affermano che dal 2010 sono morti in Qatar 1.993 lavoratori. Riguardo le cause, infine, dall’Health Report si apprende che il 44,2 per cento dei decessi avviene per “cause interne” (cioè malattie, come “gli effetti della disidratazione da calore estremo sul lavoro e di notte nei campi di lavoro), il 22,6 per “cause esterne” (ossia traumi, che comprendono “gli incidenti sul posto, come cadute o essere colpiti da oggetti e da veicoli) e il 33,2 per “cause non classificate”.
Il mondo del lavoro in Qatar si basa sul cosiddetto Kafala: questo significa che i lavoratori migranti “sono controllati da un'altra persona: non possono lasciare il paese (i loro passaporti sono sequestrati), o lavorare per un'altra società, senza l’assenso del loro datore di lavoro; è negato loro il diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva; è negato loro il diritto di prendere in prestito denaro da una banca, di affittare una casa o di ottenere la patente di guida senza l’assenso del datore di lavoro”. Una moderna forma di schiavitù, appunto, che vede i lavoratori esposti all’arbitrio e privi di protezione. Che vede, si legge nel Frontlines Report, la connivenza dell’Occidente: “L'orrore è che i governi di tutto il mondo sono in silenzio. Prendono i soldi dal Qatar e mandano politici di alto livello a capo di missioni diplomatiche e commerciali, ma non riescono a chiedere diritti e libertà fondamentali”.
«Un modello di moderna schiavitù, che nega i diritti umani e del lavoro e istituzionalizza l’abuso e la povertà dei salari» denuncia il segretario dell'Ituc
Gli operai che stanno costruendo a Doha il Khalifa Stadium, ad esempio, sono impiegati 13 ore al giorno per sei giorni, per complessive 78 ore settimanali, con una paga oraria di 1,3 euro. E sono tra quelli pagati meglio: “Per andare a lavorare in Qatar, nel settembre 2014, ho pagato all’agenzia di reclutamento 75 mila rupie nepalesi (pari a 630 euro)” racconta Aardash, lavoratore nepalese di 22 anni. “Il contratto firmato a Kathmandu – continua – era di elettricista, per 1.200 rial qatarioti (300 euro). Ma arrivato in Qatar ho dovuto firmare un contratto diverso: da operaio, per 800 rial (200 euro)”. E arriviamo alle condizioni di lavoro: “Ho lavorato sotto il sole fino a 49 gradi, più volte ho sanguinato dal naso. Mi è stato permesso di riposare per un po’, ma poi ho sempre dovuto riprendere a lavorare. Non sono mai stato pagato per il lavoro straordinario. Un giorno sono caduto e mi sono rotto il braccio, ma l'azienda non ha coperto tutte le spese mediche”.
I lavoratori stranieri sono “ospitati” in “campi di lavoro” siti nelle aree industriali o nei quartieri periferici della città. “Al campo di lavoro ci fornivano solo l’acqua, e soltanto a volte, il resto lo abbiamo dovuto comprare. Abbiamo condiviso una stanza in sei persone, avevamo 12 bagni per 120 persone e una cucina per 20 persone” riprende Aardash: “Per il cibo c'era un solo negozio, appena al di fuori del campo, e nessun altro negozio nelle vicinanze”. Dopo i loro spostamenti i lavoratori, si legge nel Report, tornano nei “campi di lavoro sovraffollati e squallidi, con servizi limitati, nessun accesso all'acqua potabile e poche possibilità di ripararsi dal caldo. Molte parti di Doha, inoltre, sono designate come ‘zone di famiglia’: sono quindi off-limits per i lavoratori migranti, limitando ulteriormente la loro libertà di circolazione”.

martedì 26 gennaio 2016

Lettura, italiani bocciati

Dal 2011 è in calo. Nel 2015, solo il 42 per cento degli italiani che sanno far di conto ha letto almeno un libro in un anno. Troppo pochi. Tanto quanto il numero di libri che possiedono: solo il 64,4 per cento ne conta al massimo cento nella libreria domestica e una famiglia su dieci non ne ha nemmeno uno. Sebbene i lettori più assidui abbiano fra i quindici e i diciassette anni, la scuola non basta: l’ambiente famigliare è un fattore determinante nella misura in cui i genitori leggono libri.
Se ne leggono, in media, uno al mese, sono ‘lettori forti’, pari al 13,7 per cento; quando ne leggono non più di tre all’anno, cioè il 45,5 per cento, sono ‘deboli’. Più forti le femmine dei maschi, i laureati rispetto a chi possiede la licenza media. Più al Nord, con il Nord Ovest da record, e nei comuni centro di aree metropolitane versus i comuni con meno di duemila abitanti, che al Sud. Dove meno di una persona su tre ha letto almeno un libro; nelle Isole, invece, sono in aumento rispetto all’anno precedente.
Una crescita che fa aumentare anche la partecipazione culturale: fra i lettori, infatti, sono più elevate le quote di quelli interessati pure ad altre attività culturali. Che praticano sport e navigano in internet, frequentano musei, teatri e cinema; ascoltano concerti e sfogliano un quotidiano almeno una volta alla settimana. Raggiungendo livelli più alti di soddisfazione per il proprio tempo libero e per la propria situazione economica.
A proposito della quale, nel 2014, le famiglie del Belpaese hanno speso per i libri, poco più di tre milioni di euro, cioè undici euro al mese, utilizzando lo 0,4 per cento della loro spesa complessiva (sic). Dirigenti, imprenditori, liberi professionisti, direttivi, quadri e impiegati raggiungono livelli di lettura superiori alla media contro operai, casalinghe e disoccupati. A conferma che la minore disponibilità di reddito riduce anche le opportunità culturali.
Proprio le disponibilità economiche sono le caratteristiche costitutive dei non lettori, che rappresentano la metà della popolazione in ben quattordici regioni italiane su venti, con un primato negativo per la Campania e la Puglia, le quali appaiono persistenti negli ultimi quindici anni e confermano fattori di disuguaglianza e di svantaggi di natura quasi strutturale. Per il superamento dei quali è certamente fondamentale la biblioteca, se non fosse però che nello Stivale, una su due di queste istituzioni chiave per la promozione della lettura (e quindi della cultura per tutti) ha sede nelle regioni settentrionali.
Da precisare che la non lettura coesiste con altre pervasive forme di esclusione e genera atteggiamenti pessimistici. Che non possono non cogliere anche chi legge il report dell’Istat “La lettura in Italia”, laddove c’è scritto che il Belpaese si trova in netto svantaggio rispetto alla media Ocse: ventunesimo posto per i giovani fra i sedici e i ventiquattro anni e ventesimo per la fascia d’età che va dai cinquantacinque ai sessantacinque anni.
Ultimi in classifica: i maschi, le persone con istruzione di livello universitario, i lavoratori qualificati e non e persino i madrelingua italiani. Parafrasando il titolo di un libro di Frank McCourt, ‘Che Paese, l’Italia’.

lunedì 25 gennaio 2016

Ustica!! Condannati tre ministeri.

In attesa dei risultati dell’inchiesta penale che non era stata archiviata, continuano le sentenze del Tribunale civile di Palermo per i familiari delle vittime della strage di Ustica. I ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire, per una cifra che sfiora complessivamente i 12 milioni di euro, altri 31 familiari delle 81 vittime del disastro del Dc-9 Itavia precipitato al largo di Ustica il 27 giugno 1980 mentre da Bologna andava a Palermo. Con tre distinte sentenze, emesse il 13 e il 19 gennaio, che si vanno ad aggiungere a quelle già emesse nel capoluogo siciliano, alcune delle quali confermate anche in appello, il tribunale civile di Palermo ha stabilito che lo Stato dovrà pagare. Era stata la Cassazione a stabilire la responsabilità dei ministeri facendo ripartire la battaglia legale per i risarcimenti. Per i supremi giudici il veivolo era stato abbattuto da un missile.
Secondo i giudici della terza sezione civile, Giuseppe Rini e Paolo Criscuoli, il disastro del volo Itavia fu causato con “elevata probabilità” da un missile o da una “quasi collisione” con un altro velivolo intruso, perciò da un evento esterno alla carlinga dell’aereo.
Rimangono confermate le conclusioni della sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore che nel 1999, dopo anni di indagini e analisi sui tracciati radar di Ciampino, affermò che il Dc-9 era stato abbattuto nel corso di una battaglia aerea e che la sua rotta era stata disturbata da caccia militari di diversi Paesi tuttora da identificare.

domenica 24 gennaio 2016

L’Italia non attira talenti

L'Italia è al 41esimo posto, in un ranking che comprende 109 Paesi, per la capacità di attirare talenti e la mobilità internazionale.
Da un lato, infatti, il nostro Paese vanta alti standard dal punto di vista della capacità di sviluppare e formare talenti e le loro competenze professionali, dall'altro però non risulta sugli stessi livelli per quanto riguarda la capacità di attrarre nuovi talenti e professionisti. E' quanto emerge dal 'Global Talent Competitiveness Index (Gtci)' 2015-16, studio pubblicato da Insead, istituto di direzione aziendale internazionale, e fondato sulla ricerca condotta in collaborazione con Adecco Group e Hcli (Human Capital Leadership Institute di Singapore).
La mobilità, secondo lo studio, è fondamentale per colmare i gap di competenze; inoltre, un'alta percentuale di lavoratori orientati a innovazione e imprenditorialità sono nati o hanno studiato all'estero.

