lunedì 30 novembre 2015

Guerra ibrida per spezzare i Balcani?

Nello spirito della nuova guerra fredda e dopo il suo successo nel smantellare South Stream, gli Stati Uniti danno priorità agli sforzi per ostacolare il gasdotto russo Balkan Stream, in gran parte riuscito, purtroppo, per il momento. La prima sfida è il tentativo di rivoluzione colorata in Macedonia nel maggio 2015, che per fortuna fu respinto dalla cittadinanza patriottica del Paese. Poi nell’agenda della destabilizzazione vi fu il fermento politico che minacciava di occupare la Grecia nella fase di preparazione e dopo il referendum sull’austerità, con l’idea che se Tsipras veniva deposto, Balkan Stream veniva sostituito da un progetto gradito agli Stati Uniti. Ancora una volta, i Balcani resistettero e il complotto statunitense fu sventato, ma la terza e più direttamente antagonista manovra ha cassato sul nascere e messo da parte indefinitamente il progetto.
Il ‘fortunato’ numero tre:
L’azione scatenante s’è avuta il 24 novembre, quando la Turchia ha abbattuto un cacciabombardiere dell’operazione antiterrorismo russa sui cieli siriani, e il progetto in corso fu vittima della reazione del deterioramento politico tra le due parti. Dato che ovviamente la cooperazione energetica sarebbe stata vittima delle crescenti tensioni russo-turche, gli Stati Uniti istigarono appositamente la Turchia a provocare tale reazione a catena, rottamando Balkan Stream. Sia come sia (e sembra abbastanza convincente sia così), non significa che il progetto strategico sia stato annullato, ma sia più precisamente accantonato temporaneamente. La Russia comprensibilmente non vuole rafforzare la posizione di uno Stato che le si dimostra così sfacciatamente aggressivo, ma tale sentimento vale solo per l’attuale governo, nel contesto attuale. E’ certamente possibile che un cambio fondamentale nella posizione della Turchia (per quanto improbabile appaia nel breve termine) potrebbe portare ad una distensione che rigeneri Balkan Stream, ma uno scenario più probabile sarebbero masse ostili e/o militari turbati che rovesciano il governo.
Inversione turca?:
Entrambe le possibilità non sono così improbabili quando si riconosce il crescente risentimento verso il governo di Erdogan e la situazione precaria in cui ha posto le forze armate. E’ ben noto come abbia insoddisfatto una massa significativamente crescente di turchi (soprattutto nel pieno della crescente insurrezione curda), ma ciò che è poco discusso è la situazione strategicamente svantaggiosa dei militari in questo momento. Come l’autore ha scritto ad ottobre, le forze turche sono mal distribuite tra le operazioni contro i curdi nel vasto est, proteggere il centro da attentati terroristici di SIIL ed estrema sinistra, interventi nel nord dell’Iraq, e allerta al confine con la Siria. Gestire tale situazione è già troppo per qualsiasi militare, e l’ultima cose di cui i loro leader hanno bisogno oggi è affrontare un’immaginaria e completamente inutile ‘minaccia’ russa ideata da Erdogan. La pressione potrebbe rivelarsi troppo alta e nell’interesse della sicurezza nazionale, e rispondendo in modo adeguato al ruolo costituzionale nel salvaguardare l’integrità territoriale dello Stato, potrebbero rovesciarlo nonostante i cambiamenti sistemici varati nel decennio passato per difendersi da un tale evento.
La strada avanti:
C’è la possibilità molto reale che Balkan Stream sia scongelato e il progetto vada avanti un giorno, perché è troppo importante strategicamente per la Russia, e anche la Turchia, per tenerlo da parte a tempo indeterminato. E’ del tutto possibile che un cambio politico si abbia n Turchia, sia nella mentalità dell’attuale leadership o più probabilmente con un nuovo governo rivoluzionario/colpo di Stato, il che significa che è troppo presto per Russia e Stati Uniti cedere sulle rispettive politiche sul Balkan Stream. Pertanto, le grandi potenze avanzano una sorta di strategia di garanzia geopolitica in ogni caso incentrata sulla Via della Seta balcanica della Cina. Dal punto di vista statunitense, gli USA devono continuare a destabilizzare i Balcani, dato che anche se il progetto russo viene fermato con successo, dovranno fare la stessa cosa con la Cina. Finché continua a costruire la Via della Seta nei Balcani, la Russia sarà un magnete multipolare col suo partner strategico principale, potendovi concentrare l’influenza che coltivava finora. Nel caso in cui Balkan Stream sia ripreso, la Russia può immediatamente rientrare, come se non avesse mai lasciato, congiungendo le forze strategiche con l’alleato cinese, come originariamente previsto, ed è contro questo scenario da incubo che gli Stati Uniti ricorrono alla Guerra Ibrida, nel disperato tentativo di distruggere la Via della Seta balcanica. Come è già stato detto, l’approccio russo si concentra maggiormente sulla situazione economica e militare e la diversificazione politica che dovrebbe accompagnare l’infrastruttura fisica energetica che voleva costruire. Invece del gasdotto formare la nuova spina dorsale dei Balcani, sembra sarà la ferroviaria ad alta velocità della Via della Seta balcanica ad aver questo ruolo, ma in entrambi i casi si tratta di un megaprogetto multipolare che fungerà da calamita dell’influenza russa. Nell’attuale configurazione, la Russia ha relativamente meno influenza nel decidere direttamente la costruzione dell’infrastruttura, ma allo stesso tempo è indispensabile per la Cina. Pechino non ha quasi alcun legame con i Balcani oltre a rapporti puramente economici (e anche quelli sono relativamente nuovi), così il coinvolgimento privilegiato della Russia nel sostenere il progetto e investire sulla rotta della Via della Seta dei Balcani (che doveva essere parallela a Balkan Stream, comunque comportando investimenti) ne rafforza il sostegno regionale e locale presentandolo con il volto amichevole e familiare con cui i decisori erano già abituati a lavorare. Ciò non vuol dire che la Cina non può attuare il progetto da sé o che non ci sia un sostegno legittimo nei Balcani a tale iniziativa, ma la partecipazione diretta della Russia rassicura l’élite locale che una civiltà vicina e un partner ultra-influente sia con esse, anche visibilmente, puntando alto nel programma e dimostrando fiducia nel suo successo sperato.
Pechino è l’ultima spiaggia dei Balcani
Finora era chiaro che il partenariato strategico russo-cinese sia destinato a rivoluzionare il continente europeo con l’avanzata dell’influenza multipolare lungo il corridoio balcanico, che supporterebbe Balkan Stream e Via della Seta dei Balcani. Purtroppo, però, gli Stati Uniti sono temporaneamente riuscito a mettervi un freno al primo, il che significa quindi che la Via della Seta dei Balcani è il solo megaprogetto multipolare previsto attraverso la regione. Perciò, è la Cina, non la Russia, che regge la fiaccola della multipolarità nei Balcani, anche se Pechino dipende naturalmente dall’influenza della Russia per proteggere l’obiettivo geostrategico comune e realizzarlo. In ogni caso, la Via della Seta dei Balcani probabilmente è più importante di Balkan Strena al momento, e come tale è degno di attenzione per i dettagli strategici, compendendo meglio perché rappresenti l’ultima speranza multipolare dei Balcani.
Fondamenta istituzionali:
Il concetto di Via della Seta dei Balcani è di un paio di anni fa, e deve la genesi a Via e Fascia della Cina, la politica di costruzione delle infrastrutture connettive nel mondo (“Nuova via della seta”). Questo sforzo è stato pensato al fine di risolvere il duplice problema di creare opportunità d’investimento cinesi e aiutare le regioni geostrategiche a liberarsi aderendo al multipolarismo. Nell’area oggetto di studio, la Via della Seta dei Balcani è la manifestazione regionale di questo ideale, in realtà parte di un ampio impegno della Cina con i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Il formato della loro interazione multilaterale fu formalizzato nel 2012 con il primo Vertice di Varsavia tra Cina e Paesi centro-orientali europei (Cina-PECO), e l’evento di due anni dopo, a Belgrado, producendo l’idea per un progetto ferroviario ad alta velocità Budapest-Belgrado-Skopje-Atene (la cui descrizione colloquiale dell’autore è Via della Seta dei Balcani) volto ad approfondire l’interconnessione economica delle parti. Il vertice del 2015 a Suzhou produsse un programma a medio termine per il 2015-2020 che, tra l’altro, propone la creazione di una società di finanziamento congiunta per fornire credito ed investimenti a questo e altri progetti. La Via della Seta dei Balcani viene anche ufficialmente descritta come “China-Eurasia Land-Sea Express Line” suggerendo l’integrazione nel nuovo Corridoio Economico Eurasiatico in futuro, il che implica che Pechino vorrebbe Paesi più pragmaticamente cooperativi con la Russia (in primo luogo la Polonia). È importante sottolineare che, come Xinhua ha riferito, i partecipanti decisero di completare la fase Budapest-Belgrado del progetto entro il 2017.
Contesto strategico:
Ciò che tutto questo significa è che la Cina ha accelerato le relazioni diplomatiche, istituzionali e economiche con l’Europa centrale e orientale in un paio di anni, divenendo incredibilmente un attore di primo ministro nella regione, quasi mezzo mondo lontano e in parte nel blocco unipolare. Ciò si può spiegare unicamente dall’attrazione economica della Cina sui PECO che trascende ogni confine politico, nonché dall’ambizione complementare che il supergigante orientale ha nell’approfondire la presenza nel mondo. Questi due fattori si combinano in una componente formidabile della grande strategia della Cina, che si sforza di utilizzare esche economiche inevitabili nel condurre i partner (in particolare coloro che rappresentano il mondo unipolare) sul percorso di un tangibile cambio geopolitico in una generazione. Facendo nuovamente riferimento alla Via della Seta dei Balcani, rappresenta il principale veicolo di Pechino nel realizzare la strategia a lungo termine e la logica geo-economica sottesa che sarà spiegata più avanti. Prima di procedere, tuttavia, è importante ricordare ciò che è stato indicato in precedenza sugli imperativi egemonici degli Stati Uniti, dato che spiegano perché gli Stati Uniti hanno così paura dell’impegno economico della Cina in Europa da arrivare ad inventarsi guerre ibride distruttive per impedirlo.
Ragioni geo-economiche:
La ragione geoeconomica della Via della Seta dei Balcani è evidente, e può essere facilmente spiegata esaminando lo spazio europeo centrale e orientale che s’intende collegare. La penisola del sud-est europeo sfocia direttamente su queste due regioni, e Budapest si trova geograficamente al centro di questo ampio spazio. Attualmente non c’è un corridoio nord-sud affidabile che colleghi Ungheria e mercati vicini (cioè Germania e Polonia) ai porti greci sul Mediterraneo, il che significa quindi che il commercio marittimo cinese con queste economie leader deve circumnavigare fisicamente tutta l’Europa. La Via della Seta dei Balcani cambia tutto questo e riduce di inutili giorni il tempo di trasporto della merci dall’Europa centrale e orientale al porto greco del Pireo, a portata di Suez, attraversato da navi cinesi. Ciò consente di risparmiare tempo e denaro, rendendo la rotta più redditizia ed efficiente per tutti gli interessati. In futuro, le economie dell’Europa centrale ed orientale potrebbero inviare i loro prodotti dalla Russia alla Cina attraverso il Ponte Eurasiatico, ma potrebbe essere vantaggioso dal punto di vista di produttori e consumatori, ma non per i rivenditori che si basano sulla riesportazione dei prodotti in altre parti del mondo. Per usufruire degli sviluppi economici dinamici attualmente in corso in Africa orientale e Asia meridionale (sia vendendo in quei mercati che costruiendovi fisicamente una presenza), è meglio per gli attori o parti imprenditoriali collegarsi tra di essi con un nodo marittimo che consenta efficienza e rapidità nell’imbarcare o sbarcare determinate merci da trasbordare. Geo-economicamente parlando, non c’è posto migliore che il Pireo, in quanto è il porto europeo più vicino al Canale di Suez, attraversato per accedere alle suddette destinazioni, con o senza trasbordo (ad esempio se gli imprenditori dell’UE decidessero di esportarvi i prodotti direttamente senza l’intermediazione cinese). Per il collegamento al Pireo, il corridoio ferroviario ad alta velocità, noto come Via della Seta balcanica, è un presupposto infrastrutturale e il suo completamento comporterebbe che una quota significativa del commercio europeo sia proficuamente reindirizzato verso la Cina e altri Paesi non occidentali in forte espansione, come India ed Etiopia. Gli Stati Uniti temono di perdere la posizione di principale partner commerciale dell’UE, sapendo che la tendenza strategica che potrebbe presto seguire comporterebbe il rapido disfacimento della loro egemonia. Visto dal punto di vista opposto, la Via della Seta dei Balcani è l’ultima speranza dell’UE per un futuro multipolare indipendente dal controllo totale statunitense, ecco perché è così geopoliticamente necessario per Russia e Cina completate il progetto. L’inevitabile scontro da Nuova Guerra Fredda che si presenta e la straordinariamente alta posta in gioco, indicano che i Balcani saranno uno dei principali focolai di tale pericoloso scontro indiretto, nonostante lo scambio di gerarchia dei protagonisti multipolari.Satellite-view-of-the-Balkans-1024x773Andrew Korybko è commentatore di politica statunitense dell’agenzia Sputnik. L’intervento è un capitolo tratti dal suo secondo libro sull’applicazione geopolitica delle Guerre Ibride. Il capitolo è stato aggiornato in modo da riprendere l’apparente sospensione del Turkish Stream.