I tre paesi migliori in termini di competitività dei talenti sono la Svizzera al primo posto, seguita da Singapore e Lussemburgo, rispettivamente secondo e terzo classificato, a conferma delle posizioni del 2014.
I paesi classificati nella top 10 hanno dimostrato una chiara apertura in termini di mobilità dei talenti: circa il 25% delle rispettive popolazioni di Svizzera e Lussemburgo è nato all'estero; la percentuale sale al 43% a Singapore. La proporzione è significativa anche negli Stati Uniti (4), Canada (9), Nuova Zelanda (11), Austria (15) e Irlanda (16).
La top 20 non ha subito modifiche rilevanti rispetto alla pubblicazione dell'ultima edizione della relazione Gtci, fatta eccezione per l'ingresso della Repubblica Ceca (20) nel gruppo, il netto miglioramento della performance della Nuova Zelanda e una modesta flessione per Canada e Irlanda. Quest'anno, inoltre, l'indice Gtci ha ottimizzato la copertura geografica, analizzando 109 stati (rispetto ai 93 del 2014), che rappresentano l'83,8% della popolazione mondiale e il 96,2% del Pil mondiale.

venerdì 22 gennaio 2016

L'Intifada dei coltelli e la democrazia israeliana

Akiva Eldar, in un ar­ti­co­lo per al Mo­ni­tor del 19 gen­na­io, ha ri­cor­da­to l’an­ni­ver­sa­rio della stra­ge di Kafr Qasim, quan­do, ses­san­t’an­ni fa, l’e­ser­ci­to israe­lia­no uc­ci­se ses­san­ta pa­le­sti­ne­si rei di aver vio­la­to il co­pri­fuo­co. Un an­ni­ver­sa­rio che l’e­di­to­ria­li­sta di Haa­re­tz ri­cor­da per ac­cen­na­re al­l’at­tua­le in­ti­fa­da dei col­tel­li, nella quale, a suo giu­di­zio, sono stati uc­ci­si trop­pi pa­le­sti­ne­si solo per­ché «so­spet­ta­ti» di ac­cin­ger­si a com­pie­re un’a­zio­ne of­fen­si­va.
Una cri­ti­ca che ri­cal­ca quel­la mossa di re­cen­te dal mi­ni­stro degli Este­ri sve­de­se Mar­got Wall­strom, la quale aveva chie­sto alle au­to­ri­tà israe­lia­ne un’in­da­gi­ne su tali uc­ci­sio­ni su­sci­tan­do­ne l’ac­ce­sa rea­zio­ne. Vi­cen­da che Eldar ac­cen­na per stig­ma­tiz­za­re la de­ci­sio­ne del go­ver­no di de­ru­bri­ca­re la ri­chie­sta a sem­pli­ce «stu­pi­do» at­tac­co con­tro Israe­le, evi­tan­do di la­sciar­si in­ter­pel­la­re dalla do­man­da.
Nel­l’ar­ti­co­lo, in cui Eldar cri­ti­ca pe­san­te­men­te i po­li­ti­ci di Tel Aviv, viene ci­ta­to il film-do­cu­men­ta­rio The Ga­te­kee­pers (I Guar­dia­ni), usci­to nel 2012 tra le po­le­mi­che del mondo israe­lia­no, nel quale di­ver­si ex capi delloShin Bet (il ser­vi­zio se­gre­to per gli af­fa­ri in­ter­ni), cri­ti­ca­va­no la po­li­ti­ca con­dot­ta da Israe­le nei con­fron­ti dei pa­le­sti­ne­si.

giovedì 21 gennaio 2016

Il mondo in mano all’1% di super miliardari

Si allarga sempre più velocemente la forbice tra ricchi e poveri. La metà delle proprietà sono concentrate nei portafogli di 62 persone. Lo studio arriva alla vigilia del forum di Davos
Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.
Sempre secondo il rapporto An economy for the 1% , non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.
Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.
In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.
L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.
È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).
Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.
A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.
I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.

mercoledì 20 gennaio 2016

Pochi, ma sempre più ricchi

In un mondo dove non fa quasi notizia che un calciatore acquisti un jet privato per la modica cifra di 19 milioni di dollari (è stato Cristiano Ronaldo, nella foto), è del tutto accettabile che gli 80 miliardari più ricchi del Pianeta dispongano di risorse pari a quelle del 50% più povero della popolazione mondiale. Ovvero 3 miliardi e mezzo di persone. E che la ricchezza di questi 80 fortunati sia cresciuta negli ultimi 5 anni del 50%, in barba a ogni retorica sulla “crisi”. Non la nostra, avranno pensato. Nessuno di noi -chi scrive, chi legge- fa parte dello sparuto gruppo, né di quello 0,7% della popolazione adulta globale che, secondo un recente studio di Credit Suisse, detiene il 45% delle ricchezze complessive nel mondo. Ovvero più o meno come tutti gli altri messi insieme: 34 milioni contro 4,8 miliardi di adulti.
La disuguaglianza nel mondo ha raggiunto livelli preoccupanti, stando alle dichiarazioni del Fondo monetario internazionale. Ma le preoccupazioni riguardano anche il mondo più ricco, se è vero quel che ha ricordato non più di un anno fa l’Ocse: la distanza tra ricchi e poveri nei 34 Stati membri, tra cui c’è anche l’Italia, è al livello più alto degli ultimi 30 anni, con il 10% più ricco della popolazione che detiene 9 volte e mezza la ricchezza del 10% più povero. Nel 1980 la proporzione era 7 a 1. L’Ocse pone anche l’accento sulla perdita economica legata a livelli di disuguaglianza così alti. E li misura: in 25 anni l’iniquità ha fatto perdere l’8,5% del prodotto interno lordo del gruppo. Il giudizio del Fondo monetario è speculare e altrettanto netto: a minore disuguaglianza corrisponde crescita economica più robusta e veloce.
“La disuguaglianza non è l’unico pressante problema che il mondo affronta, ma è uno dei più importanti, poiché l’iniquità sottende altre questioni. Ad esempio il cambiamento climatico è un caso di iniquità globale e inter generazionale”. Anthony B. Atkinson, 71 anni, maestro di Thomas Piketty e ideatore dell’Indice Atkinson, che misura la disuguaglianza dei redditi, è Fellow del Nuffield College dell’Università di Oxford e Centennial Professor della London School of Economics and Political Science. A fine novembre Raffaello Cortina Editore ne ha pubblicato il corposo volume “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, straordinaria summa di quasi 50 anni di studi sul tema.
Il libro parte dal suggerire la distinzione tra disuguaglianza di opportunità, e disuguaglianza di esiti, che Atkinson ci spiega così: “La maggior parte delle persone approva il garantire parità di opportunità, che è una parità di condizioni nel corso della vita. Ma non è possibile avere pari opportunità in presenza di estrema diseguaglianza dei risultati. La disuguaglianza dei risultati -reddito, ricchezza e consumo- colpisce le opportunità della vita della generazione successiva. Lo Stato può fornire scuole per tutti, ma un bambino che va a scuola affamato è meno in grado di beneficiarne e inizia il suo percorso di vita con maggiore povertà”.
Come definire la disuguaglianza? “Ci sono molte dimensioni della disuguaglianza, anche se di solito limitiamo la nostra attenzione alla disuguaglianza economica. Gli economisti spesso hanno in mente le differenze tra retribuzione di lavoratori qualificati e non qualificati. Ma la paga è solo uno dei fattori determinanti del reddito familiare. Il reddito da capitale ad esempio è una quota minore del reddito complessivo, ma è molto più concentrata. Dobbiamo poi tener conto anche della disuguaglianza all’interno delle famiglie, in particolare quella che riguarda i redditi di uomini e donne. In una recente ricerca condotta con Alessandra Casarico della Università Bocconi e Sarah Voitchovsky, abbiamo evidenziato che le donne sono sempre più sottorappresentate nella zona superiore della distribuzione del reddito: nel 2012, hanno rappresentato il 28 per cento della top 10 per cento dei redditi lordi -già ben al di sotto la loro quota proporzionale- ma solo il 12 per cento della parte superiore dello 0,1 per cento”.
Ci sono stati periodi nella storia recente in cui la disuguaglianza era minore?
“Abbiamo rilevato come la disuguaglianza e la povertà si siano sensibilmente ridotte in Europa negli immediati decenni del dopoguerra, e fino al 1970. È stato il risultato della nascita del welfare state, della tassazione progressiva sul reddito, delle politiche di piena occupazione e di una quota crescente del lavoro nel reddito nazionale. Negli anni 2000 si sono verificati cali significativi nella disuguaglianza e la povertà, certamente da livelli elevati, in America Latina”.
Si può ridurre la disuguaglianza senza recessione economica, o perdita di posti di lavoro? “Da un punto di vista teorico, quando si riducono le imperfezioni del mercato con iniziative per ridurre l’iniquità, si incontrano strade grazie alle quali lo sviluppo si può ottenere coniugando equità ed efficienza. Politiche che danno priorità alla riduzione della disoccupazione e investono sui giovani possono ridurre la disuguaglianza. Io sono convinto che la lotta alla povertà debba avere la priorità, ma uno dei messaggi importanti da dare è che le politiche che riducono disuguaglianza e povertà dovrebbero essere responsabilità non di un solo ministero, ma di tutti quelli che compongono i governi. E i governi da soli non bastano: tutti giochiamo un ruolo come individui -lo dimostrano le campagne contro le società che eludono le tasse- attraverso l’attivismo, come lavoratori attraverso i sindacati, come imprenditori verso i lavoratori e infine come famiglie”.
La lezione di Atkinson in Italia è molto ascoltata. Michele Raitano è ricercatore di Politica economica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Dipartimento economia e diritto, membro del comitato scientifico dei Social Cohesion Days (socialcohesiondays.com) e co-autore del libro “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?” (il Mulino, 2014). “Sappiamo che la disuguaglianza è in crescita, ma è importante sottolineare che è aumentata anche perché si è formato un nuovo gruppo di lavoratori ultra pagati. Per questo sono importanti i criteri di misurazione. Spesso le indagini sono campionarie -in Italia così accade coi dati di Banca d’Italia- e questo tende a non intercettare gli estremi della distribuzione, ovvero i più poveri e i più ricchi. Servono dunque altri indicatori, anche perché, soprattutto se si guarda al dato globale, il reddito medio non è sufficiente. La disuguaglianza è un problema sociale, da comprendere inserito in un contesto. La società -anche quella italiana- si polarizza verso nuova élite di super ricchi, il cui reddito deriva dal lavoro -o da una rendita di posizione di questo- più che da patrimonio.
Possiamo anche essere d’accordo sul tema della parità di opportunità, e sul fatto che poi il mercato porta a risultati differenti. Il problema che non è sempre facile fissare uguali punti di partenza. Ci sono persone che possono frequentare università d’élite, andare all’estero a studiare, spendersi relazioni. La cosiddetta ‘curva del Grande Gatsby’ dimostra che nei Paesi in cui è alta la disuguaglianza, questa si trasmette di padre in figlio, ovvero è molto bassa la mobilità sociale. Perché si genera questa correlazione? Perché i redditi dei figli dipendono da caratteristiche che gli hanno trasmesso i genitori: letto dall’altro punto di vista, il vantaggio che hanno i figli dipende anche da un vantaggio che hanno avuto i genitori. Le ricerche dimostrano ad esempio che a parità di istruzione i risultati dei figli continuano a dipendere dai genitori. Per questo è certamente importante lottare contro la disuguaglianza attraverso politiche di redistribuzione. Ma il problema coi super ricchi è quanto tassarli, oppure chiedersi perché sono diventati così tanto ricchi?
Ovvero: perché si formano le disuguaglianze? Non è solo un fatto di ‘dotazioni’, ma di regole del mercato -che non funzionano-. Per questo dovremmo incidere anche su come funzionano i mercati, in particolare quello del lavoro. Un meccanismo che viene chiamato ‘predistribuzione’, e che riguarda, ad esempio, anche le regole di funzionamento della finanza. In altre parole: nelle economie contemporanee il mercato del lavoro tende a essere sempre più luogo nel quale si creano enormi disuguaglianze. Solo una parte esigua della disuguaglianza nei salari -nell’ordine del 10-15%- è attribuibile al ‘capitale umano’, ovvero la formazione. Quindi le distanze medie tra i redditi di lavoratori con diverso titolo di studio sono molto contenute. La disuguaglianza tra lavoratori con la stesso grado di istruzione invece è altissima -nel caso degli avvocati l’Indice di Gini in Italia segna 0,65-. Si chiama ‘disuguaglianza within’, e la letteratura scientifica è praticamente assente su questo aspetto.
Non solo: se si guardano i dati italiani, si nota che la disuguaglianza è cresciuta poco nel corso degli ultimi anni. Ma a guardarli bene i dati dicono anche altro. Ad esempio che effettivamente i trasferimenti statali riducono la disuguaglianza. Il problema è che al loro interno spesso si annoverano le pensioni. Ma la pensione è un trasferimento che una persona fa da una fase all’altra della propria vita, e chi ha goduto di alti redditi da lavoro prima, godrà di alta pensione dopo. Depurando il dato dai trasferimenti pensionistici, emerge con chiarezza l’alto grado di disuguaglianza in Italia”. ---
La misura della redistribuzione
L’Indice di Gini (introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini nel 1912) è una misura globale della diseguaglianza nella distribuzione -all’interno di una determinata collettività- di un carattere trasferibile, soprattutto il reddito. Varia da 0 a 1, dove con zero si intende la distribuzione perfetta, ovvero quella in cui tutti gli individui hanno medesimo quantitativo, e con 1 concentrazione massima, per cui un solo soggetto ha tutto, e tutti gli altri nulla.