domenica 29 novembre 2015

Gli stretti legami di Erdogan con lo Stato islamico

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in contrasto con le politiche dichiarate inizialmente del suo Partito Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkinma Partisi o AKP), non è un musulmano moderato. Erdogan sta lentamente trasformando la sua nazione in un’entità islamista che rispecchi l’impero ottomano. In realtà, ammassando ricchezze personali e costruendosi un palazzo presidenziale opulento ad Ankara, Erdogan ricorda i vecchi imperatori musulmani selgiuchidi. Erdogan sembra apprezzare il passato imperialista della Turchia in ogni aspetto immaginabile. La ricchezza di Erdogan è una gentile concessione dello Stato Islamico di Iraq e Levante (SIIL), che ha utilizzato intermediari turchi per spacciare petrolio da Siria e Iraq ad altri Paesi attraverso la Turchia. Uno di tali intermediari turchi sarebbe il figlio di Erdogan, Necmettin Bilal Erdogan. Il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti stima che lo SIIL realizzi 1 milione di dollari al giorno dal contrabbando di petrolio sul mercato mondiale, con famigliari e compari di Erdogan che ricevono una buona parte di tali proventi. I media turchi hanno pubblicato le foto di Bilal Erdogan, laureato ad Harvard, a cena in un ristorante d’Istanbul con un noto capo dello SIIL, responsabile di genocidio a Homs e nel Kurdistan occidentale, nel nord-est della Siria. Bilal Erdogan opera proprio nel business del petrolio contrabbandato dal SIIL. E’ uno dei tre azionisti del BMZ Grpup Denizcilik ve Insaat Sanayi Anonim Sirketi, una compagnia marittima. Non c’è dubbio che Erdogan usi lo SIIL per combattere i suoi molti nemici, che contrastano la politica islamista e jihadista di Erdogan. Erdogan, attraverso SIIL e surrogati come al-Nusra e gruppo Qurasan, ha aggredito il governo laico della Siria del Presidente Bashar al-Assad; gruppi curdi in Turchia, Siria e Iraq; sciiti e cristiani armeni e greci in Libano; e il governo sciita dell’Iraq. Erdogan ha favorito il passaggio di commando dello SIIL in Iran e continua a sostenere la Fratellanza musulmana in Egitto e le brigate salafite in Libia. Eppure Erdogan, che ha anche permesso l’infiltrazione in Europa dei terroristi dello SIIL mascherati da rifugiati della Siria, si affida alla tutela del mutuo ombrello difensivo della NATO. Con l’assicurazione militare della NATO, Erdogan è stato incoraggiato ad usare lo SIIL e i suoi affiliati come ascari per i maggiori obiettivi della Turchia: l’istituzione di un blocco islamista dominato dai turchi dal Marocco alla Cina occidentale, obiettivo di ogni imperatore ottomano e selgiuchide.
12308840Uno degli attori finanziari coinvolti nel sostegno ad al-Qaida prima degli attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti, Yasin al-Qadi, cittadino saudita, ebbe libero accesso in Turchia da Erdogan. Tra febbraio e ottobre 2012, al-Qadi entrò in Turchia quattro volte anche se era sanzionato dal viaggiare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Su pressione turca e saudita l’ONU tolese al-Qadi dall’elenco dei sanzionati dopo il quarto viaggio in Turchia nell’ottobre 2012. Mentre Erdogan ha dichiarato pubblicamente che è un partner di Stati Uniti e NATO contro lo SIIL, i fatti parlano da soli. Le operazioni militari di Erdogan contro lo SIIL sono effettivamente una feroce campagna contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nel sud-est della Turchia e il gruppo curdo siriano PYD/YPG (Partito dell’Unione Democratico) nel nord-est della Siria. Erdogan non ha mai avuto il desiderio di condurre la guerra contro lo SIIL quando, in realtà, lo SIIL attua una feroce guerra genocida contro i curdi in Siria e in Iraq. L’US Congressional Research Service (CRS) ha sottolineato che la Turchia è la via privilegiata dei terroristi dello SIIL per la Siria. Un rapporto del CRS del 5 ottobre 2015 dichiara: “il Congresso e altri politici statunitensi, insieme a molti attori internazionali, hanno mostrato notevole preoccupazione per l’uso del territorio turco da diversi gruppi e individui coinvolti nel conflitto in Siria, tra cui combattenti stranieri provenienti da tutto il mondo, che vi hanno passaggio, porto sicuro e contrabbando”. Il rapporto cita una testimonianza al Congresso del febbraio 2015 del direttore del National Counterterrorism Center (NCTC) Nicholas Rasmussen: “Violenti estremisti seguono diverse vie su terra, aria e mare. La maggior parte dei transiti passa per la Turchia per la sua vicinanza geografica alle zone di frontiera siriane, dove la maggior parte di questi gruppi opera”. Rasmussen, nella stessa testimonianza al Congresso, prese di mira il supporto di Erdogan ai terroristi in Siria: “La Turchia baderà sempre ai propri interessi attraverso il prima del proprio interesse, e prioritariamente le loro richieste specifiche di cooperazione non sempre si allineano con le nostre priorità”. L’“interesse personale” della Turchia è promuovere jihadismo e ideologia islamista pan-turca a spese della stabilità politica di Siria, Iraq, Iran, Azerbaigian, Libano, Turkmenistan, l’Uzbekistan, Afghanistan, Kirghizistan, il Kazakistan, Tagikistan, Pakistan, Egitto, Libia, Tunisia, Sudan, Yemen, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Bulgaria e Marocco. Erdogan ha detto anche che la minoranza alevi della Turchia, affiliata agli alawiti siriani, ha vecchi legami sciiti e sufi e aderendo a credenze religiose anatoliche e cristiane pre-islamiche, tradisce lo Stato turco. Il dipartimento di Stato ha riassunto la politica di Erdogan verso gli aleviti sul Religious Freedom Report 2013: “Il governo considera l’alevismo una setta musulmana eterodossa e non supporta finanziariamente il culto dei musulmani alevi”. Il capo del Partito Repubblicano del Popolo della Turchia (CHP), Kemal Kiliçdaroglu, è un alevita e sostiene il governo di Assad in Siria contro i suoi nemici. Erdogan ha definito Kiliçdaroglu traditore della Turchia.
Erdogan ha dimostrato il suo impegno al terrorismo dello SIIL quando, dopo l’attentato dello SIIL all’Airbus russo della Metrojet (Kogalymavia) in volo da Sharm al-Shayq a San Pietroburgo, che uccise i 224 passeggeri e membri dell’equipaggio, disse a Dubai TV, “Gli aerei russi prendono di mira i Mujahidin in Siria e i partigiani che lottano per rovesciare il dittatore siriano Assad. In Siria, Mosca cerca di mutare la situazione contro ‘i nostri fratelli’. Di conseguenza, non ci dovrebbe sorprendere se lo Stato islamico si vendica”. Erdogan aggiunse, “Come posso denunciare lo Stato islamico per l’abbattimento di un aereo russo quando i suoi passeggeri tornavano da una vacanza felice in un momento in cui i nostri correligionari in Siria sono bombardati dai caccia di Putin?… È il risultato naturale delle azioni di Mosca in Siria e del supporto ad Assad”. Erdogan ha ancora più motivi per sostenere gli attacchi terroristici sul suolo egiziano, continuando a sostenere i fuorilegge Fratelli musulmani in Egitto e il loro ex-presidente incarcerato Muhamad Mursi. La Russia sostiene il presidente egiziano Abdalfatah al-Sisi. In altre parole, Erdogan, il giorno dopo la strage terroristica dei cittadini russi, tra cui donne e bambini, non vide l’ora di lodare lo SIIL e l’affiliato nel Sinai Ansar Bayt al-Maqdis per aver colpito il Volo 9268 della Metrojet, il 31 ottobre 2015. Più oltraggiosamente, Stati Uniti e NATO sostengono il terrorismo di Erdogan, dimostratosi ancora una volta quando i guerriglieri turcomanni siriani supportati dai turchi operanti nell”esercito libero siriano’ della NATO, spararono ai membri dell’equipaggio del Sukhoj Su-24 dell’Aeronautica russa paracadutatisi dopo che il loro aereo era stato abbattuto dagli intercettori F-16 turchi. Gli stessi jihadisti turcomanni spararono un missile TOW fornito dagli statunitensi all’elicottero di ricerca e salvataggio russo inviato a salvare i piloti abbattuti. Un pilota russo e un marine furono stati uccisi in ciò che costituiva la violazione turca delle Convenzioni di Ginevra sulla guerra. Erdogan e il suo governo sono i veri terroristi e Stato jihadista, intenti a seguire sauditi e qatarioti nel sostenere il terrorismo di Stato.

venerdì 27 novembre 2015

IL DECRETO DI SALVATAGGIO DELLE BANCHE

La Commisione europea ha autorizzato l’operazione di salvataggio delle quattro banche italiane in crisi perche’ riducono “al minimo l’uso dei fondi pubblici e le distorsioni della concorrenza”. Il Governo ha deciso di varare un decreto legge che integra il quadro normativo affinche’ l’operazione potesse realizzarsi. Guido Carli era solito ripetere che i costi dei ritardi nel prendere decisioni superano di molto quelli del danno da riparare. Nel caso specifico, parte di questi ritardi nascono dall’incontro di due confusioni, la normative italiana per la risoluzione delle crisi e il trattamento previsto dalla nuova direttiva europea, che il Commissario europeo Hill ha promesso di cambiare. In proposito gli avevo indirizzato una lettera aperta da queste stesse colonne ed egli mi ha fatto contattare dalla sua segreteria chiedendomi chiarimenti; in precedenza il Presidente della BCE Draghi mi fece dare precisazioni sul suo operato a seguito dei miei commenti. Sottolineo questi fatti perche’ da noi i titolari dei poteri non si sognano minimamente di accettare un dialogo anche su fatti molto importanti. Essi sanno cio’ che devono fare perche’, come suol dirsi, sono nati preparati.
La mia reazione alla notizia che la direttiva sarebbe stata emendata era dovuta alla troppa prossimita’ dell’annuncio rispetto al varo della decisione in materia e alla lunga discussione che l’aveva preceduta; ho quindi chiesto di conoscere chi, a Bruxelles come a Roma, era responsabile d’averla varata in modo cosi’ superficiale. Non credo ricevero’ risposta. Senza questi accertamenti la politica non migliorera’ mai, perche’ resta in mano di chi ha fatto scelte sbagliate, che inevitabilmente operera’ per difenderle, integrandole “d’urgenza”. Ovviamente non dispongo dei documenti richiestimi, non avendo l’abitudine di collezionare dossier, ma ho ben presente i contenuti delle obiezioni che ho sempre rivolto alla direttiva quando era ancora in fieri.
A suo tempo ho cercato inutilmente di convincere Tesoro e Banca d’Italia che il meccanismo non poteva funzionare, ne’ quello allora vigente, ne’ quello che andava delineandosi a Bruxelles. Le banche sono caricate di un peso potenzialmente imprevedibile; per quelle quotate in borsa, il fatto e’ ancora piu’ grave, perche’ non possono stabilire i fondi riserva da porre in bilancio. Potrebbero esserci gli estremi del falso in bilancio. Questo problema e’ stato avanzato da banche estere operanti in Italia ed e’ tuttora privo di risposta. Le mie obiezioni sull’attuale regime di protezione dei depositi riguardano: 1. la definizione di deposito garantito, avendo riscontrato abusi; 2. l’entita’ e le forme di copertura del rischio garantito; 3. l’esclusione del Fondo in sede di accertamento delle perdite, compito assegnato al commissario straordinario di nomina Banca d’Italia (non mi si vengano a dire che lo fa’ il Tesoro, solo perche’ firma); 4. la decisione della soluzione delle crisi e’ in mano alla Banca d’Italia; 5. i modi di costituzione delle riserve finanziarie per gli interventi e, soprattutto, quelli di loro ricostituzione dopo l’uso, un vero pozzo senza fine (il problema e’ ignorato anche nel decreto legge varato ieri l’altro). Il meccanismo e’ oggi caratterizzato dalla dissociazione tra chi esercita il potere decisionale e chi sopporta la responsabilita’ finanziaria, incoerente con la logica dei contratti nel Codice Civile.
Il caso dell’intervento del Fondo tutela depositi nella banca Tercas presenta molti aspetti della problematica indicata. La proposta che il Commissario della banca in amministrazione straordinaria aveva inoltrato al Fondo priva di documentazione, consenziente la Vigilanza Banca d’Italia, era stata considerata irricevibile; questo giudizio e’ stato messo per iscritto, cosa che, per pavidita’, in Italia non si fa mai, anche quando il problema e’ di vitale importanza per il buon funzionamento delle istituzioni. Quello era il momento di farlo. L’ABI, che oggi mostra preoccupazione per gli effetti della direttiva europea approvata “di corsa” dal Parlamento, ha le sue responsabilita’ per non essere stata capace di tenere a freno funzionari delle grandi banche inadeguati a valutare gli interessi generali del sistema bancario, distratti da piccoli particolari gestionali o mossi da interessi personali di vario tipo.
L’intervento deciso dalla Banca d’Italia con la collaborazione del Fondo, congiuntamente con le altre tre banche in scrisi, e’ stato inizialmente sommerso da una serie esagerata di obiezioni della Commissione, ora rientrate ma, scripta manent; tra esse ve ne sono alcune di quelle da me sollevate, meno una: che la Banca d’Italia, in qualita’ di organo vigilante della banche e di co-decisore delle politiche monetarie non puo’ esercitare la funzione di organo per la soluzione delle crisi, perche’ queste possono essere il risultato congiunto di errori nell’espletamento di questa sua duplice funzione. Ovviamente deve essere presente come organo consultivo nel corso della procedura, perche’ dotato delle conoscenze necessarie. Se guida il gioco, come da noi e’ possibile e come la direttiva europea consente sorvolando sul grave problema del conflitto di interessi, deve metterci del suo o farsi dare dal Governo una quota delle perdite bancarie per ragioni di giustizia distributive e per salvaguardare la stabilita’ del sistema bancario, come accadeva in passato con la direttiva Ventriglia, che ha ben operato nella precedente grave crisi. In breve chi sbaglia paga e a farlo non debbono essere chiamati solo gli azionisti e gli obbligazionisti, ma tutti quelli che hanno concorso all’evento. La soluzione per un’equa ripartizione e’ quella degli Stati Uniti, ossia un Fondo tutela depositi su basi assicurative e premio stabilito sul rischio statisticamente calcolato; quando le perdite mettono in crisi il Fondo, segno che esse sono generate da cause straordinarie, deve intervenire lo Stato. In questo modo si supererebbe l’obiezione che il Sistema attuale e’ su basi mutualistiche proporzionali; non c’e’ cosa in Italia che non trascini il problema della solidarieta’ sociale, di qualsiasi cosa si parli, dalla spazzatura alle banche.
E’ pur vero che lo stesso rifiuto “in via preliminare” della Commissione di dare l’autorizzazione all’intervento era tutto centrato sul tema annoso degli aiuti di Stato, al quale si fa cenno nell’autorizzazione successiva e, quindi, la mia soluzione di copartecipazione alle perdite bancarie da parte delle autorita’ incapperebbe in queste obiezioni. Appunto percio’ e’ necessaria una revisione della direttiva superficialmente varata e altrettanto superficialmente approvata dall’Italia per dare giusta collocazione alle responsabilita’ delle crisi. Nessuno forse ricorda che la prima stesura della direttiva precisava che lo scopo era quello di impedire che le crisi bancarie sistemiche (un’esagerazione che riuscimmo a far rientrare) si riversassero sui bilanci pubblici, e non fosse invece quello di proteggere i risparmiatori “sprovveduti”, ovviamente di informazioni, individuati pragmaticamente nei possessori di un deposito pari a un massimo di 100 mila euro; questo concetto si e’ perduto per strada, ma deve restare il punto centrale del Sistema di garanzia dei depositi, mentre oggi non lo e’ piu’. Anzi e’ stato introdotto il principio che gli “sprovveduti” – che ora lo divengono anche piu’ – possano essere chiamati a concorrere per coprire le perdite di una banca, qualora le altre passivita’ non fossero sufficienti; questa soluzione e’ stata presa senza aver prima garantito un’informazione adeguata per toglierli dalla …. sprovvedutezza. Chi dovrebbe provvedere se non la Banca d’Italia a informare il depositante, soprattutto se volesse chiamarsi fuori dalle responsabilita’? La decisione equivale a porre una potenziale tassa sui depositanti che essi non sono in condizione di conoscere a priori e, per la sola esistenza della possibilita’ di essere chiamati a versarla, viene violato il principio fondante della democrazia che non puo’ esservi imposizione fiscale se chi la subisce non partecipa alla decisione. Il Parlamento e il Presidente della Repubblica hanno valutato questo aspetto?
Considero inutile che mi cimenti nella presentazione di un progetto sensato che corregga quanto fatto, perche’ in Italia interessa solo se un’idea proviene da chi ha potere politico ed economico per imporla, vivendo in un periodo in cui tutte le vacche sono nere (e si procede per tamponamenti). Ovviamente per cortesia faro’ avere al Commissario Hill le mie riflessioni, essendo il minimo che possa fare per la cortese attenzione mostrata ai miei richiami, e scusera’ se avanzo in pubblico queste considerazioni, in quanto mosso da un dovere sociale che nessuno adempie.

giovedì 26 novembre 2015

L’Occidente è disposto a morire per il Califfo di Ankara?

«C’è rischio di uno scontro con i russi. Ma certi ambiti bellicisti non lo temono. Anzi, nella loro follia sembrano cercarlo». Era un cenno contenuto in una Postilla scritta ieri per descrivere quel che sta accadendo attorno a questa strana guerra siriana, dove la campagna militare russa contro l’Isis suscita reazioni in Occidente, che pure, soprattutto dopo le stragi di Parigi e il terrore che sta dilagando in Europa, dovrebbe essere un naturale alleato.
L’abbattimento di un bombardiere russo da parte della Turchia dà un significato più sinistro a quanto accennato ieri. Non era mai successo durante la Guerra Fredda che un areo militare russo fosse preso di mira da un Paese Nato, né è mai successo l’inverso. Particolare che dà la misura della criminale follia di quanto sta avvenendo.
Già aperto propugnatore del regime-change in Siria, Recep Tayyp Erdogan ha lanciato contro il Paese vicino decine di migliaia di miliziani jihadisti, sostenendo in vari modi il conflitto che ha insanguinato il Paese. Ma quanto accaduto oggi è un salto di qualità inquietante. Ankara giustifica l’abbattimento spiegando che il jet russo aveva varcato i suoi confini, ma la Russia nega.
Tanti particolari sembrano smentire la versione turca, anzitutto il fatto che i piloti, paracadutatisi fuori, siano finiti tra le braccia dei miliziani siriani. Un video diffuso in rete immortala alcuni di questi assassini che sparano contro uno dei piloti mentre, inerme, plana verso terra. Un tiro al piccione al grido “Allah Akbar”. Lo stesso grido disumano risuonato per le vie di Parigi durante la mattanza… particolare sul quale riflettere.
Il fatto che i piloti siano caduti in Siria evidenzia che, se pure sconfinamento c’è stato, è stato irrisorio, a meno di immaginare un paracadute che viaggi per chilometri sulle ali del vento. Insomma la strumentalità dell’intercettamento appare in tutta la sua chiarezza.
Anche perché, al di là delle controversie sul punto, il fatto che il jet abbia o meno varcato i confini turchi è in realtà un particolare secondario. Ankara sapeva benissimo cosa faceva quell’aereo in zona: stava compiendo un’operazione contro i miliziani jihadisti. Non costituiva affatto una minaccia per la sua integrità territoriale.
Tra l’altro, la coalizione anti-Isis guidata dagli Usa, della quale Ankara fa parte, aveva siglato con la Russia un accordo che prevedeva un coordinamento operativo per evitare incidenti del genere. Insomma, le giustificazioni prodotte dalle autorità turche risultano invero poco credibili.
Ovviamente la reazione di Putin è stata durissima, né si poteva immaginare diversamente. Una reazione che sembra sia stata cercata da Ankara, tanto che, subito dopo aver scritto una pagina di cronaca nera, la Turchia ha chiesto la riunione di un vertice Nato. Al di là delle motivazioni ufficiali (spiegazioni sull’abbattimento), in quella sede cercherà di trovare la solidarietà degli alleati. Una forzatura che darà comunque dei risultati, dal momento che appare difficile che l’Alleanza possa sconfessare apertamente uno dei sui membri.
«Invece di contattarci immediatamente – ha detto Putin -, la parte turca si è rivolta ai suoi partner nella Nato per discutere dell’incidente, come se fossimo stati noi ad aver abbattuto il loro aereo». Difficile dar torto al presidente russo, che di fatto giudica tale iniziativa come un ulteriore atto ostile.
Non è il primo attrito tra Russia e Turchia in Siria. Già in precedenza aerei turchi e russi avevano dato vita duelli a distanza risolti senza scontri.