martedì 19 gennaio 2016

Hispanicum

Per garantire la governabilità d’Italia, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, attraverso il patto del Nazareno, hanno promosso la nuova legge elettorale conosciuta come “italicum”, che è stata approvata nel maggio 2015 e che ha definito un sistema proporzionale, circoscrizioni minori, premio di maggioranza e ballottaggio. La nuova leggere elettorale italiana è stata introdotta come una legge basata sulla spagnola, ma in una versione molto libera.
Nello stesso anno gran parte degli elettori spagnoli, hanno espresso il loro desiderio di cambiare un sistema elettorale che favorisce il bipartitismo, optando per i partiti emergenti, che propugnano la reforma mentre trasformano la mappa politica con la propria irruzione. Le critiche, in Spagna sono dirette verso la sproporzione territoriale riguardo al valore del voto, che gonfia i piccoli distretti a danno dei grandi centri urbani. Sotto accusa anche il metodo d’Hondt, che ricompensa con seggi extra le formazioni più votate. Tuttavia, una revisione della legge elettorale è consigliata solo quando permette meccanismi chiari per rafforzare il pluralismo e la governance.
Nello stesso anno nel quale l’Italia ha cercato la stabilità elettorale, la Spagna cerca, quindi, il cambiamento, pur accettando l’incertezza dell’ingovernabilità; alcuni hanno infine guidato una volontà concreta di sfuggire al caos eterno e altri intraprendono un viaggio verso una maggiore pluralità, anche se è vero che l’Italia ha dei ricordi negativi di governi solidi e duraturi, e la Spagna pure ha brutte reminiscenze del sistema multipartitico.
La Spagna ha intrapreso un percorso controcorrente rispetto all’Italia. Ma al di là delle preferenze e della legislazione, le coalizioni e la frammentazione in seno ai partiti politici continuano ad essere l’usanza a Roma, mentre in Spagna i due principali partiti spagnoli sono ancora i più votati.
È difficile immaginare un governo del Partito Democratico con maggioranza assoluta e che riesca a terminare la legislatura come hanno fatto il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio Spagnolo. Allo stesso modo, è difficile concepire un governo di Pedro Sánchez (PSOE), con, per esempio, Albert Rivera(C’s), come accade oggi con l’Italia di Renzi, che riunisce partiti ideologicamente diversi e nel quale compare come Ministro dell’Interno, l’onorevole Angelino Alfano, l’ex pupillo di Berlusconi.
Le particolarità in Europa rimangono motore e pastoia dell’integrazione, ma il paradosso rappresentato dallo scoordinamento diventa più marcato quando le tendenze si intersecano. Così sembra che la Spagna voglia essere l’Italia e l’Italia voglia essere la Spagna. Nel frattempo, l’Europa è ancora in attesa di essere l’Europa.

lunedì 18 gennaio 2016

Renzi guarda Iran e Siria prendere il posto dell’Italia nell’export alimentare verso Mosca

Mentre l’italietta renziana si assicura di peggiorare sempre più i propri rapporti commerciali con la Russia (vedasi dichiarazioni deliranti del nostro ‘genio fiorentino’ riguardo l’offerta di cooperazione al progetto ‘North Stream’, il prolungamento delle sanzioni verso Mosca et alia…) altri paesi non stanno certo a guardare e si mobilitano (alcuni persino tra enormi difficoltà) per riempire con efficacia le ampie quote di mercato russo lasciate vuote dalla stupida ‘guerra’ dichiarata dall’UE al Cremlino su istigazione e pungolo della Casa Bianca.
Nel nostro caso, dovrebbe più che preoccuparci il vero e proprio slancio con cui Siria e Iran si stanno letteralmente ‘gettando’ sul mercato dell’agroalimentare russo, dove ancora pochi anni fa i nostri esportatori facevano la parte del leone.
E’ di questi giorni la notizia che una prima spedizione di 500 tir carichi di prodotti agricoli sta per lasciare il territorio della Repubblica Islamica dell’Iran per raggiungere la Russia via Azerbaigian, dopo aver ricevuto dalle competenti autorità tutti i “visti” fiscali e sanitari; la notizia é stata annunciata dal Presidente della Camera di Commercio di Teheran, Massoud Khansari.
Intanto un carico di agrumi siriani, partito dal porto di Latakia nei giorni scorsi, ha già raggiunto lo scalo di Novorossysk, portando a 60 tonnellate il quantitativo di arance, limoni e altri frutti consimili finora trasportati dalla Repubblica Araba alla Federazione Russa, dopo che speciali provvedimenti sono stati varati per facilitare le esportazioni siriane. La decisione ha suscitato l’entusiasmo e la riconoscenza del Direttore del Dipartimento Agricolo di Latakia/Laodicea, Munzir Gerbek.
In un mese di spedizioni continue i distretti di Latakia e Tartous possono assicurare ai partner russi l’invio di non meno di 30-35mila tonnellate di agrumi, grazie al fatto che, nonostante i quasi cinque anni di aggressione terroristica patiti dal paese, le due fertili province in questione sono rimaste costantemente sotto il controllo del Governo centrale e la produzione non ha quindi subito danni o diminuzioni.
La Siria, che é riuscita a resistere agli attacchi dei terroristi stranieri in gran parte grazie agli aiuti finanziari e militari di Mosca é ansiosa di intensificare e migliorare i propri rapporti commerciali col tradizionale alleato, anche in previsione di un futuro di pace nel quale prestiti e investimenti russi saranno pivotali per una rapida ricostruzione del paese; l’Iran, in maniere molto differenti, ha a sua volta interesse a rinsaldare i rapporti col Cremlino, nell’ottico di un progressivo avvicinamento all’Unione Economica Eurasiatica e di una sperabile integrazione nella SCO.
Il Vicesegretario dell’Associazione Iraniana per l’Industria e l’Agricoltura, Pedram Soltani, ha auspicato la formazione di una camera bilaterale russo-iraniana per il superamento di “divide” burocratici e normativi tra i due paesi e la crescita esponenziale dei rapporti commerciali bilaterali. A partire dal 20 gennaio prossimo quattro distretti provinciali della Compagnia Nazionale Iraniana Lattiero-Casearia (Pegah Fars, Pegah Tehran, Pegah Golpayegan e Pegah Isfahan) inizieranno regolari esportazioni verso la Russia.

domenica 17 gennaio 2016

La guerra di Erdogan contro l’intellighenzia filo-curda

volevano la pace, sono stati arrestati con l’accusa di essere “vili”, “crudeli”, “traditori”, così li ha definiti il presidente turco Tayyip Erdogan che ha aggiunto: “Solo perché hanno titoli come professore o dottore davanti ai loro nomi non significa che siano illuminati”. 1 A sostegno di Erdogan è poi arrivato niente di meno che Sedat Peker, noto personaggio legato alla criminalità organizzata, promotore del pan-turchismo, con presunti legami con l’organizzazione segreta Ergenekon, legata allo “Stato profondo”. Peker ha dichiarato di “volersi fare la doccia con il sangue degli intellettuali”. 2 3 Sono dodici o forse diciotto i docenti universitari arrestati dalle autorità turche perché colpevoli di essere tra i 1200 firmatari provenienti da ben 89 università che hanno aderito a una dichiarazione dal titolo “Non saremo parte di questo crimine”, in riferimento al massacro in atto nel sud-est del paese nei confronti dei curdi.
Durissimo l’intervento del noto linguista e filosofo americano Noam Chomsky: “La Turchia ha accusato l’Isis per gli attacchi di Istanbul, mentre Erdogan lo ha aiutato in diversi modi, così come ha fatto con al-Nusra, che non è molto diverso. Egli ha poi lanciato un’offensiva contro chi condanna i suoi crimini contro i curdi, che sono poi i principali avversari dell’Isis sia in Siria che in Iraq. Servono ulteriori commenti?”. Chomsky in poche righe ha fotografato perfettamente la situazione turca. E’ tutto chiaro da tempo, nella Turchia di Erdogan non c’è spazio per chi vuole la pace, il dialogo e la trasparenza, decisamente no; ce n’è però per i comandanti jihadisti di Isis e al-Nusra curati negli ospedali turchi a ridosso del confine siriano; c’è posto per jihadisti in transito, che si tratti di quelli che passano per Istanbul con destinazione Siria o quelli che rientrano e fanno due passi per la città. Nella Turchia di Erdogan è permesso perseguitare i giornalisti, gli oppositori, puntando il dito contro presunte “forze oscure” che complotterebbero contro il governo Akp, tentare di bloccare i social network, ma soprattutto massacrare le popolazioni curde, plausibilmente uno dei principali ostacoli alle ingerenze islamiste di Erdogan in Siria.
I curdi hanno dato una sonora lezione all’Isis, in primis a Kobane ma anche in altre zone del nord della Siria, mentre Mosca bombardava carichi di petrolio dell’Isis curiosamente diretti in Turchia. Si potrebbe poi ritornare sulla faccenda dei carichi di armi dei servizi turchi scoperti dalla polizia nel sud del paese e diretti ai jihadisti oltre confine; faccenda per cui agenti e funzionari sono stati rimossi dai propri incarichi, un po’ come quelli che si permisero di indagare sul caso di corruzione che vedeva coinvolto Erdogan, il figlio Bilal ed altri esponenti del governo, a cavallo tra dicembre 2013 e gennaio 2014. Questa è la Turchia di oggi, da anni ormai guidata da Erdogan e dai suoi fedelissimi dell’Akp. Turchia membro della Nato e di quella coalizione che afferma di voler combattere l’Isis ma che di fatto ha concluso ben poco, tanto che secondo i dati disponibili l’Isis ha seriamente iniziato a perdere terreno soltanto in seguito a quell’intervento militare russo che mandò su tutte le furie Erdogan e l’amministrazione Obama. Insomma, questa Turchia sta mettendo in serio imbarazzo l’Alleanza Atlantica e una UE che per troppo tempo ha continuato a corteggiare il governo di Ankara ritenendolo un legittimo interlocutore e al punto da arrivare, su iniziativa della Merkel, a versare un miliardo di euro per convincerla ad occuparsi dei profughi siriani. 4 Con l’arresto dei docenti universitari si è giunti a un nuovo triste capitolo della Turchia “erdoganiana” che continua impunemente a perseguitare chiunque osi criticare il governo. L’UE cosa pensa di fare in proposito? Staremo a vedere. Un’ultima considerazione, sarebbe bello vedere in Italia qualche iniziativa da parte di intellettuali, giornalisti e docenti che tanto si indignarono per il cosiddetto “colpo di Stato” in Egitto del 2013 o da parte di quei gruppi islamisti che scesero sistematicamente in piazza a favore di Morsi. Chissà se ne vedremo?

venerdì 15 gennaio 2016

La Fiat ai tempi di Marchionne

Sono giorni caldi questi per la Fiat. Il Salone dell’auto di Detroit è un appuntamento importante per il mondo dell’auto, che sta vivendo un periodo di discreta ripresa. L’ad Sergio Marchionne ne ha approfittato per ricordare gli obiettivi del piano quadriennale presentato nel 2014: fatturato a 110 miliardi, un utile operativo di 9, almeno 5 di utile netto. L’azzeramento dell’indebitamento è l’altro punto chiave per passare una buona mano a chi verrà dopo di lui. La metafora della cucina funzionante, neanche fosse un fuorisede all’Università di Bologna, è agghiacciante, ma i risultati gli stanno dando ragione. A due anni di distanza, si può ormai dire che la fusione con Chrysler è andata in porto ottimamente ed è soprattutto uno dei marchi di fresca acquisizione, Jeep,a conoscere una fase di espansione continua, frantumando tutti i record dei precedenti 75 anni di carriera.
La figura di Sergio Marchionne è piuttosto controversa e si presta a due interpretazioni decisamente contrastanti, che ricalcano la grande contrapposizione politica dei nostri tempi.Se si analizzano gli anni del suo imperio dall’ottica di Exor, la controllante che fa capo alla famiglia Agnelli, l’ad in cashmere si è meritato tutti i bonus che gli hanno staccato. Fca non era così in salute da tanto tempo, nonostante gli anni di crisi del settore. I conti sono in continuo miglioramento, aiutati dall’acquisizione di Chrysler a prezzo di saldo e dalla sua successiva rivalutazione, e il gruppo si sta consolidando come il settimo a livello globale, raggiungendola massa criticanecessaria per poter sopravvivere tra i colossi del settore, con in più qualche prezioso fiore all’occhiello come Ferrari.
Sono dunque tanti gli estimatori dell’amministratore delegato, e non tutti di casa Elkann/Agnelli. Chiunque sia impregnato di pensiero liberista (e della sua retorica) non può che incensare la gestione di un gruppo dal futuro roseo che solo dieci anni fa pareva in perpetua difficoltà. Miracoli della reductio ad utile.A supportare il mero dato economico spesso entra in gioco l’abusata retorica della libertà (del padrone). Il concetto di libertà è ormai talmente stressato ed abusato nella sua polisemia da aver bisogno di una ridefinizione radicale. In sostanza, comunque, per i sostenitori del liberismo (e del capitale) il padrone è libero di fare quel che vuole e giustamente approfitta dei vantaggi che il libero mercato su scala globale gli offre, altrimenti è un cattivo manager (e questo è un ragionamento in parte fondato). La seconda parte del ragionamento, che solitamente segue la prima, cioè che se l’azienda va bene qualche vantaggio lo avremo tutti, spesso è atrocemente miope. Ci torneremo più avanti.Avrà fatto piacere a molti sapere che tra i principali sostenitori del Marchionne-pensiero sta Matteo Renzi. I due, accumunatinella lotta ai “gufi”, non si lesinano le reciproche leccate di piume. L’ironia del Premier, in particolare, è nota almeno quanto la sua miopia. Il 4 settembre twittò: “In bocca al lupo ai lavoratori Fiat di Mirafiori che rientrano in fabbrica. I primi ripartono lunedì ‪#‎italiariparte‬”. Peccato che Mirafiori quando venne inaugurata nel 1939 fosse un fiore all’occhiello mondiale per il Paese, esempio supremo dell’applicazione dei principi del taylorismo, e nel dopoguerra superò i 50000 addetti. Oggi ne rimangono 5400, cassintegrati da anni, per un monte ore ormai incalcolabile, e la Fiomha approfittato dell’inaugurazione del salone di Detroit per annunciare la firma di un nuovo accordo di cigs (sigh).
Se i numeri globali di Fca sono buoni, comunque, qualche dubbio in più lo fanno venire i numeri italiani, specie sul fonte lavoro, e qui si delineano le motivazioni degli anti-Marchionne.Dell’abuso della cassa integrazione in Italia nel medesimo periodo si è già accennato: solo nel 2013, due terzi dei 30000 addetti del gruppo erano cassintegrati a zero ore. Le cose ora vanno un pochino meglio, grazie ad un mercato in ripresa, ma dal 2003 ad oggi il numero complessivo di addetti passava da 44mila a 23mila persone, un’ecatombe. L’altra grande ombra sull’amministratore delegato e ciò che rappresenta è il rapporto col territorio (e con la storia del gruppo stesso), e qua ci si ricollega ai presunti benefici che il buon andamento di Fca dovrebbe avere per tutti (inteso come gli italiani, che faticano a capire che Fiat sia ormai un “marchio globale” e quali siano le implicazioni di questa affermazione).
Qualunque azienda ha col suo territorio un rapporto di amore/odio (e al posto di azienda e territorio si potrebbero usare, rispettivamente, i termini padrone/lavoratori o capitale/lavoro). L’inghippo sta in questa proposizione “se l’azienda va bene c’è lavoro, se va male no”, che aveva un senso quando esistevano barriere di vario ordine (culturali, psicologiche, linguistiche, legislative, tecniche, infrastrutturali), oggi non più. Fiat ha ricevuto tanto dall’Italia e dagli italiani (e pure dato, in realtà). Stando alla Cgia di Mestre, un’ottima fonte di dati, circa 7,6 miliardi di euro dal 1977 a oggi, senza contare incentivi ed agevolazioni, così come la cassa integrazione, che oltre ad essere un ammortizzatore sociale è pure “uno strumento per fare margine”, stando alle parole dello stesso Marchionne. Eppure, senza tanti scrupoli, la sede legale è stata spostata in Olanda (dove le regole di governance consentono un controllo più stretto alla Exor) e soprattutto la sede fiscale in Inghilterra, dove la tassazione per le imprese è decisamente più favorevole (e questo un impatto negativo sugli italiani ce l’ha eccome). D’altronde, lo stesso Marchionne ha la residenza fiscale in Svizzera, nel cantone di Zugo, dove l’aliquota massima è del 23 percento.
Un impatto ancora più diretto sulla salute dell’economia (e dei lavoratori) italiana ce l’ha la politica degli investimenti (che pure, ad onor del vero, pare stiano faticosamente ripartendo anche qua). Perché anche se Marchionne ha più volte dichiarato che l’Italia rimarrà strategica per il gruppo, è altrettanto vero che strategica non vuol dire centrale e che i fatti abbiamo ampiamente smentito le sue parole. Mentre abusava della cassa integrazione in Italia infatti,Fca investiva, congiuntamente al governo serbo, circa 1,2 miliardi nel distretto industriale della fu Zastava, la fabbrica di automobili della Jugoslavia, a Kragujevac, assumendo 3000 persone, pagate 300 euro al mese per turni da 12 ore. Qualora non lo sapeste, la 500L si produce in Serbia a queste condizioni. Eppure la disoccupazione in Serbia è alle stelle e i conti pubblici in difficoltà, dunque a Fiat non si può dir di no. E’, questa, una costante del capitalismo, che vive sugli sviluppi asimmetrici. Quando cadono le barriere che limitano la circolazione di capitali e merci, la concorrenza diventa spietata e, soprattutto, al ribasso. Dunque le fabbriche volano dove i lavoratori hanno meno tutele (o sono più competitivi, a seconda dei punti di vista) e le residenze fiscali dove le tasse sono più basse (o dove lo Stato si piega a chi detiene il vero potere, cioè le grandi corporation, sperando di avere un vantaggio momentaneo facendo dumping fiscale e tagliando servizi).
Quelle in campo sono due visioni antitetiche del mondo. Mike Manley, Head of Jeep Brand, ha dichiarato, commentando i risultati positive di Jeep: “Nel 2015 abbiamo inaugurato uno stabilimento di produzione in Brasile e siamo tornati a produrre anche in Cina dopo un’assenza di quasi dieci anni, rendendo così il marchio Jeep ancora più globale”. Ecco, il punto della questione, e della valutazione dell’operato del simbolo Marchionne, sta tutto qua: localismo vs globalismo, sovrapponibile a lavoro vs capitale.
Il grande limite di questo modello di sviluppo è evidente: la concorrenza al ribasso, fiscale o salariale, oltre a garantire grandi margini e pochissime tutele, cioè a far vincere il capitale sul lavoro, è destinata a portare il mondo in una spirale recessiva (che si sta già avvicinando, visto che l’Europa della delocalizzazione e dell’austerity è il buco nero della domanda globale). Questo lo capì già Henry Ford, quello della Ford T, che ispirò un Giovanni Agnelli in America ad inizio Novecento per imparare dagli americani: se vuoi vendere, qualcuno deve comprare, e quel qualcuno sono i tuoi operai. Ford passò alla storia per la catena di montaggio, ma quello fu solo uno degli aspetti dell’applicazione dei principi del taylorismo. La prima cosa che fece, infatti, fu rivalutare i salari dei suoi dipendenti, che la Ford T così cominciarono a comprarla. Oltre un secolo dopo, Marchionne sembra aver dimenticato la lezione.