mercoledì 25 novembre 2015

L’Italia in guerra ma non troppo

Pochi giorni fa, in un clima profondamente scosso dai terribili fatti di Parigi, è saltato fuori un dato rilevante nel campo delle politiche economiche italiane. Il Governo Renzi ha finalmente fatto chiarezza sulla questione F-35, confermando lo stanziamento di circa 13 miliardi di euro per l’acquisto di 90 cacciabombardieri. A nulla sono valse dunque le numerose richieste della cittadinanza e del Parlamento (suo rappresentante) di ridurre le spese militari modificando, in questo senso, lo stesso programma. A rendere noto tale dato è stata infatti Rete Italiana per il Disarmo che ha trovato la riposta nell’attenta analisi delle settecento pagine dello ‘Stato di previsione del Ministero della difesa per l’anno finanziario 2016 e per il triennio 2016-2018’ ed in particolare nella tabella 11 dello stesso documento.
‘LA QUESTIONE DEGLI F-35’ Tralasciando per un attimo l’aspetto etico che sta alla base delle lotte portate avanti da diverse associazioni sull’acquisto degli F-35 e gli aspetti programmatici che lo riguardano, secondo Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo, “il problema non è tanto che il Governo voglia comprare gli F-35, cui è legittimato a farlo anche se noi critichiamo ciò, ma è il fatto che dopo tutte le nostre campagne, le mobilitazioni territoriali, le manifestazioni della gente che non vuole questi aerei e le votazioni nel settembre 2014 delle mozioni che chiedevano i dimezzamenti finanziari, adesso tutto è sparito e nulla sembra essere cambiato”. Un fatto che sottrae, dunque, al Parlamento quel controllo istituzionale che è sinonimo di partecipazione e democrazia.
“C’è il tentativo, da tempo, di rendere opache molte delle informazioni che sarebbero necessarie sugli F-35 ed è per questo che, da tempo, chiediamo un incontro al Ministro della Difesa affinché vengano pubblicate tutte quelle informazioni che invece gli Stati Uniti pubblicano quando si tratta di questi acquisti”, spiega Vignarca a L’Intellettuale Dissidente. Sono tanti gli episodi, come gli ultimi eventi terroristici e non solo, che “vengono spesso sfruttati dalla Difesa per cercare di abbassare i tagli sia sugli F-35 che sul bilancio. Un meccanismo giustificatorio che fa breccia, purtroppo, sulla scarsa informazione dell’opinione pubblica. Va bene che c’è il terrorismo e dobbiamo combatterlo, ma noi a chi vendiamo le armi in Medio Oriente?”.
‘GUERRA NELLO YEMEN E BOMBE ITALIANE’ Il viaggio di Matteo Renzi in Arabia Saudita degli scorsi giorni, apre ampie riflessioni sia sull’aspetto dei diritti umani e delle loro violazioni in questo Paese, sia sul tema di quelle politiche economiche che di certo non vanno nella direzione di ripudiare sanguinosi conflitti come quello che si sta consumando tristemente nello Yemen. Due questioni certamente differenti e che, per questo, meritano differente trattazione. Soffermandoci sul secondo aspetto, non possiamo non riconoscere una partecipazione ‘implicita’ del nostro Paese in un conflitto che ha causato fino ad oggi migliaia di vittime e feriti, oltre che numerosi sfollati. Sono numerose infatti le bombe inesplose ritrovate in diverse città dello Yemen: bombe come la MK84 e la Blu109 direttamente prodotte dall’azienda tedesca RWM Italia di Domusnovas ed imbarcate (come nell’ultimo caso) dall’aeroporto civile di Cagliari Elmas.
“L’ultima fornitura italiana va addirittura a violare la legge perché non è più un discorso di prevenzione dato che sappiamo bene che l’Arabia Saudita sta bombardando lo Yemen”, ribadisce Francesco Vignarca, “e lo sta facendo senza nessun tipo di copertura internazionale. Sembra patetico parlare di prevenzione al terrorismo ed Isis quando poi sappiamo che quegli stessi Paesi che noi consideriamo alleati o a cui forniamo delle armi, spesso e volentieri ospitano nelle loro pance dei finanziatori dello Stato Islamico”.
Nonostante ciò, e nonostante sia palese che i sauditi bombardano da mesi lo Yemen, le condanne del segretario dell’Onu Ban Ki-moon e quella del Consiglio europeo non sono bastate al Ministro della Difesa Pinotti per fermare quelle che invece lei stessa ha definito ‘operazioni legali’. Secondo Roberta Pinotti, quella sul rifornimento di bombe italiane all’Arabia Saudita è una polemica quasi sterile dato che bombardare numerosi civili yemeniti sembra essere, anch’essa, un’azione regolare e rientrante nel principio che sta alla base dell’art. 11 della nostra Costituzione, quando si dice che l’Italia ripudia la guerra (ma non chi la fa).
‘A COSA SERVE LA LEGGE 185/1990?’ Perché si critica tanto il rifornimento italiano di bombe in Paesi come l’Arabia Saudita? Esiste una legge ben precisa in Italia in tema di esportazione di armi all’estero: la legge 185 del 1990. Una legge che vieta al nostro Paese di esportare armi belliche verso quei Paesi in conflitto, sottoposti a embargo o in cui vengono minacciati i diritti umani. Paesi che si pongono quindi in contrasto “con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo” e quando siano scarse le garanzie “sulla definitiva destinazioni dei materiali”. Una legge che ha lo scopo di ottenere trasparenze sull’export di armi laddove, come accaduto durante il periodo fascista, si tende a nascondere queste operazioni alla società civile. Eppure a quei tempi, sbagliato o giusto che sia, almeno il popolo sapeva di andare in guerra. Oggi pur sapendolo, la nostra consapevolezza e le nostra indignazione non bastano nemmeno a mettere in discussione le chiare intenzioni di chi continua a decidere per noi, figuriamoci a fermarle. Alla faccia della democrazia.

martedì 24 novembre 2015

Le bombe che dall’Italia vanno in Arabia Saudita

Il primo a far circolare le immagini è stato il deputato sardo Mauro Pili. Ha documentato il viaggio delle bombe che, uscite dalla fabbrica di Domusnovas, vengono caricate su navi e aerei alla volta dei paesi arabi, molto probabilmente l’Arabia Saudita, per essere poi utilizzate, là, nei bombardamenti.
Ipocrisia; tremenda, tragica ipocrisia. È la prima parola che viene alla mente seguendo quanto è accaduto e continua ad accadere. «Il carico era di mille bombe. Secretato, nascosto. Un’operazione che avevano deciso di nascondere. Abbiamo intercettato i camion carichi di bombe appena usciti dalla fabbrica tedesca di Domusnovas. Hanno attraversato la Sardegna sino ad arrivare ad Olbia. E poi la partenza per l’Arabia Saudita, forse un nuovo volo. Hanno voluto evitare di mostrare il nuovo carico di morte e hanno scelto di fare il trasbordo altrove». Sono le parole che il deputato sardo di Unidos, Mauro Poli, consegna al suo profilo Facebook e poi ai media che lo interpellano. Ha pubblicato immagini e video, prove di fronte alle quali il governo non può che tacere o borbottare giustificazioni imbarazzanti. «Tutto secondo la legge» ha detto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. «Si tratta di una fabbrica tedesca che produce in Italia – ha dichiarato– La produzione può essere svolta e l’esportazione può essere fatta. Per quanto riguarda le autorizzazioni è tutto regolare, altrimenti non partirebbero in visibilità come fanno». Che bella maschera anche stavolta la legge, un velo di ipocrisia formale dietro cui nascondersi. Fa comodo, anche perchè c’è quando serve e può calpestata (da pochi eletti) quando non serve più.
Dietro la legge che santifica il commercio di armi, ci sono le «micidiali bombe Mk83 prodotte dallo stabilimento tedesco a Domusnovas” ha spiegato Pili. «Quelle stesse bombe - dice Pili - hanno già provocato la morte di oltre 400 bambini nello Yemen dove l'Arabia Saudita sta conducendo un vero e proprio attacco distruttivo che sta devastando le popolazioni civili. Tutto questo traffico di morte dalla Sardegna sta avvenendo con l'avallo del governo italiano. A tutto questo si aggiunge che questo acquisto, condannato personalmente dal numero uno dell'Onu, è stato avallato dal governo americano che ha dato il suo via libera al rifornimento di armi all'Arabia Saudita. Il 16 novembre scorso a Washington il Dipartimento di Stato ha adottato una decisione che approva la vendita al governo dell'Arabia Saudita di munizioni aria-terra ed equipaggiamento associato, parti e supporto logistico per un costo stimato di un miliardo e 290 milioni di dollari. A pochi giorni dal visto americano - ha concluso - è stato dato il via libera all'operazione di trasbordo di 2000 bombe Mk83 dalla Sardegna».

lunedì 23 novembre 2015

La CIA, le torture e il rapporto segreto

A quasi un anno dalla diffusione della sintesi del rapporto del Senato americano sugli interrogatori di presunti terroristi con metodi di tortura da parte della CIA, lo scontro interno al governo di Washington per impedirne la pubblicazione integrale ed evitare conseguenze legali o politiche ai responsabili continua a rimanere molto acceso nonostante lo scarso interesse della stampa ufficiale.
Ai primi di dicembre del 2014, era giunta a termine una lunga contesa che aveva ritardato di quasi due anni la pubblicazione di quella che rappresenta solo una piccola parte di uno studio di 6.700 pagine. Nelle 525 pagine declassificate vi erano comunque descritti numerosi crimini commessi dalla principale agenzia di intelligence USA, tra cui il ricorso alle più sadiche forme di tortura e alla menzogna per occultare queste ultime e far credere all’efficacia degli interrogatori “avanzati” per ottenere preziose informazioni dai detenuti.
Le gravissime accuse contenute nel rapporto stilato dalla commissione per i Servizi Segreti del Senato di Washington - ai tempi della compilazione a maggioranza democratica - non ha prevedibilmente innescato alcun processo, né tantomeno alcuna incriminazione, a carico di coloro che hanno commesso i fatti descritti e di quanti hanno autorizzato le torture o hanno contribuito al tentativo di insabbiamento.
Anzi, certi dell’impunità, potenziali criminali di guerra come l’attuale direttore della CIA, nonché ex primo consigliere per l’Antiterrorismo di Obama, John Brennan, sono più volte intervenuti pubblicamente non solo per difendersi ma anche per attaccare il rapporto stesso e i suoi compilatori, esaltando al contempo “i tremendi sacrifici e i servizi resi da vari membri dell’agenzia per la sicurezza del paese”.
La stessa Casa Bianca ha fatto di tutto per mettere in pratica il proposito del presidente Obama di “guardare avanti” senza indagare troppo sul passato sporco della “guerra al terrore”, contribuendo di fatto a far sparire completamente dal dibattito pubblico la questione delle torture della CIA.
L’eventuale incriminazione dei responabili e dei mandanti politici dei crimini commessi contro i sospettati di terrorismo fisserebbe d’altra parte un precedente spiacevole per gli esponenti di spicco dell’amministrazione Obama, tra cui lo stesso presidente, i quali hanno abolito formalmente l’autorizzazione a torturare per sostituirla con gli assassini mirati, ugualmente o ancor più in violazione del diritto internazionale e della Costituzione americana.
La pubblicazione del rapporto completo sulle torture rappresenterebbe in questo senso una grave preoccupazione per quanti erano coinvolti nel programma di interrogatori della CIA, visto che nelle 6.700 pagine potrebbero essere citati con precisione nomi, luoghi e responsabilità di quanto accaduto dopo l’11 settembre 2001.
Per comprendere l’approccio dell’amministrazione Obama alla questione delle torture e il grado di trasparenza che la contraddistingue, risulta estremamente interessante ricostruire almeno in maniera sommaria la sorte del rapporto dopo la pubblicazione del riassunto nel dicembre dello scorso anno.
Secondo un recente articolo del New York Times, poco dopo la pubblicazione, la commissione del Senato che aveva redatto il rapporto, presieduta dalla senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, aveva debitamente inoltrato copia della versione integrale al Pentagono, alla CIA, al Dipartimento di Stato e al Dipartimento di Giusizia, assieme alla raccomandazione - solo apparentemente ironica - di leggerlo integralmente affinché i crimini descritti potessero servire da lezione per il futuro.
I supporti informatici che contengono il rapporto giacciono però tuttora intatti nelle casseforti dei ministeri e delle agenzie a cui sono stati inviati. Il Dipartimento di Stato, spiega il Times, al momento della ricezione ha ad esempio messo sotto chiave la propria copia con un timbro che recita: “Materiale del Congresso - Non Aprire, Non Leggere”.
Queste iniziative fanno parte di un’autentica farsa messa in piedi dall’amministrazione Obama per impedire la diffusione pubblica del rapporto stesso. Il testo integrale è infatti oggetto di dispute legali, con associazioni come la American Civil Liberties Union (ACLU) che ne hanno chiesto la pubblicazione secondo quanto previsto dalla legge sulla Libertà di Informazione (FOIA).
Quest’ultima legge si applica però soltanto ai documenti del governo, mentre quelli del Congresso possono rimanere segreti. Il Dipartimento di Giustizia e gli altri organi dell’esecutivo che hanno ricevuto copia del rapporto sulle torture hanno perciò deciso di non volerlo aprire né leggere, in quanto ritengono che così facendo il materiale in questione resterebbe di esclusiva pertinenza del Congresso e quindi non sottoposto all’obbligo di pubblicazione.
Nel mese di maggio, un tribunale federale di primo grado aveva deliberato in favore dell’amministrazione Obama ma un verdetto d’appello è atteso nel prossimo futuro. Nel frattempo, la senatrice Feinstein è stata al centro di un nuovo scontro tra i poteri dello stato negli USA, dopo che nel 2014 aveva tenuto un eccezionale discorso al Congresso per accusare la CIA di avere violato la Costituzione mettendo sotto sorveglianza i terminali dei membri della Commissione sui Servizi Segreti impegnati nella realizzazione del rapporto sulla stessa agenzia di Langley.
La Feinstein ha cioè indirizzato una lettera al ministro della Giustizia, Loretta Lynch, accusando il suo dipartimento di volere bloccare la diffusione del rapporto e, quindi, impedire che “gli errori del passato siano ripetuti”. Oltre al fatto che di errori non si tratta, bensì di politiche criminali deliberate, la senatrice democratica, nonostante i toni molto duri nei confronti del governo, ha peraltro mostrato più volte estrema docilità verso l’apparato della sicurezza nazionale USA.
Ciò è confermato, tra l’altro, dal fatto che, fino allo scorso anno, in qualità di presidente della Commissione sui Servizi Segreti, avrebbe potuto promuovere la pubblicazione unilaterale della versione integrale del rapporto senza attendere il via libera della CIA, ovvero dell’agenzia oggetto dell’indagine e responsabile dei crimini in essa descritti.
A tutt’oggi, le probabilità che il contenuto del rapporto possa essere portato a conoscenza del pubblico sono sembre più poche, anche perché il cambio di maggioranza al Senato nel mese di gennaio ha cambiato gli equilibri tra favorevoli e contrari alla pubblicazione.
Il successore di Dianne Feinstein alla guida della Commissione, il repubblicano del North Carolina, Richard Burr, si sta infatti impegnando per occultare del tutto il rapporto. Il senatore ha definito quest’ultimo una “nota a margine della storia” e ha già chiesto agli organi del governo che ne hanno ricevuto copia di restituirla alla Commissione, agevolando probabilmente il definitivo insabbiamento di uno dei documenti più rilevanti per l’assegnazione delle responsabilità nei crimini commessi dagli Stati Uniti nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.