giovedì 14 gennaio 2016

"La povertà assiederà chi ha meno di sessantacinque anni". Il Boeri-pensiero e le contraddizioni nell'esecutivo

Busta arancione, uscita anticipata dal lavoro e povertà. Questi i temi caldi al centro dell’intervista effettuata da Maria Latella su Sky Tg24 al presidente dell’Inps, Tito Boeri.
Il numero uno della previdenza sociale non manca di lanciare frecciatine sul mancato invio delle famose buste arancioni con cui i lavoratori e le lavoratrici avrebbe potuto sapere in anticipo quanto avrebbero preso di pensione e quando e come intervenire per poter eventualmente rendere più corposo l’assegno previdenziale.
“Qualcuno ci ha fatto lo sgambetto”, precisando: “E’ una questione del Parlamento più che del Governo: c’era un emendamento, per spostare delle somme all’interno del bilancio dell’Inps, ed effettivamente per ben due volte qualcuno ci ha fatto lo sgambetto di toglierci queste due righe. Le voci dicono che lo hanno fatto perché abbiamo proposto di tagliare i vitalizi. Una vendetta? Non lo so. Se fosse vero sarebbe un fatto gravissimo”. E ancora: “Noi non chiedevamo più soldi al Governo, chiedevamo solo di poter spostare delle somme all’interno del bilancio dell’Inps, visto che abbiamo una spesa contingentata per le spedizioni postali, e potevamo benissimo prelevarla da altri capitoli del nostro bilancio (…) per due volte qualcuno nel Parlamento ci ha fatto questo sgambetto di toglierci queste due righe dall’emendamento”.
Eppure proprio le indiscrezioni più recenti parlano del fatto che il governo starebbe studiando in questi giorni proprio il piano Boeri per le pensioni nel 2016, che si reggono sui pilastri della pensione anticipata e su una riforma ad hoc per i lavoratori precoci.
Il verdetto del governo Renzi sulle proposte di Boeri dovrebbe essere noto entro qualche settimana.
Il piano Boeri prevede l’uscita a 63 anni e 7 mesi congiuntamente ad un minimo di 20 anni di contributi. La penalizzazione, relativamente ai versamenti calcolati con sistema retributivo, ammonta al 10% circa (soglia massima). Riguardo alla pensione dei precoci, secondo il piano di Boeri i requisiti sono un’età di 63 anni e 7 mesi oppure 42 anni e 10 mesi di versamenti a prescindere dall’età anagrafica (ridotti a 41 e 10 mesi per le donne). Tale opzione sarebbe rivolta a chi ha una contribuzione antecedente al 18° anno di età. A tale categoria non verrebbe imposta la penalità.
Da ricordare che il piano Boeri chiede anche l’erogazione di un reddito minimo di 500 euro al mese a favore delle famiglie in cui ci sia almeno un componente con età superiore a 55 anni. Nel caso ce ne fossero due, si salirebbe a 750 euro al mese, mentre in presenza di minori a carico, l’ammontare della cifra sarebbe di 900 euro (un figlio) e 1.050 euro (due figli).
Tornando all’intervista, Boeri non solo critica le scelte del Governo ma lancia anche una proposta, partendo dalle parole del vicepresidente della Commissione europea, Vladis Dombroviskis che, secondo il Presidente dell’Inps, fanno presagire un maggior spazio per la flessibilità, rispettando la sostenibilità della finanza pubblica. La maggiore flessibilità che chiede Tito Boeri dovrebbe essere utilizzata per permettere l’uscita in anticipo dal lavoro e quindi l’accesso alla pensione.
“E’ possibile averla senza violare le regole europee e allo stesso tempo fare qualcosa di utile per i giovani, come chiedere flessibilità per finanziare nell’immediato una maggiora uscita flessibile delle pensioni”.
Commenti positivi da parte di Boeri sulla riforma del lavoro di Matteo Renzi, anche se è drammatica l’emergenza povertà.
“Durante questa crisi, tra il 2008 e il 2015 i tassi di povertà in Italia sono aumentati solo per chi aveva meno di 65 anni. Se andiamo avanti così succederà quello che è successo durante questa crisi, saranno i giovani a vedere un aumento della propria povertà”.
Come risolvere questa situazione? È chiaro Tito Boeri: l’obiettivo è “costruire degli strumenti di contrasto per chi ha meno di 65 anni”.
“L’emergenza è quella dei poveri e delle persone che perdono lavoro e che hanno più di 55 anni. Questa è la vera emergenza sociale in Italia. L’emergenza in Italia sono i poveri perché la povertà è aumentata molto (…) Questo ci dice che quel meccanismo non funziona bene, se dobbiamo in nome dell’emergenza sociale dare delle pensioni di quell’importo vuol dire che non è emergenza sociale. In Italia manca un sistema di assistenza sociale di base come negli altri Paesi”.

mercoledì 13 gennaio 2016

Barack Obama, Nobel per la Pace 2009, ha lanciato 23.144 bombe nel 2015

Durante il 2015, l'amministrazione americana del presidente Barack Obama, che ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2009, ha sganciato 23.144 bombe in Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia, tutti i paesi a maggioranza musulmana, come calcolato da Micah Zenko , membro del Council on Foreign Relations (CFR).
Lo studio di questa organizzazione precisa che 22.110 di queste bombe sono state sganciate in Siria e Iraq, mentre 947 in Afghanistan, 58 nello Yemen, in Somalia 18 e 11 in Pakistan.
Tuttavia, Zenko sottolinea che, nonostante il gran numero di bombe la strategia antiterrorismo degli Stati Uniti non funziona, perché "le politiche anti-terrorismo degli Stati Uniti si basano sulla cattura o l'uccisione dei terroristi, mentre si spende molto meno denaro e attenzione per le politiche di prevenzione ".
Come risultato di questo modo di agire, non è diminuito il numero dei membri dello Stato islamic, che opera in Siria e Iraq e ha ancora circa 30.000 membri. Nel frattempo, in questo momento, i talebani controllano la quota maggiore di territorio in Afghanistan dal 2001, secondo uno studio pubblicato su 'Foreign Policy'.

martedì 12 gennaio 2016

Il neoliberismo rialza la sua brutta testa in Sud America

Dopo l’11 settembre gli Stati Uniti hanno concentrato la loro politica estera più aggressiva sul Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Africa del Nord. Ma l’accordo elaborato di recente con l’Iran, gli attuali negoziati dietro le quinte sulla Siria tra il Segretario di Stato USA John Kerry e il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, e la decisione di sovvenzionare, e ora riesportare, la produzione statunitense di petrolio e gas di scisto in una diretta inversione della passata politica statunitense nei confronti dell’Arabia Saudita, segnalano insieme una relativa svolta della politica statunitense dal Medio Oriente.
Con una fase di consolidamento del Medio Oriente in corso, la politica statunitense e andata ridirigendosi dal 2013-14 agli obiettivi più tradizionali avuti per decenni: primo, controllare e contenere la Cina; secondo, impedire un’integrazione economica più profonda della Russia con l’Europa e, terzo, riaffermare ancora una volta, come in decenni precedenti, un’influenza statunitense più diretta sulle economie e i governi dell’America Latina.
Dopo la sua rielezione nel 2012, Obama ha annunciato quello che è stato definito un “pivot” in Asia per contenere e controllare la crescente influenza economica e politica della Cina. Nel 2013-14 c’è stato il colpo di stato in Ucraina diretto dagli USA, cioè un pretesto per imporre sanzioni alla Russia mirato a tagliare le crescenti relazioni economiche di quel paese con l’Europa. Ma è in corso un’altra svolta della politica statunitense che forse non è così evidente come la nuova concentrazione sulla Cina o la nuova offensiva da “guerra fredda” degli Stati Uniti contro la Russia. E’ la svolta statunitense nei confronti dell’America Latina, iniziata nel 2014, che prende di mira in particolare paesi ed economie chiave dell’America del Sud – Venezuela, Brasile e Argentina – ai fini di una destabilizzazione politica ed economica che è un requisito fondamentale per una reintroduzione di politiche neoliberiste in quella regione.