domenica 22 novembre 2015

Auto, e se il "vizietto" ce l'avesse anche la Fiat? Il tribunale ammette una class action dei consumatori

Consumi auto falsati: la differenza fra valori dichiarati e valori misurati in laboratorio è notevole e superiore al 20%. La Corte d’Appello di Torino ha dichiarato ammissibile l’azione di classe presentata da Altroconsumo nei confronti di Fiat per consumi auto inferiori a quelli che risultavano dalle prove di laboratorio e dai test fatti dall’associazione sul modello Fiat Panda.
A distanza di un anno dal lancio dell’azione, la Corte d’Appello “ribalta la decisione del Tribunale e sancisce l’ammissibilità dell’azione di classe presentata da Altroconsumo – informa l’associazione – La Corte ha affermato che i metodi di prova utilizzati da Fiat e da Altroconsumo sono entrambi legittimi e che la differenza riscontrata (di oltre il 20%) è rilevante. Tali differenze non possono superare un determinato limite e sarà quindi necessario effettuare gli approfondimenti tecnici d’ufficio. Allo stato la class action di Altroconsumo non può ritenersi “manifestamente infondata” come ritenuto dal Tribunale”.
L’associazione aveva depositato gli atti di citazione in Tribunale lo scorso febbraio. Quello che si contesta è la dichiarazione di consumi inferiori per la Panda. Per Altroconsumo, infatti, il parametro dei consumi dichiarati è tra gli elementi decisivi per scegliere un’auto invece che un’altra. Dunque il consumatore che compra un’auto pubblicizzata con determinate caratteristiche, di cui invece ne è priva, subisce un danno patrimoniale ingiusto, per i maggiori costi di gestione. I test commissionati da Altroconsumo sono stati realizzati nel 2014 e hanno avuto questo esito: per la Panda con motorizzazione 1.2 benzina, 51 KW, stando alla carta di circolazione e alla comunicazione pubblicitaria della Fiat, l’auto avrebbe consumi pari in media a 5,2 litri per ogni 100 km; i consumi più bassi (riscontrati con le condizioni di consumo più basse) rilevati nel corso delle prove in laboratorio sono invece pari in media a 6,11 litri ogni 100 km con una differenza nettamente superiore al coefficiente massimo di variazione (pari al 7%) rilevabile attraverso l’applicazione flessibile dei parametri previsti dalla legge.
Poiché l’auto consuma di più si è speso di più per il carburante. Il risarcimento richiesto è di oltre 200 euro. Spiega Altroconsumo: “Il danno ingiusto subito dai consumatori è causato dall’assenza nell’auto acquistata delle caratteristiche di consumo pubblicizzate che si è tradotto in maggiori spese per il carburante. Ipotizzando una percorrenza annua di 15.000 km, il risarcimento richiesto è di 239 euro. Un’importante vittoria per i consumatori che ora possono attendersi con maggiore fiducia una positiva espressione da parte del Tribunale di Venezia anche sulla class action contro Volkswagen”.

sabato 21 novembre 2015

Chi ha voluto lo Stato Islamico? Chi lo protegge? A chi fa ancora comodo?

Questo show di barbarie e di violenza, voluto appositamente dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi, segna la fine di una fase in cui molti dicevano che l’insorgenza dello Stato Islamico era un male necessario per sconfiggere l’esercito del presidente siriano, Bashar al-Assad ed anche per porre un freno nella regione all’espansionismo dell’Iran. Una tesi molto in voga, soprattutto in Israele giacché la graduale distruzione del regime siriano, la balcanizzazione dell’Iraq con la creazione di uno stato curdo, un altro sunnita e uno sciita, il dissanguamento economico dell’Iran per sostenere Hamas, i ribelli youti in Yemen e l’Hezbollah impegnato sempre più sulle montagne del Golan siriano, erano la soluzione ideale per garantire la sicurezza delle frontiere di Israele. Oltre che a isolare, sempre più, lo storico nemico interno, cioè l’ANP palestinese e nuovi i gruppi della resistenza palestinese desiderosi di far scoppiare una terza Intifada.
Per questo motivo i principali servizi d’intelligenza dell’Occidente e del Medio Oriente - CIA (EUA), Mossad (Israel), DGSM (Francia), M65 (Inghilterra), AISE (Italia), BND (Germania) CNI (Spagna). MIT (Turchia), AMaA (Arabia Saudita) e SII (Qatar) - hanno fatto a gara per garantire all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi una rapida crescita e un’insospettabile affermazione militare. Basti pensare ai 1500 “foreign fighters” francesi che quando si sono arruolati nelle file dell’IS erano considerati dalla stampa francese “combattenti per la libertà”. I governi europei hanno fatto di tutto pur di far cadere il governo del presidente, Bashar al-Assad. Perché, quindi, non ricordare il contributo del governo italiano che - piuttosto di ascoltare le intercettazioni effettuate dai ROS - ha subito pagato una decina di milioni di euro agli intermediari del gruppo jihadista Jabal Al Nustra per il finto sequestro di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Uno pseudo-sequestro che la Magistratura o la Finanza non hanno mai investigato “a fondo”!

Dall’escalation terrorista all’organizzazione della guerra totale
In realtà in Siria e, quindi, anche in Iraq, i servizi segreti occidentali hanno ripetuto lo stesso errore commesso in Libia dalla CIA e che costò la vita all’ambasciatore americano, Christopher Stevens, semplicemente perché credeva di poter manipolare i gruppi politici sorti dopo la morte di Gheddafi, oltre a non dare importanza ai progetti geopolitici delle monarchie arabe, anche loro corse in Libia per occupare uno spazio geopolitico nella regione del Sahel, ricca di petrolio, gas, oro e soprattutto uranio.
Il Qatar e la Turchia sono i principali artefici del successo dell’IS e del suo immediato arricchimento, grazie anche alla complicità dei presidenti dei conglomerati finanziari, che hanno permesso alla Turchia di “comprare a prezzo di banana” il gas della Siria e il petrolio dell’Iraq che l’IS aveva requisito, dopo aver conquistato i principali pozzi di estrazione e le stazioni di pompaggio degli oleodotti e dei gasdotti. Un’operazione che messa a punto grazie alle informazioni ricevute dai servizi segreti occidentali oltre a denaro, armi e lettere di garanzia per poter comprare sofisticati mezzi di comunicazione, jeep e autovetture 4x4 giapponesi e sudcoreane, assieme ad una logistica necessaria per movimentare un esercito di 80.000 persone durante quattro anni.
E’ innegabile che lo Stato Islamico senza l’apporto dei servizi segreti occidentali e, soprattutto, senza i petrodollari del Qatar, non sarebbe mai nato e il millimetrico gruppo di attentatori guidato da Abu Bakr al-Baghdadi starebbe ancora facendo piccoli attentati e rapine nella periferia di Bagdad!

Chi vuole lo Stato Islamico?

Oggi, davanti alle migliaia di candele accese in Place de la Republique e dopo la durissima presa di posizione del presidente Hollande - grazie alla quale è riuscito a silenziare la retorica di Sarkozy e Marine Le Pen – nessun giornale francese ha voluto ricordare il controverso ruolo del Qatar. Cioè, quel paese arabo che realizza favolosi investimenti in Francia nei differenti settori industriali e nello stesso tempo finanzia i gruppi armati jihadisti della Siria, della Libia ed anche quelli del Maghreb (Ansar Dime, Aqmi e Mujao), gli stessi che hanno trasformato il nord del Mali in un inferno per le truppe francesi. Infatti, quando il primo-ministro del Qatar, Hamad bin Jassen, venne a Parigi per esprimere solidarietà e condannare la violenta sparatoria nella redazione di Charlie Hebdo, attaccata da due sostenitori dell’IS, il governo francese fece finta di niente per non mettere in pericolo il flusso d’investimenti che le banche di Doha hanno fatto nel settore aerospaziale francese, nell’edilizia, nel settore idrico, nell’agro-alimentare e soprattutto in quello energetico.
In realtà il problema è definire fino a che punto paesi come il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, sono pienamente responsabili delle azioni che Abu Bakr al-Baghdadi e il suo braccio destro, Abu Muhammad al-Aduani hanno realizzato fino ad oggi e se i responsabili dell’Intelligence di questi paesi hanno commesso lo stesso errore dei servizi occidentali, che pur di avere a disposizione una “Task Force Sunnita” per distruggere il regime siriano di Bashar al-Assad e bloccare le trattative del presidente iraniano, il moderato Hassan Rouhani, chiudono gli occhi davanti alle efferate barbarie dei combattenti dell’IS.
Se gli Stati Uniti e la stessa Francia sbarazzarsi di Bashar al-Assad, appoggiando la Coalizione Nazionale Siriana e l’Esercito Libero Siriano, prima di tutto non avrebbero permesso che il governo della Turchia legittimasse un’azione di pirateria internazionale comprando il gas e il petrolio che l’IS rubava alla Siria e all’Iraq. In secondo luogo non avrebbero permesso che la società turca che gestisce i terminali petroliferi del porto di Ceyhan accettasse i documenti falsi emessi in Doha per esportare il petrolio di Kirkut da quei terminali e, quindi, ripassare il pagamento all’IS attraverso le banche della capitale del Qatar, Doha. Ugualmente la Casa Bianca, con pochissime telefonate, avrebbe potuto bloccare l’esportazione d’ingenti i rifornimenti logistici, jeep e mezzi di comunicazione che le industrie europee e quelle asiatiche hanno poi venduto agli intermediari turchi o catariani dell’IS, grazie alla copertura delle banche del Qatar e della Turchia. Le stesse che amministravano e movimentavano i miliardi di dollari che rappresentanti delle monarchie dei paesi del Golfo avevano donato all’IS.
Tutti ricordano la storica decisione degli USA e dei paesi della NATO di bloccare i conti correnti dell’Iraq per punire la decisione di Saddam Hussein nell’occupare il Kuwait. Ebbene un’uguale decisione che poteva essere presa subito dopo le drammatiche decapitazioni eseguite dal boia dell’IS, Jihad John, cui fecero seguito i primi attentati nelle città europee e gli attacchi, dal 3 gennaio del 2014, agli altri gruppi dell’insorgenza siriana. L’assurdo di questa situazione è che la CIA non fece assolutamente nulla, pur sapendo che l’IS stava divenendo sempre più incontrollabile e che la pratica della violenza fisica e mediatica aveva smobilitato il principale alleato degli USA in Siria, cioè l’Esercito Libero Siriano.
D’altra parte bisognerebbe denunciare il silenzio dei servizi segreti, grazie al quale lo Stato Islamico ha potuto comprare nel mercato clandestino di armi ingenti quantità di munizioni e armi pesanti, eseguendo i pagamenti “cash” attraverso le banche di Doha, nel Qatar. Un silenzio che ha permesso il viaggio dei containers pieni di armi e munizioni fino ai porti di Bengaze o di Misurata in Libia, per poi essere trasferiti a sua volta con i C-130 di fantomatiche società aeree arabe negli aeroporti vicino alla frontiera con la Siria. Aerodromi che il MIT (servizio segreto militare turco) aveva adibito appositamente per le operazioni di scarico e immediato trasporto con camion in direzione dei territori della Siria controllati dell’IS.
Operazioni complesse, che hanno bisogno di una struttura specifica e professionale, giacché non si tratta di poche cassette di munizioni e qualche centinaio di fucili, ma di centinaia di containers e di autovetture che devono essere distribuite con una certa velocità nei differenti punti della Siria. Condizioni minime per permettere ai combattenti dell’IS di realizzare una guerra di movimento e di sfuggire all’intercettazione dei caccia siriani.
Se la Casa Bianca, nel 2000, mosse la CIA per evitare che Vladomiro Montesinos, il consigliere per la sicurezza dell'ex presidente peruviano Alberto Fujimori, vendesse alle FARC colombiane quattro retrogradi lanciamissili di origine russa, armati con dodici missili anti-aerei di prima generazione, e per questo montò un’operazione spettacolare che provocò l’arresto dello stesso presidente Fujmori, è impensabile ammettere che le “eccellenze” della Casa Bianca, del Pentagono e della CIA non si siano accorti che lo Stato Islamico, in termini organizzativi era pronto a passare dal terrorismo alla guerra totale. Cioè a disputare con i propri alleati occidentali il futuro geopolitico dei territori in disputa e cioè la Siria e il centro dell’Iraq.