Venezuela: caso esemplare di destabilizzazione
La destabilizzazione economica nella sua fase più recente è in corso in Venezuela dal 2013. Il crollo mondiale dei prezzi del petrolio e delle materie prime, conseguenza in parte dello scontro tra Stati Uniti e sauditi scoppiato nel 2014 riguardo a chi controlla il prezzo globale del petrolio, ha costretto al collasso la moneta venezuelana, il bolivar. L’aumento statunitense dei propri tassi d’interesse l’anno scorso ha intensificato il collasso di tale moneta. Ma il governo statunitense e forze bancarie hanno ulteriormente alimentato le fiamme del collasso della moneta incoraggiando speculatori, operanti dalla Colombia e dal sito web “DollarToday”, ad assumere posizioni “corte” [a vendere – n.d.t.] sul bolivar e a deprimerlo ulteriormente. Media con sede negli Stati Uniti, in particolare l’arciconservatore CATO Institute di Washington, si sono uniti allo sforzo di pubblicare notizie costantemente esagerate sul declino della moneta, fino al 700 per cento, per diffondere il panico tra i venezuelani perché cedano bolivar in cambio di dollari, causando in tal modo un ulteriore crollo della moneta. Contemporaneamente imprese multinazionali in Venezuela continuano a tesaurizzare più di 11 miliardi di dollari, determinando ancor di più l’aumento del dollaro e la caduta del bolivar. La conseguenza di tutte queste forze che contribuiscono al collasso della moneta è un crescente mercato nero del dollaro e una penuria di beni chiave per il consumo e la produzione.
Ma tutto questo è solo l’inizio. Il crollo della divisa determina a sua volta un aumento dei costi delle importazioni e l’inflazione interna e in tale modo la caduta dei redditi reali di piccole aziende e lavoratori. Il mercato nero e la penuria di dollari si traduce nell’impossibilità di importare beni critici, quali farmaci e cibo. Il costo crescente delle importazioni si traduce in mancanza di materiali critici necessari per continuare la produzione, il che determina una caduta della produzione, chiusure di impianti e imprese, e crescente disoccupazione.
Crollo della moneta, inflazione e recessione determinano insieme una fuga di capitali dal paese, che a sua volta esacerba tali crollo, inflazione e recessione. Segue un circolo vizioso del crollo economico generale di cui è attribuita la colpa al governo popolare ma che esso fondamentalmente non ha causato.
Con l’aggravarsi di questo scenario in Venezuela da 2014, gli Stati Uniti hanno aggredito con cause legali la società statale venezuelana del petrolio, Petroleos de Venezuela. Il governo Obama, a marzo 2015, ha anche emesso decreti presidenziali per congelare i beni del governo venezuelano e dei suoi rappresentanti militari, accusati di violazioni dei “diritti umani”. Gli Stati Uniti, poi, hanno recentemente arrestato uomini d’affari venezuelani negli Stati Uniti detenendoli senza cauzione, indubbiamente per trasmettere un messaggio a quelli che potrebbero ancora appoggiare il governo. Il governo statunitense ha anche incriminato il governo venezuelano e suoi dirigenti militari su accuse di asserita complicità nel narcotraffico, compresi generali della Guardia Nazionale che hanno sostenuto il governo Maduro. Tutto questo aumenta presso il pubblico l’impressione di corruzione governativa, facendo riflettere altri aspiranti sostenitori militari e governativi a “pensarci due volte” prima di proseguire nel sostegno e forse a prendere in considerazione il “passaggio” all’opposizione in cambio di un “accordo” di archiviazione delle accuse legali. Cresce l’impressione popolare che la crisi economica, l’inflazione, le penurie, i licenziamenti siano tutti associati alla corruzione, a sua volta associata al governo. E’ una classica strategia statunitense di destabilizzazione.
Mentre avevano luogo in Venezuela tutti gli strappi economici appena citati, fondi sono affluiti a partiti d’opposizione e ai loro politici attraverso innumerevoli canali non ufficiali, mettendoli in grado di assumere il mese scorso il controllo del parlamento. I capi del nuovo parlamento, secondo notizie filtrate ai media, hanno ora piani per ricostruire la Corte Suprema del Venezuela affinché appoggi le loro politiche e avalli legalmente il loro imminente attacco al governo Maduro nel 2016. E’ chiaro che l’obiettivo consiste o nel rimuovere Maduro e il suo governo o nel renderli impossibile governare.
Come ha dichiarato pubblicamente nei giorni scorsi Julio Borges, un possibile prossimo presidente del parlamento: se il governo Maduro non si adegua alle nuove politiche dell’assemblea “dovrà essere cambiato”. Indubbiamente saranno presto all’ordine del giorno in Venezuela procedure di impeachment per cercare di rimuovere Maduro, proprio come accade ora in Brasile. Ma per far ciò occorre cambiare la Corte Suprema del Venezuela, il che la rende il prossimo immediato fronte della battaglia.

Argentina e Brasile: messaggeri del neoliberismo a venire
Se la nuova assemblea nazionale venezuelana, filostatunitense, filoindustriale, dovesse prevalere sul governo Maduro, la conseguenza sarebbe economicamente simile a ciò che si sta svolgendo con il governo di Mauricio Macri in Argentina. L’argentino Macri ha già, a pochi giorni dall’assunzione della carica, tagliato le tasse ai grandi coltivatori e produttori, cancellato i controlli valutari e svalutato il peso del 30 per cento, consentito l’aumento del 25 percento dell’inflazione da un giorno all’altro, messo a disposizione di esportatori e speculatori argentini due miliardi di dollari in titoli denominati in dollari , riaperto discussioni con fondi speculativi statunitensi come preludio al pagamento a loro degli interessi in eccesso che il governo Kirchner aveva in precedenza negato, trasmesso a migliaia di dipendenti governativi il preavviso di imminente licenziamento, dichiarato l’intento del nuovo governo di occupare la Corte Suprema affinché metta il timbro sui suoi programmi neoliberisti e assunto iniziative per cancellare la recente legge argentina sui media. E questo è solo l’inizio.
Politicamente la visione neoliberista si tradurrà nel rovesciamento e nella ristrutturazione dell’attuale Corte Suprema, in possibili modifiche dell’attuale Costituzione, in tentativi di rimuovere dalla carica, con vari mezzi, prima della fine del mandato il presidente regolarmente eletto. A parte i piani di occupare la magistratura, come in Argentina, il nuovo parlamento venezuelano controllato dalle imprese copierà probabilmente i suoi reazionari compatrioti di classe del Brasile, e passerà all’incriminazione del presidente del Venezuela, Maduro, e a smantellare il suo governo popolare, proprio come si sta tentando di fare in Brasile con la presidente pure recentemente rieletta di quel paese, Rousseff.
Ciò che accadrà nelle prossime settimane, nel 2016, in Venezuela, Argentina e Brasile è un assaggio dell’intensa guerra di classe economica e politica in Sud America che sta per intensificarsi a un livello più elevato nel 2016.

lunedì 11 gennaio 2016

Smart Jobs, il fratello più perfido del Jobs act

Negli uffici, quelli più alla moda, circola una parola, smart, che fa tanto figo. Se ti dicono che sei “smart” è un complimento, vuol dire che sei abile, veloce. Se a questo termine aggiungete la parola “working” il tutto diventa meno figo. Non c’è una traduzione esatta, comunque al ministero del Lavoro ne hanno trovata una, “lavoro agile”, un modo nuovo per rottamare il contratto nazionale di lavoro, chiodo fisso di Renzi Matteo. Proprio mentre Cgil, Cisl, Uil stanno mettendo a punto un nuovo sistema di relazioni industriali fondato sulla contrattazione a partire da quella nazionale, partecipazione e regole, il premier stringe i tempi per una nuova tappa che si aggiunge al Jobs act, il “lavoro agile” per colpire ancora i diritti dei lavoratori. Non bastava il televoro, il lavoro a casa, che andava comunque inquadrato in una tipologia contrattuale. Troppi vincoli per le aziende, obblighi e costi legati alla sicurezza. Il lavoro agile abolisce ogni vincolo. Per la sicurezza sarà sufficiente una informazione preventiva, poi te la devi cavare.
Non più orari di lavoro, stai a casa, hai un obiettivo da realizzare, il contratto non c’è più
Non ci sono più orari di lavoro, niente cartellini da timbrare, niente mensa, niente rimborso per mezzi di trasporto, niente affitto degli uffici. Il rapporto è diretto fra singolo lavoratore e azienda. Ti viene assegnato un obiettivo da realizzare in un tempo stabilito. Puoi lavorare qualche pomeriggio a settimana, tre ore al giorno, la mattina, la sera, la notte. Vedi tu, ma devi consegnarmi il lavoro nei tempi stabiliti, che ovviamente saranno sempre più stretti. A noi sembra di rivedere quell’omino, Charlot, sempre più preso dagli ingranaggi di una infernale macchina del lavoro. Pause? Affari tuoi. Al ministero di Poletti si sta lavorando alacremente per presentare il disegno di legge. Renzi Matteo prevede che il disegno di legge sia collegato alla legge di stabilità e presentato in Parlamento entro il 31 gennaio. Il testo dovrebbe andare al Consiglio dei ministri nella prossima settimana. I sindacati ne sanno qualcosa, sono stati consultati perlomeno dal Poletti? Ci mancherebbe altro.
Il testo della legge elaborato da un “bocconiano” amico e consigliere del premier
Il testo della legge che decapita la contrattazione, già mutilata dal Jobs act, nasce dalle intuizioni di Maurizio Del Conte, bocconiano, professore di diritto del Lavoro all’ateneo milanese, consigliere giuridico del premier che di costui si fida ciecamente. Per completare il quadro la proposta di “lavoro agile” è stata pubblicata sul blog del Corriere della sera ed avrebbe raccolto, dicono al ministero, numerosi consensi. E questa la chiamano consultazione.
Al ministero si dice che si tratta di dare continuità al Jobs act e alla legge di stabilità
Le “fonti” che hanno reso noto questo lavorio sotterraneo, top secret, spiegano che si tratta di dare continuità alle scelte fatte con il Jobs act e con la legge di stabilità. Con il lavoro agile viene rispecchiata la linea dell’esecutivo, dicono, sempre più orientata a dare spazio alla contrattazione di secondo livello, tra lavoratore e azienda. Ma della parola contrattazione resta solo il fatto che il lavoratore deve esser d’accordo nell’accettare il “lavoro agile”. Ci mancava che fosse obbligatorio. Errore, forse vieni assunto solo se accetti questa forma di sfruttamento intensivo. E se non realizzi l’obiettivo concordato? Ancora non è stata stabilita la penalità. Ti chiudono in casa? Arresti domiciliari? Fai lavorare anche i tuoi familiari, figli minorenni compresi ? Pubblica fustigazione?
Ci viene a mente quell’omino con i baffetti, Charlot, che sempre più veloce stringe bulloni
Verrebbe voglia di dire che quell’omino con i baffetti, Charlie Chaplin-Charlot, che stringe bulloni e deve sperimentare la macchina automatica da alimentazione che ti consente di mangiare senza interrompere il lavoro, era un privilegiato rispetto allo “smart working”. Un ritorno al passato usando parole nuove. Una volta si chiamava lavoro a domicilio. Era in uso nelle piccole fabbriche che affidavano, per esempio, parti delle calzature fatte a mano, le tomaie a lavoranti a domicilio, le donne in particolare. Mentre cucinavano incollavano scarpe, l’odore del benzolo si confondeva con quella della zuppa. Poi si scopriva che erano morte di un male incurabile. Si dirà che oggi è tutto diverso. Che le donne in particolare gradiscono il lavoro in casa. Possono stare con i figli, allattano,preparano la pappa,lavano stirano , mettono sul fuoco la cena. Sempre con un occhio al computer. Oppure è l’uomo a fare il doppio lavoro. Si rischia il mal di casa, una nuova forma di alienazione, non prevista dal prontuario medico predisposto dalla ministra Lorenzin. Si perde il senso del tempo di vita e del tempo di lavoro. Una vecchia rivendicazione del sessantotto che torna sempre più di attualità.

domenica 10 gennaio 2016

Germania. Le aggressioni alle donne e le distrazioni dei media

I fatti di Colonia e altre città tedesche - con le violenze subite da molte donne aggredite per strada durante il Capodanno - offrono un ottimo esempio di quanto difficile possa essere trovare un'informazione non inquinata per farsi un'idea di quanto accade. Tutte le reazioni osservate in questi giorni - dagli articoli apparsi sulla stampa ai discorsi delle differenti parti politiche, fino alle dischiarazioni di militanti anti-razzisti, femministe, nuova destra, e persino alle esternazioni della stessa polizia - non fanno altro che aumentare la confusione sull'accaduto.
Da una parte la stampa: questa, o non dà notizia dell'accaduto (la TV di stato, ZDF, se ne occupa solo martedì dopo il lungo fine settimana di Capodanno e poi si scusa pubblicamente per «l'errore di giudizio» commesso, giustificandosi con la necessità di «raccogliere altre interviste» sugli avvenimenti) oppure utilizza i fatti per fare palese speculazione a favore di questa o di quella linea politica, soffiando su un vortice crescente di giudizi che neppure i timidi tentativi di fare luce sugli episodi attraverso un processo di "fact checking" riescono a calmare. Davanti a tutto ciò fiorisce naturalmente la propaganda della nuova destra, che, mentre la polizia brancola ancora nel buio delle sue investigazioni, ha naturalmente trovato la soluzione a tutto, a carico di tutti gli asylanten.
Poi c'è la polizia: questa, prima annuncia in modo rilassato che la notte del 1° gennaio è stata una nottata tranquilla, poi dichiara che in quella stessa notte si sono verificati «reati di una dimensione completamente nuova» (così il capo della polizia di Colonia, Albers). Quindi, per giustificare il mancato intervento dei propri uomini presenti sul posto al momento dell'accaduto, precisa che si è trattato di incidenti accaduti in «piccoli gruppi», quindi non visibili. Nel momento in cui si é verificata la progressiva intensificazione della violenza, il piazzale di fronte alla stazione sarebbe stato evacuato. La portata degli attacchi sarebbe stata chiara solo successivamente, nelle ore e nei giorni successivi all'accaduto, quando le vittime hanno fatto denuncia dei furti e delle violenze subite.
Sopra questo panorama contraddittorio si erge poi la figura della sindaca (Oberbürgermeisterin) di Colonia, Henriette Reker, con la sua sfortunata esternazione con cui ha dato consigli alle donne: queste dovrebbero tenere gli sconosciuti «a un braccio di distanza...». Dichiarazione che giustamente ha sollevato nuove polemiche su tutti i media.
Al di là di tutto, si sa ben poco sugli attori della vicenda. Se appartengano all'ultima ondata di rifugiati o siano personaggi già noti alla polizia criminale, nulla è certo. Ci sarebbero stati già alcuni arresti, ma le ricerche della polizia non hanno ancora dato luce a quanto sarebbe accaduto quella notte. Fatti simili sarebbero accaduti anche in altre città tedesche, tanto che i partiti che si oppongono ad Angela Merkel e alla sua politica di apertura per i rifugiati, compresa la SPD, chiedono conseguenti espulsioni e - se necessario - anche la riduzione degli aiuti ai rifugiati.
Quel che risulta davvero emblematico è che la città di Colonia, intanto che ancora si accendono polemiche da tutte le parti, già da mercoledì mattina sembra aver spostato l'attenzione dai fatti di quella notte a tutt'altro argomento. Basta dare uno sguardo alla home page del sito Web della città: è dedicata ai nuovi autovelox, mentre gli articoli principali dei siti locali si occupano delle anticipazioni sugli eventi dell'imminente Carnevale, e i fatti di Capodanno scivolano nelle pagine interne: dal silenzio al chiasso al silenzio, senza che il pubblico nel frattempo possa davvero capire. Il sistema dell'informazione funziona patologicamente, e qualcuno sfrutta questa patologia.
Parafrasando il criminologo Christian Pfeiffer: «Si dovrebbero prendere sul serio i problemi, quando li si riconosce come tali e chiamarli con il loro nome. Con le mezze verità non si va avanti. Sono proprio questi sotterfugi che suscitano l'ira del popolo».

sabato 9 gennaio 2016

Sale la tensione nei Paesi del Golfo, brutale repressione contro comunità sciita

Dopo l’uccisione dello sceicco Al-Nimr, il Medio Oriente vive un nuovo periodo di tensione a causa delle provocazioni del regime saudita contro la Repubblica islamica dell’Iran.
Il Bahrain, piccola monarchia del Golfo Persico dove la maggioranza sciita viene brutalmente repressa dal regime, lunedì insieme al Kuwait, Sudan e Emirati Arabi ha adottato la stessa politica dell’Arabia Saudita sospendendo ogni rapporto diplomatico con l’Iran. La decisione fa seguito all’assalto all’ambasciata saudita a Teheran.
Dal 2011 al 2014 il Bahrain è stato teatro di scontri e manifestazioni contro il regime della famiglia reale Al-Khalifa, che presero avvio il 14 febbraio provocando oltre cinquanta morti e più di mille feriti negli scontri con la polizia. Le cause principali che hanno scatenato la protesta sono le discriminazioni interconfessionali, il malcontento popolare e il desiderio di un cambiamento del regime.
Attualmente il regime ha adottato una nuova legge anti-terrorismo che ha provocato un alto numero di arresti, secondo un recente rapporto del Centro del Bahrain per i diritti umani (Bchr) 63 persone, tra cui 18 bambini sono stati arrestati in una settimana ed il numero è in crescente aumento.
Il rapporto Bchr ha aggiornato di recente il numero di arresti nel corso dell’anno 2015. Un totale di 1.883 persone, tra cui 237 bambini e 34 donne. Di questo totale, 864 sono stati successivamente rilasciati. Più di tremila prigionieri rimangono in detenzione arbitraria.
Solo martedì, in seguito alle proteste per l’uccisione dello sceicco Al-Nimr sono state arrestate 35 persone nella capitale, Manama.
La polizia ha usato gas lacrimogeni e pallini da caccia contro i manifestanti. Molti gruppi per i diritti internazionali hanno criticato duramente il governo del Bahrain per avallare i nuovi emendamenti alla cosiddetta legge anti-terrorismo, che permette di sopprimere ogni opposizione interna.

venerdì 8 gennaio 2016

Il valore intrinseco di una bufala

Un ventenne di Caltanissetta inventava notizie di sana pianta, facendo passare gli immigrati come criminali, e pubblicava tutto sul suo sito SenzaCensura.eu. Il sito è stato denunciato da un giornalista locale, la Polizia Postale lo ha messo offline e ha avviato un’indagine contro il gestore. Il primo a parlare di questo caso è stato verso fine agosto il portale locale online ilFattoNisseno, poi ripreso da altre testate. Secondo le cronache il ragazzo avrebbe detto alla Polizia di non aver pubblicato quelle informazioni inventate mosso da odio razziale ma solamente per guadagnare tramite clic e banner pubblicitari, e lo ha ribadito a metà ottobre in un’intervista a l’Espresso. Una ricerca pubblicata da Bufale.net sembra confermare questa malsana intenzione: “non esiste né buona né cattiva pubblicità, basta che sia pubblicità. Grazie ancora!” rispondeva Gianluca Lipani, così si chiama il giovane nisseno indagato, a chi segnalava su Facebook le false notizie pubblicate.
L’articolo “Immigrato violenta bambina di 7 anni, il padre gli taglia le palle e gliele fa ingoiare” fa capire il tenore delle sensazionalistiche (non)notizie. Eppure, nonostante i titoli sfiorino l’assurdo, sono molti i seguaci di questo tipo di informazione. Lo dimostra il fatto che un articolo del genere abbia raggiunto le 40mila condivisioni in meno di 24 ore.
A conferma del fatto che l’odio sia un’ottima strategia di marketing Bufale.net e Butac.it, entrambi siti antibufale molto seguiti sul web, hanno “smascherato” una rete di siti -per la precisione 4 siti web con 6 pagine Facebook relative, 2 account Twitter e un canale Youtube- che propagandavano notizie false sugli immigrati. Si tratta di voxnews.info, tuttiicriminidegliimmigrati.com, identità.com e resistenzanazionale.com, e fanno capo a un unico direttore responsabile, che in rete si fa chiamare Gianni Togno.
Dopo una ricerca avviata nel 2014 i responsabili dei due portali dedicati al fact cheking hanno consegnato il 2 ottobre 2015 le denunce alla polizia di Bologna. Il rapporto -lungo 150 pagine- ripercorre le attività online dei siti razzisti a partire dal 2006. “Vengono esagerate, manipolate e stravolte notizie vere, così da cambiarne completamente il significato, incrementando odio razziale, incitando alla violenza, o denigrando alcuni soggetti. Sono stati diffamati, ad esempio, enti di volontariato come la Croce Rossa o Medici senza frontiere, i gestori di centri d’accoglienza, prefetti, giudici, Papa Francesco o albergatori che hanno dato la loro disponibilità a ospitare profughi”. Sono le parole dell’ideatore del sito Bufale.net, David Alejandro Puente Anzil, riportare dal sito dell’associazione Carta di Roma, che si dedica all’attuazione di un protocollo deontologico per una più corretta informazione sui temi dell’immigrazione. Sempre Carta di Roma riporta la dichiarazione di Michelangelo Coltelli, l’ideatore invece di Butac.it (Bufale un tanto al chilo): “gli under 40utilizzano soprattutto internet per informarsi, e cadere in questi tranelli è molto facile. Basti pensare che a volte, nella corsa alle visualizzazioni, ci cascano anche giornalisti di importanti testate”.
Nonostante l’esposto presentato in Procura, i siti e i relativi social network a metà ottobre sono ancora online. Per quanto riguarda i social, Altreconomia ha segnalato che pubblicano materiale irrispettoso, se non illegale. Facebook, però, ha fatto sapere che tali contenuti “rispettano i nostri standard della comunità”.