Il ruolo della Russia e dell’Iran

Non è una semplice casualità, ma prima del triplice attacco a Parigi, furono realizzati dagli uomini dello Stato Islamico tre micidiali attentati: nella capitale del Libano, Beirut, nei cieli del Sinai e nella citta curda di Suruc in Turchia, per dare un terribile avviso all’Hezbollah libanese, al governo russo e ai curdi turchi, siriani e iracheni. Attentati che, per la prima volta non hanno ottenuto il risultato sperato, cioè la paura e la rassegnazione. Infatti, l’Hezbollah, nonostante i quaranta morti sventrati dall’esplosione del “bomb-men” di Beirut, ha intensificato gli attacchi nella regione di Aleppo, permettendo in questo modo all’esercito siriano di restringere sempre più i cerchi che attanagliano i differenti quartieri della periferia di quella città.
Anche la Russia di Putin non si è fatta intimidire dall’attentato all’Airbus russo. Anzi, ne ha approfittato per ufficializzare la sua presenza militare in Siria, realizzando un numero maggior di bombardamenti contro le istallazioni dell’IS, ma anche degli altri gruppi armati che si oppongono a Bashar al-Assad. Una decisione che ha obbligato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama a negoziare con Putin non solo il processo di transizione, ma una definitiva offensiva contro le posizioni dell’IS oltre a smascherare i suoi finanziatori.
In questo modo la Russia si è guadagnata il ritorno nel top della comunità internazionale, cioè il G-20, riuscendo, anche, a conservare la linea operativa del suo intervento militare, che è abbastanza differente da quello statunitense o dal francese, poiché i primi attaccano obiettivi strategici segnalati dall’intelligenza. Invece i Sukhoi-30 russi prima ricercano i distaccamenti nemici per poi attaccarli fino a provocare la dissoluzione delle posizioni in precedenza occupate.
Gli analisti sono convinti che se saranno congelati i conti dell’IS nelle banche del Qatar e di altri paesi arabi e se non ci saranno interruzioni nelle missioni di bombardamento da parte del contingente aereo dei paesi della NATO e quello della Russia, è possibile che nei prossimi sei mesi le truppe dell’IS sopravvissute ai bombardamenti in Siria, cercheranno di resistere nella regione centrale, notoriamente sunnita, per poi proporre la formazione di tre stati iracheni. Quello curdo a nord, lo scita a sud e centro sud e il sunnita nel centro e centro-est.
Un progetto che potrebbe soddisfare i paesi occidentali e Israele ma che, però, l’Iran rigetta di sana pianta. Infatti, il governo di Teheran ha fatta sapere al Califfo che non permetterà la balcanizzazione dell’Iraq e che scatenerà un’offensiva terrestre mastodontica, ripetendo quello che l’Iran di Komeiny fece ai tempi di Saddam, se i contingenti dello Stato Islamico s’installano nel centro est iracheno vicino alle frontiere iraniane o se un qualsiasi gruppo dell’IS risolve profanare le città sante sciite di Karbala e Najaf.
Nonostante le dichiarazioni soddisfatte e positive di Putin è difficile ammettere che tra sette o otto mesi il conflitto siriano sarà concluso. Troppi interessi ci sono ancora in gioco. Per esempio, la Turchia e tutti gli altri paesi arabi sunniti, non hanno interesse che l’Iran risulti tra i vincitori della battaglia contro l’IS. Anche perché con l’accordo contrassegnato dagli USA sulla costruzione di centrali nucleari civili e, quindi, con la fine delle sanzioni economiche, l’Iran potrà esportare tutto il petrolio e il gas che vuole e quindi trasformare l’industria iraniana nel principale polo industriale del Medio Oriente, oltre a modernizzare l’armamento del suo esercito che è il più poderoso nella regione, calcolato in 540.000 effettivi, 300.000 riservisti, oltre ai 120.000 Pasdaran (Guardie della Rivoluzione) e agli 800.000 volontari Basji, (corpi paramilitari). Una macchina da guerra in permanente stato di allerta per la quale il governo iraniano ha investito 12.000 miliardi di dollari, quasi il 3% del PIL dell’Iran.

venerdì 20 novembre 2015

Fonti USA lo confermano: l'Isis è una creazione statunitense

Sabato, il giorno dopo la strage in Francia che ha trasformato le strade di Parigi in una zona di guerra e ha lasciato circa 130 civili morti, il presidente siriano Bashar al-Assad aveva un messaggio per l'Occidente.
Mentre condannava gli attacchi e definiva gli autori dei "selvaggi", ha subito fatto notare che la Siria ha a che fare con questo marchio del terrorismo da quasi cinque anni di fila. Assad ha anche detto quanto segue: "Abbiamo detto di non prendere ciò che sta accadendo in Siria con leggerezza. Purtroppo, i funzionari europei non ci hanno ascoltato. "
Assad ha anche colto l'occasione, ancora una volta, per chiarire come la sponsorizzazione dell'Occidente delle potenze regionali che sostengono (esplicitamente o implicitamente) l'estremismo sunnita in Siria sia la causa principale del problema, anche se il linguaggio che ha usato è stato un pò meno duro di quella che aveva impiegato nel mese di settembre. Ecco cosa ha detto: "La domanda che la Francia si pone oggi é: la politica della Francia negli ultimi cinque anni era quella giusta? La risposta è no."
Presumibilmente, Assad faceva riferimento al sostegno dell'Occidente per i vari gruppi militanti che cercano di spodestare il suo governo. Questi gruppi, tra cui l'ISIS, hanno ricevuto denaro, armi, e formazione dalla CIA, dalla Turchia, dall'Arabia Saudita e dal Qatar. La situazione sul terreno è, naturalmente, molto fluida ed è quasi impossibile tenere traccia di dove le armi, il denaro e i combattenti finiscono, il che significa che anche per quegli osservatori che evitano le teorie del complotto sarebbe difficile sostenere che gli Stati Uniti non hanno, almeno indirettamente, armato e addestrato l'ISIS.
Forse il passaggio più trascurato in tutti i documenti trapelati che sono emersi fino ad ora è il seguente, tratto da un rapporto declassificato del Pentagono datato agosto 2012 e ottenuto da Judicial Watch:
... Vi è la possibilità di stabilire un dichiarato o non dichiarato salafita Principato in Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che i poteri di sostegno all'opposizione vogliono, al fine di isolare il governo siriano, che è considerato l'avamposto dell'espansione sciita (Iraq e Iran). "
Questo è tutto.
Questa è la pistola fumante e nessuno sembra preoccuparsi.
Il suddetto passaggio chiaramente evidenzia che gli Stati Uniti sapevano ciò che stava per succedere e con il sostegno al'opposizione non solo volevano "isolare" Assad, ma anche rompere la mezzaluna sciita di Teheran.
Questo è un passaggio estremamente critico, che è stato abitualmente trascurato, e ironia della sorte, tragedie come quella che si è verificata a Parigi servono solo a galvanizzare l'opinione pubblica intorno a un ideale piuttosto che intorno alla ricerca di risposte. Il che è estremamente pericoloso.
In tale contesto e (soprattutto) con la spinta del presidente Francois Hollande per modificare la Costituzione francese, di seguito l'intervista del giornalista Gearóid O'Colmain che nel giro di dieci minuti smonta l'intera narrativa dell'Occidente.
"Non esiste una cosa come la ISIS. L'ISIS è una creazione degli Stati Uniti, lo sappiamo da fonti ufficiali delle forze armate statunitensi e da documenti declassificati" ...

giovedì 19 novembre 2015

Attentati a Parigi: la schiacciante responsabilità del governo francese

L’ondata senza precedenti di attentati che ha colpito Parigi ieri sera e che avrebbe, secondo una prima relazione, provocato almeno 127 morti, è la diretta conseguenza della politica estera della Francia in Siria, volta meno al lottare contro il terrorismo salafita che a distrugegere il Paese e rovesciarne il Presidente Bashar al-Assad. Se più autori della carneficina nella sala da concerti Bataclan avrebbero detto, secondo i testimoni: “La colpa è di Hollande, del vostro presidente, che non deve intervenire in Siria“, va ricordata la vera politica francese in questo Paese dall’inizio del conflitto nel 2011. La Repubblica francese, come rivelato dal presidente Francois Hollande in un’intervista al giornalista Xavier Panon, ha infatti fornito armi ai cosddetti “ribelli” siriani nel 2012. Attraverso il DGSE cannoni da 20 mm, mitragliatrici, lanciarazzi, missili anticarro sarebbero stati consegnati ai ribelli cosiddetti “moderati” in violazione dell’embargo stabilito nell’estate 2011 dall’Unione Europea. Un consulente dell’Eliseo confessa a Xavier Panon: “Sì, mettiamo a disposizione quello di cui hanno bisogno, ma entro i limiti dei nostri mezzi e sulla base della nostra valutazione della situazione. Occultamente, si può agire solo su piccola scala. Con mezzi limitati e obiettivi limitati“. La Francia aveva anche inviato forze speciali sul campo per addetramento e supporto operativo ai terroristi. Nel marzo 2012, tredici ufficiali francesi furono catturati dall’esercito siriano durante la riconqusita del califfato islamico istituito nel quartiere di Bab Amr ad Homs da parte delle brigate al-Faruq e al-Walid. Quest’ultima poi aderì allo Stato islamico. Il presidente Hollande, citato dal quotidiano Le Monde, confessava nell’agosto 2014: “Non dobbiamo rallentare il supporto che diamo a questi ribelli, i soli a partecipare con spirito democratico“. Mentre il presidente siriano Bashar al-Assad ha più volte detto che non ci sono ribelli “moderati”, ci si può chiedere della vera natura dei gruppi armati ribelli sostenuti dallo Stato francese dal 2012. Il ministro degli Esteri Laurent Fabius disse a tal proposito, nel 2012, che Jabhat al-Nusra, ramo siriano di al-Qaida, “fa un buon lavoro”… Una denuncia delle vittime siriane dei gruppi ribelli fu presentata contro il ministro francese al Tribunale amministrativo di Parigi per “colpa personale del ministro degli Esteri Laurent Fabius, commessa nelle sue funzioni“. In un rapporto nel 2012 dell’agenzia d’Intelligence militare statunitense (DIA) già si sosteneva che l’aiuto ai ribelli cosiddetti “moderati” in realtà avvantaggiava principalmente lo Stato islamico. Secondo il direttore dell’agenzia, Generale Flynn, l’aiuto indiretto degli Stati Uniti e della coalizione occidentale allo Stato islamico “fu una scelta deliberata”. In un precedente articolo sul ruolo della travagliata coalizione occidentale in Iraq e in Siria, ho anche fatto notare vari fatti che dimostrano sostegno e collaborazione operativa di Turchia, Stati Uniti e Israele ai vari gruppi jihadisti. Tali elementi dimostrano chiaramente che la coalizione occidentale, comprendente la Francia, ha condotto una politica di aiuto ai vari gruppi jihadisti in Siria, con l’obiettivo di rovesciare il Presidente Bashar al-Assad con il pretesto dell’assistenza ai gruppi di fittizi ribelli “moderati”. La vera natura di tali gruppi ribelli è stata recentemente svelata dall’intervento russo, che ha fatto esplodere le proteste dei governi occidentali per il fatto che gli attacchi aerei colpivano i ribelli che sostengono. Tuttavia, i gruppi colpiti dagli aerei russi appartenevano all’Esercito della Conquista, cui Jabhat al-Nosra, ramo siriano di al-Qaida, e gruppi islamici come Ahrar al-Sham, fanno parte.
Purtroppo, è improbabile che il sostegno del govenro francese ai gruppi jihadisti in Siria sia denunciato alla luce di tale ondata inaudita di attentati, di cui sono tuttavia la conclusione logica e prevedibile. Il caos inflitto alla Siria e la proliferazione di gruppi jihadisti sono il risultato diretto della politica estera francese in Medio Oriente. Come negli attacchi di gennaio, il governo aveva eretto Internet, che avrebbe favorito l'”auto-radicalizzazione” dei terroristi, presentati ingannevolmente come “lupi solitari”, a capro espiatorio, nascondendo carenze e incompetenza dei servizi di intelligence e sicurezza francesi, imponendo in massa ssitemi di sorveglianza ai cittadini, con una politica contraria soprattutto alle libertà individuali, dimostratasi inutile oggi. E’ tuttavia improbabile che i capi dei servizi di sicurezza, tra cui il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve, che ancora una volta fallisce, ne rendano conto. Il governo e la classe politica, con poche eccezioni, si nascondono ancora dietro l’emozione e l’ingiunzione all'”unità nazionale”. Eppure le stesse persone che oggi hanno dichiarato lo stato di emergenza e il ripristino dei controlli alle frontiere avevano promesso nelle ultime settimane l’accoglienza dei migranti siriani in nome dei principi umanitari, nonostante le riserve dell’agenzia di cooperazione europea Eurojust che dichiarava che il contrabbando aveva stretti legami con le organizzazioni terroristiche in Siria: “Si tratta di una situazione allarmante, perché si vede chiaramente che il traffico è destinato a finanziare il terrorismo e che i trafficanti sono talvolta utilizzati per l’infiltrazione di membri dello Stato islamico“. Secondo il presidente François Hollande, se la Francia è “in guerra”, oggi, lo deve principalmente all’incompetenza dei dirigenti e alle criminali incoerenze della politica estera francese che hanno sostenuto e armato i gruppi jihadisti che hanno precipitato la Siria nel caos…2015-11-15_221807Nel 2012, il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, assieme al Regno Unito, spinse per allentare l’embargo sulle armi dell’UE alla Siria per consentire “che armi difensive arrivasero ai combattenti dell’opposizione“. La Francia fu la prima potenza europea a riconoscere la Coalizione nazionale delle forze di opposizione e rivoluzionarie siriana, una coalizione di diversi gruppi di ribelli crata a Doha che, secondo il presidente francese François Hollande, era l'”unico rappresentante del popolo siriano“. La coalizione fu riconosciuta anche da Turchia e Lega Araba come “legittimo rappresentante delle aspirazioni del popolo siriano“. Nel dicembre 2012, in una riunione tenutasi a Marrakech, gli Stati Uniti sostennnero la Coalizione Nazionale quale governo di transizione della Siria. Da quel momento più di 100 Paesi, compresa l’Unione europea, riconobbero l’opposizione siriana, nonostante i timori che fosse collegata ad al-Qaida. Secondo il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, “importanti” contributi finanziari furono annunciati nella riunione: l’Arabia Saudita offrì 100 milioni di dollari, gli Stati Uniti altri 14 milioni ie la Germania 29 milioni. Nel 2014, il presidente francese Hollande disse che la Francia armava e addestrava i ribelli siriani, da un periodo di tempo non specificato, perché “sono gli unici a prendere parte al processo democratico“. In un’intervista al quotidiano francese Le Monde ammise che la Francia non può “fare da sola” e che non vi era “una buona intesa con Europa e gli USA“.

mercoledì 18 novembre 2015

La Francia si è importata la guerra in casa. Ora tocca all’Europa?

“Ci accingiamo a condurre una guerra che sarà spietata”. Dal discorso in diretta tv alla nazione del presidente francese Hollande, tarda serata di ieri.
Parigi, se guardiamo agli ultimi trent’anni, è già stata colpita da diverse tipologie di attacchi. Nel 1986, ad esempio c’è una serie di attentati (bombe che colpiscono negozi di lusso e magazzini popolari) legati alla richiesta di liberazione di un militante di una importante fazione libanese. Poi ci sono gli attentati della metà degli anni ’90, legati alla vicenda dell’appoggio francese al colpo di stato algerino, che provocano diversi morti. Esplosioni di bombe rudimentali non certo con attacchi coordinati come quelli di venerdì 13.
Anche allora, come per Charlie Hebdo, la retorica della restrizione della sorveglianza, dello stanare i terroristi, della mano ferma che deve colpire anche all’estero se necessario ovviamente si è sprecata. Il punto è che, da almeno trent’anni, tutte le grandi criticità del medio oriente, in un modo o in un altro, hanno finito per manifestarsi sul suolo parigino. Da quelle rappresentate dagli sciiti del 1986 ai filo-sunniti della strage Charlie Hebdo. C’è solo da stupirsi del fatto, con la Francia in testa al bombardamento della Libia del 2011, non sia accaduto a Parigi qualcosa di direttamente proveniente dal paese nordafricano. Sugli attentati di venerdì 13, rispetto al passato anche recente, possiamo notare un salto di qualità. Stavolta la Francia rischia non tanto di importare attentati ma proprio una guerra in casa. E di esportarla in Europa.
Senza cercare di analizzare i dati e i fatti che neanche le autorità francesi hanno (provenienza reale degli attentatori, organizzazione del gruppo, logistica, fiancheggiamenti) è evidente, dalle testimonianze di chi era, ad esempio, al Bataclan che il legame tra attentati a Parigi e situazione siriana ed irachena l’hanno fatto gli stessi attentatori. Mentre sparavano agli ostaggi accusando Hollande di essere responsabile di tutto questo.
Ora, che in Siria la situazione sul campo, dopo l’intervento della Russia, sia cambiata è evidente. Come lo è quella dell’Iraq, con un’offensiva anti-Isis che si sta davvero formando. Senza applicare con fretta magliette e sigle agli attentatori, sia perché gli stessi francesi sono cauti sia perché l’attribuzione in questo contesto è sempre complessa, è evidente che i contraccolpi di queste mutazioni sono finiti in Francia. Non sotto la forma di un attentato classico ma sotto quella di un attacco coordinato - kamikaze allo stadio, esecuzioni di chi mangiava al ristorante, presa di ostaggi a teatro- che porta l’intero scenario parigino in zona di guerra. Del resto la guerra asimmetrica, come si sa da un ventennio, prevede attacchi classici nel paese più piccolo e risposte, in termini di attacchi alla popolazione, nelle strade del paese più grande. L’attentato allo stadio dove si giocava (da non dimenticare) Francia-Germania lo si è trascurato forse perché è sostanzialmente fallito. Tre kamikaze, rispetto alle potenzialità di un attentato del genere, hanno prodotto una tragedia a bassa intensità di morti. Ma ad alta intensità simbolica, a parte le scene dell’invasione di campo dei tifosi impauriti, con un messaggio preciso alla Germania.
Il punto sta quindi tutto sulla diffusione di questo atto di classica guerra asimmetrica. Se rappresenta il culmine di una strategia, fatta di attacchi coordinati, o l’inizio. Se rimane confinato in Francia, o all’abbattimento dell’aereo russo pieno di turisti, o si estende in Europa. Se risulta efficace sullo scenario siriano e iracheo o solo simbolico. Se rappresenta una risposta spettacolare alla perdita di eroi dello spettacolo bellico sul campo (Jihadi John tra tutti) o una precisa strategia militare di indebolimento della forza dello stato francese.
L’altro punto è che gli europei, presi nelle rispettive dimensioni autoreferenziali, non hanno capito bene di essere in guerra. A Parigi in tre casi – rue Bichat, Bataclan, stadio Saint Denis – i testimoni hanno raccontato di aver creduto, all’inizio, che si trattasse di petardi piuttosto che di sparatorie. E’ uno degli effetti del muro cognitivo che separa gli europei dai fatti che li riguardano: la crisi più importante dal ’29 sterilizzata in rappresentazioni fatte di grafici, e di dichiarazioni rassicuranti, che non capisce nessuno; Il medio oriente rappresentato solo come argomento di conferenze di pace che non finiscono mai. Per questo le ondate di profughi sono viste con particolare angoscia: portano addosso quel rimosso della crisi e della guerra che non si razionalizza altrimenti, tramite i discorsi ufficiali.
La situazione è talmente dura, e maledettamente complicata, che non valgono nemmeno le risposte tradizionali. E’ impossibile la pratica di un pacifismo tradizionale Peace & Love quando dall’altro lato del mediterraneo hai Isis. Infatti, saggiamente i movimenti appoggiano il popolo curdo. Mentre arcobaleno e arancioni di ogni origine balbettano già formule senza senso che tornereanno utili per legittimare le retoriche della guerra umanitaria.
Allo stesso tempo, i Terminator dell’occidente civilizzato dopo 15 anni di guerra in Afghanistan perdono campo e sono costretti a restare. Gli altri terreni di intervento diretto (Iraq) e indiretto (Libia) si sono rivelati vasi di pandora per forze che affermano, tra un bagno di sangue e l’altro, la propria autonomia. Una regola della guerra asimmetrica, i bianchi dovrebbero saperlo con le legioni di esperti che l’occidente mette a libro paga, è che lo scontro sul campo è sempre meno decisivo per determinare l’esito di una guerra. Basta leggere la guerra irachena e quella afghana al di fuori della propaganda. E così nel drammatico rompicapo dei questi anni il mondo promesso alla caduta del muro di Berlino, un globo pacificato dai commerci e dai profitti una volta tolta la minaccia di ogni socialismo, si rivela per quello che è. Una superficie abitata da signori della guerra –asimmetrica, convenzionale, finanziaria- destinata a durare fino a quando la logica del profitto non trova pace.

martedì 17 novembre 2015

L'ISIS vuole farsi bombardare anche dalla Francia

All'ISIS non bastava venire bombardata dalla Russia (bombe vere) e dagli Stati Uniti (bombe misteriose che in un anno non hanno creato danni; testimoni sostengono che assomigliassero invece parecchio a rifornimenti). L'ISIS vuole che anche la Francia ora si faccia avanti per bombardarli e, possibilmente, che invii anche truppe di terra per combatterli meglio. Cosa c'è di strano? Ha già annunciato simili attentati pure a Roma, Londra e Washington. Capirei quasi Washington che in teoria li sta bombardando da un anno (come detto con proiettili davvero misteriosi) ma Londra e soprattutto Roma cosa c'entrano? L'ISIS vuole quindi evidentemente farsi bombardare anche da Inghilterra e Italia, possibilmente da tutta l'Europa. Questa sì che è strategia! Chi non vorrebbe farsi bombardare da quanti più paesi possibili, soprattutto quando già la Russia ti sta facendo un mazzo tanto?
A scanso di equivoci i terroristi a Parigi recavano con se i soliti passaporti[1] che tutti i terroristi sempre portano con sé in questi casi. La parola sempre è sottolineata. I terroristi di Charlie Hebdo dimenticarono il loro passaporto in auto[2]. I terroristi dell'11 settembre avevano con loro i passaporti più miracolosi del mondo poiché in grado sopravvivere alla nota esplosione con palla di fuoco che ci hanno più volte mostrato in TV ed il crollo di un paio di torri alte 500 metri[3]. Forse per paura che i loro passaporti non venissero trovati costoro per inciso lasciarono nelle loro auto anche un manuale ed una videocassetta su come pilotare un Boeing. A proposito, di Charlie Hebdo, chissà se nel prossimo numero del loro giornale prenderanno in giro le vittime francesi della strage dell'ISIS così come dileggiarono le 224 vittime russe della strage dell'ISIS solo un paio di settimane prima? Si accettano scommesse. Vedremo così se anche "il diritto di satira" è soggetto a doppi standard in Occidente.