giovedì 7 gennaio 2016

La Siria è la Stalingrado del Medio Oriente

Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dello SIIL nei campi gestiti dalla NATO costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un Paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.
Più di due anni fa, la mia ex-videoredattrice indonesiana pretese una risposta in tono alterato: “Così tante persone muoiono in Siria! Ne vale davvero la pena? Non sarebbe più semplice e migliore per i siriani mollare e lasciare che gli Stati Uniti abbiano ciò che esigono?” Cronicamente pietrificata, questa giovane donna era sempre alla ricerca di soluzioni facili per mantenersi al sicuro, e con significativi vantaggi personali. Come tanti altri oggi, di questi tempi, per sopravvivere e andare aventi, hanno sviluppato un sistema contorto che poggia su tradimenti, autodifese e inganni. Come rispondere a una domanda del genere? Era legittima, dopo tutto. Eduardo Galeano mi disse: “La gente sa quando è il momento di combattere. Non abbiamo il diritto di dirglielo… e quando lo decide, è nostro obbligo sostenerla, anche guidandola se ci avvicina“. In questo caso, il popolo siriano ha deciso. Alcun governo o forza politica potrebbe imporre a un’intera nazione tali enormi eroismo e sacrificio. I russi l’hanno fatto durante la seconda guerra mondiale, e i siriani lo fanno ora. Due anni fa risposi così: “Ho assistito al crollo totale del Medio Oriente. Non c’era più niente in piedi. I Paesi che hanno optato per la propria strada sono stati letteralmente rasi al suolo. I Paesi che hanno ceduto ai dettami occidentali hanno perso anima, cultura ed essenza, trasformandosi alcuni nei luoghi più miseri della terra. E i siriani lo sapevano: se si arrendevano, sarebbero divenuti un altro Iraq, Yemen o Libia, perfino Afghanistan“. E così la Siria si oppose. Decise di combattere, per sé e per la sua parte nel mondo. Ancora una volta, elesse il suo governo e si appoggiò al suo esercito. Qualunque cosa gli occidentali dicessero, qualsiasi tradimento le ONG scrivessero, la semplice logica lo dimostrava.
Questa nazione modesta non ha media così potenti da condividere i propri coraggio e agonia col mondo. Sono sempre gli altri che ne commentano la lotta, spesso in modo del tutto dannoso. Ma è innegabile che, mentre le forze sovietiche fermarono l’avanzata dei nazisti a Stalingrado, i siriani sono riusciti a fermare le forze fasciste alleate degli occidentali nella sua parte del mondo. Naturalmente la Russia ne è direttamente coinvolta. Naturalmente la Cina osserva, anche se spesso nell’ombra. E l’Iran ha dato aiuto. Ed Hezbollah del Libano ha fatto ciò che descrivo spesso, una lotta epica assieme Damasco contro i mostri estremisti inventati e armati da occidente, Turchia e Arabia Saudita. Ma il merito principale deve andare al popolo siriano. Sì, ora non c’è più nulla del Medio Oriente. Ora sono più le lacrime che le gocce di pioggia a scendere su questa terra antica. Ma la Siria è in piedi. Bruciata, ferita, ma in piedi. E come è stato ampiamente riportato, dopo che le forze armate russe sono giunte in soccorso della nazione siriana, oltre 1 milione di siriani è potuto reintrare a casa… spesso trovando solo cenere e devastazione, ma a casa. Come le persone tornarono a Stalingrado, oltre 70 anni fa.
Quindi quale sarebbe la mia risposta a tale domanda ora: “sarebbe più facile il contrario”, arrendersi all’Impero? Credo qualcosa del genere: “La vita ha un senso, è degna di essere vissuta solo se possono essere soddisfatte certe condizioni di base. Non si tradisce un grande amore, sia esso per un’altra persona o per un Paese, l’umanità o gli ideali. Se non lo si fa, sarebbe meglio non nascere affatto. Allora dico: la sopravvivenza del genere umano è l’obiettivo più sacro. Non qualche effimero vantaggio o ‘sicurezza’ personale, ma la sopravvivenza di tutti noi, persone, nonché della sicurezza di tutti noi, esseri umani“. Quando la vita stessa è minacciata, la gente tende a opporsi e a combattere, istintivamente. In quei momenti, alcuni dei capitoli più monumentali della storia umana sono stati scritti. Purtroppo, in quei momenti, milioni morirono. Ma la devastazione non è a causata da coloro che difendono la nostra razza umana. E’ causata dai mostri imperialisti e dai loro succubi.
La maggior parte di noi sogna un mondo senza guerre, senza violenza. Vogliamo che la vera bontà prevalga sulla Terra. Molti di noi lavorano senza sosta per tale società. Ma fino a quando non sarà costruita, fino a quando ogni egoismo estremo, avidità e brutalità sarà sconfitto, dobbiamo lottare per qualcosa di molto più “modesto”, per la sopravvivenza dei popoli e dell’umanesimo. Il prezzo è spesso orribile. Ma l’alternativa è un grande vuoto. Semplicemente il nulla, alla fine, e nient’altro!
A Stalingrado, milioni morirono per farci vivere. Nulla rimase della città, tranne che acciaio fuso, mattoni sparsi e un oceano di cadaveri. Il nazismo fu fermato. L’espansionismo occidentale iniziava la ritirata, all’epoca verso Berlino. Ora la Siria, con calma ma stoicamente ed eroicamente, si oppone ai piani sauditi, qatarioti, israeliani, turchi e occidentali per distruggere il Medio Oriente. E il popolo siriano ha vinto. Per quanto tempo, non lo so. Ma ha dimostrato che un Paese arabo può ancora sconfiggere potenti orde assassine.Syrians wave flags and placards bearingAndre Vltchek è filosofo, scrittore, regista e giornalista investigativo, ideatore di World Vltchek, applicazione per Twitte, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook“.

mercoledì 6 gennaio 2016

In pensione ancora più tardi, anche se crollano le "aspettative di vita"

Tra gli auguri di buon anno, non poteva mancare l'arrivo di un altro “scalino” pensionistico. Pubblichiamo qui di seguito l'analisi dettagliata di Davide Grasso, pubblicata nel sito de “Il sindacato è un'altra cosa” (la componente di opposizione interna alla Cgil), che dà conto di tutti i dettagli “tecnici”.
Noi vorremmo però indirizzare l'attenzione dei lettori sulla contraddizione che comincia a diventare palese tra le ragioni addotte per “riformare le pensioni” dai vari governi criminali degli ultimi decenni e la dinamica reale degli andamenti demografici.
Come abbiamo sentito dire per anni, le “riforme” pensionistiche erano scelte obbligate per “adeguare l'età pensionabile alle aspettative di vita”. Formula infame, certamente, ma dall'apparenza innocente. Che c'è di male, in astratto (ma solo in astratto), a far lavorare qualche anno di più una popolazione che vede continuamente allungarsi nel tempo il momento del trapasso?
Le argometazioni a contrasto sono state molte, e tutte serie (dai lavori cosiddetti “usuranti” alle pure constatazioni empiriche: come fa una maestra a fare lezione, o un muratore a camminare sui ponteggi, fino a 67 anni?). Ma non hanno spostato di una virgola i programmi dei governi /dalla “riforma Dini” del 1996 a quella “Boeri” in via di progettazione: tremate!).
Il principio basilare restava infatti quello contabile (se la gente vive più a lungo, “non possiamo pagare pensioni per un numero indefinito di anni”), perché le “aspettative di vita” effettivamente continuavano ad aumentare. E chissenefrega se a un quasi settantenne non si può chiedere la stessa efficienza lavorativa di un cinquantenne (a meno di non svolgere professioni esclusivamente intellettuali: giornalista, professore universitario, parlamentare, ecc).
Le ragioni di quell'aumento sono state più volte analizzate: un orario di lavoro limitato a otto ore, la sicurezza del posto (con tutele contro i licenziamenti, ferie, riposi, diritto a periodi di malattia o maternità, ecc), una sanità pubblica efficiente e semigratuita, un'istruzione altrettanto pubblica e semigratuita (che permetteva il funzionamento dell'”ascensore sociale”, verso mestieri meno stressanti sul piano fisico), e infine un'età pensionabile umana (mediamente intorno ai 57 anni, invece dei 67 che vanno a regime dal 1 gennaio).
Tutte queste condizioni favorevoli all'allungamento della vita sono state cancellate più o meno radicalmente (sanità e istruzione sopravvivono con molte difficoltà, ma l'attacco finale contro di esse non è stato ancora sferrato), e i risultati concreti si cominciano a vedere: nel 2015 ci sono stati 68.000 morti in più rispetto al 2014, + 11,3%.
I cambiamenti nei processi demografici sono in genere molto lenti, a meno di eventi socialmente catastrofici come le guerre. Quindi la percezione che se ne ha a livello di common people è ritardata; ossia, prima ci devono essere i mutamenti e poi ci si rende conto di quanto è ormai avvenuto.
In questo caso, però, abbiamo la possibilità di verificare in tempi abbastanza rapidi quel che sta avvenendo. Quel +11,3% del 2015 è un aumento che non si vedeva dagli anni in cui erano in corso due guerre mondiali anche sul nostro territorio. La stretta operata già ora sulle condizioni di vita e di lavoro della popolazione è insomma tale da produrre gli effetti tipici di una guerra. Ossia un abbassamento delle aspettative di vita.
Se, com'è prevedibile, questo andamento si confermerà anche nei prossimi due-tre anni (con ulteriori accelerazioni), tutti gli elementi che concorrono a produrre l'apposito “indice” subiranno variazioni negative tali da rendere impossibile continuare nella cantilena padronale sull'”adeguamento dell'età pensionabile, ecc”. Resteranno a quel punto solo i brutali criteri contabili: inumani.
Secondo noi non c'è nessuna ragione di attendere che qualche centinaio di migliaia di persone scendano prematuramente nella tomba per cominciarsi ad incazzare. Si puà fare anche subito. Esempi e numeri non mancano. Basta smettere di attendere che le cose migliorino per volontà divina. Come si è visto in questi anni, ogni messaggio “ottimistico” sparso da governo e media è solo oppio per invitare alla calma ed avere “fiducia”.
Quel tempo è durato anche troppo e deve finire. Altrimenti ne va della nostra vita... (qualsiasi età abbiate, lettori!)