L'ambizione dell'ISIS di venire attaccati e massacrati non può più venire messa in dubbio. Non ambiva forse già Osama Bin Laden quattordici anni fa che l'Afganisthan venisse bombardato e l'Iraq invaso quando egli fece ciò che fece? Dopotutto fu proprio questo che egli ottenne.
La solite malelingue sostengono che ISIS è stato creato dagli Stati Uniti, e pazienza se fra le malelingue c'è il generale francese Vincent Desportes[4], cosa volete che ne sappia uno come lui? Ne sappiamo di certo più noi che leggiamo Repubblica e guardiamo il telegiornale. Non dovremmo neppure dare retta ai documenti statunitensi ufficiali declassificati nei quali si propone la possibilità di creare l'ISIS prima che esso in effetti apparisse[5]. Vogliamo forse fare il processo alle intenzioni? E le varie foto che ritraggono il senatore americano McCain assieme al capo dell'ISIS Al-Baghdadi[6] non ci devono neppure esse trarre in inganno: a chi non capita dopotutto di trovarsi per sbaglio assieme a personaggi sgradevoli che passavano di lì per caso? Potrebbe accadere ad ognuno di noi.

E pure il fatto che pochi giorni prima degli attacchi il capo della CIA si sia incontrato col capo dei servizi francesi[7] non deve dare adito a cattivi pensieri. Probabilmente questa gente va insieme a bersi una birra più spesso di quanto pensiamo - e cosa c'è di male?
Quindi sia chiaro che l'ISIS ha compiuto la strage di Parigi solo perché sono dei deficienti - dei deficienti molto fortunati! Provateci voi a contrabbandare in Francia armi automatiche e munizioni e quant'altro senza farvi beccare! Ma, si sa, la fortuna aiuta i principianti, almeno fino al momento in cui non vengono convenientemente ammazzati.
Come spesso accade in questi casi, le informazioni della strage su Wikipedia sono apparse a velocità da record. In effetti, pare che alcuni fatti (una dichiarazione di Hollande) siano stati riportati addirittura prima che accadessero[8]. Ma a questi piccoli miracoli siamo ormai abituati (i più smaliziati ricorderanno la BBC annunciare l'11 settembre 2001 il crollo del WTC7 con 20 minuti di anticipo rispetto al fatto)[9].
E siamo anche abituati alla coincidenza che tutte le volte che i terroristi colpiscono, qualche esercitazione antiterrorismo chissà perché è sempre in corso, più o meno contemporaneamente. Accadde a New York l'11 settembre 2001[10], accadde a Londra il 7 Luglio 2005[11] e qualcosa del genere è accaduto anche stavolta a Parigi. In giornata per un "allarme bomba" la polizia è infatti accorsa in forze alla stazione ferroviaria Gare de Lyon facendola sgomberare[12]. E sempre per un "allarme bomba" lo stesso giorno è stato fatto sgomberare anche l'albergo dove si trovava la squadra nazionale tedesca di calcio in città per l'incontro serale con la Francia[13]. Dite che è poco? Ah, già, dimenticavo di aggiungere: c'era quel giorno in corso anche un'esercitazione completa proprio per il caso di un multi-attacco, che coinvolgeva polizia, pompieri, EMT, ecc.:
Esattamente come in tutti i casi più eclatanti di terrorismo che ci hanno propinato. L'importante in questi casi è rispettare le tradizioni e non farsi mancare niente. Viva le coincidenze! Perché chi ha mai detto che non possa essere una coincidenza che tutte le volte si verifichino esattamente le stesse coincidenze? Abbiate fede!
Infine, dato che noi non siamo superstiziosi e fissati sulla numerologia come Christine Lagarde, capo dell'FMI (vedere video per credere)[14], il fatto che tutto ciò sia accaduto di Venerdi 13 dell'11esimo mese nell'11esimo arrondissement di Parigi non ci turba più di tanto. C'è chi è fissato con le simbologie e chi no. A proposito: qualcuno vorrà notare che la maggior parte delle vittime a Parigi erano spettatori di un concerto di heavy metal - Eagles of Death Metal. Due settimane prima a Bucarest (nota una volta come "la piccola Parigi") in una strage su scala minore oltre 50 ragazzi perivano nel rogo sviluppatosi durante un concerto heavy metal, evento che ha rapidamente portato alla caduta del governo rumeno e l'instaurazione di un governo "tecnico" più "eurocratico" che mai. Frequentare concerti heavy metal sta iniziando a farsi pericoloso.
Ciò detto, buona Terza Guerra Mondiale a tutti. Ah, non ve lo hanno detto? Beh, ci sono cose che si fanno, ma non si dicono, ormai dovreste saperlo, accipicchia. E' previsto che ve ne rendiate conto a puntate, così da non farci troppo caso. Avete mai sentito la ricetta di come vanno bollite le rane così che non saltino fuori dalla pentola?

lunedì 16 novembre 2015

Liberarsi dai debiti con banche e Equitalia in una mossa

La Legge per TuttiUna manna dal cielo per chi ha debiti con Equitalia o con le banche: la buona notizia viene dal Tribunale di Napoli che, seguendo a ruota l’esempio dato a inizio anno dal Tribunale di Busto Arsizio, indica la strada per liberarsi, con una sola mossa, delle passività arretrate e difficilmente estinguibili, allorquando il creditore non abbia accettato, in sede di trattative bonarie, di fare sconti o di venire a più miti consigli. In questi casi, allora, il consumatore può rivolgersi direttamente al giudice e, a prescindere dal consenso o meno del creditore, può farsi riconoscere uno “sconto” sul debito. Ma vediamo meglio di cosa si tratta.
Liberarsi dei debiti con Equitalia o con la banca in un solo colpo, senza cause e senza manovre “triangolari” e fraudolente – tipiche di chi tenta di nascondere i propri beni dalle aggressioni dei creditori – è un diritto previsto da una legge del 2012: una normativa, in verità, poco utilizzata nonostante i vantaggi che può comportare nelle situazioni di sovraindebitamento del consumatore, della famiglia e di tutti quei soggetti che, non essendo imprenditori commerciali, non sono soggetti al fallimento.
La normativa consente (in termini molto spiccioli) al debitore di presentare in tribunale una richiesta di “saldo e stralcio” del proprio debito (cosiddetto piano del consumatore) e, se il giudice la ritiene valida e realizzabile, autorizza la riduzione del debito senza neanche sentire il parere dei creditori. Insomma, in questi casi non rileva l’accordo con i creditori, ma è sufficiente l’omologazione del giudice che abbia valutato la fattibilità della proposta e la meritevolezza della condotta del debitore. Quest’ultimo deve ovviamente fornire valide garanzie di adempimento del piano depositato in tribunale, rendendone verosimile l’adempimento. In questo modo, i soggetti che non possono fallire come le persone fisiche, possono ottenere dal giudice un consistente “sconto” sulle passività pur di soddisfare, almeno in parte, il creditore: sconto magari non ottenuto in sede di trattative bonarie con il creditore medesimo.
La novità – che si sta aprendo strada in questi ultimi mesi – è tuttavia quella di consentire il cosiddetto piano del consumatore anche quando il creditore sia uno soltanto. Come appunto spesso accade con Equitalia o la banca. nRiguardo all’Agente della riscossione, a gennaio di quest’anno il Tribunale di Busto Arsizio aveva emesso il primo, innovativo, provvedimento di cancellazione del debito: 87mila euro ridotti a meno della metà grazie all’offerta del debitore di vendere un proprio immobile e con il ricavato soddisfare Equitalia.
Oggi, lo stesso tipo di ragionamento viene seguito dal Tribunale di Napoli, con riferimento, però, questa volta, a una banca. Il giudice partenopeo ha ritenuto possibile dimezzare, per il consumatore in crisi, il debito del mutuo ipotecario nei confronti della banca. E ciò anche se il mutuante non è d’accordo. E l’approvazione dell’istituto di credito non serve: l’omologazione del piano del consumatore conviene anche alla banca che dovrebbe affrontare costi ingenti nelle procedure esecutive per poi vendere all’asta l’immobile a costi sicuramente ridotti.
LA VICENDA – Il tribunale di Napoli ha omologato il piano avanzato da un consumatore che aveva perso il lavoro e, nel frattempo, aveva maturato 250mila euro di arretrati con la banca. L’uomo, che aveva ripreso in ultimo a lavorare, guadagnava solo 1.525 euro al mese da statino paga; con l’autorizzazione del giudice ora ne verserà alla banca 650 alla banca per quasi diciotto anni per estinguere il suo debito, che così però si riduce da 250 mila a 125 euro.
LA LEGGE SALVA SUICIDI – La procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento è stata anche definita legge “salva-suicidi”, approvata sull’onda emotiva della recessione scoppiata qualche anno fa. Il grosso vantaggio per il debitore è che il piano non ha bisogno di alcuna votazione dei creditori per ottenere il via libera. È necessaria solo l’omologazione del giudice, che verifica la sussistenza dei requisiti di legge ed esclude la sussistenza di ogni intento di frode da parte del consumatore.
LA SENTENZA – “Deve essere omologato il piano del consumatore di cui alla legge 3/2012 per la composizione della crisi da sovraindebitamento, che porta al dimezzamento del debito costituito dal mutuo ipotecario nei confronti della banca, dovendosi ritenere che detto piano, pur prevedendo il pagamento in misura parziale del creditore ipotecario stante la stima del valore commerciale del bene immobile, e il pagamento nella misura integrale del credito chirografo (ad esclusione degli interessi), assicura per essi una percentuale di soddisfazione presumibilmente non inferiore a quella che otterrebbero in caso di liquidazione, dovendosi osservare che la valutazione sulla convenienza deve far riferimento anche ai costi delle procedure esecutive individuali, funzionali alla liquidazione coattiva del bene ed ai tempi processuali non brevi oltre all’incognita di realizzazione rimessa all’esito della vendita nelle previste forme giudiziali e ricordare che per legge il piano non è sottoposto ad alcuna votazione e quindi non necessita di alcuna approvazione da parte dei creditori”.

venerdì 13 novembre 2015

L'"esplosione sociale" della Grecia ha avuto inizio

In diretta da Atene per il primo sciopero generale contro il governo Syriza. In piazza i cori che una volta usava Tsipras
Dopo che Alexis Tsipras ha ceduto al ricatto della Troika e vanificato il referendum dell'estate scorsa in seguito al “waterboarding” del regime incravattato di Bruxelles, Berlino e Francoforte, la percezione del nuovo “leader rivoluzionario” non è stata più la stessa. Missione compiuta, in poche parole per la Troika.
L'AntiDiplomatico vi ha spesso scritto che la Troika ha voluto portare sul lastrico le banche greche per punire e mandare un messaggio chiaro, da vero tiranno, a tutti coloro che avrebbero osato sfidare anche in futuro la sua autorità nel nome della democrazia.
Dopo la vittoria elettorale del mese scorso, il secondo mandato Alexis Tsipras è vincolato alle misure draconiane che una volta combatteva, rinnegando gran parte dell'ideologia che aveva permesso a Syriza di salire al potere. Il tutto a discapito anche della tenuta sociale di un paese, esperimento sociale di tutta l'Europa del sud, dove è stato distrutto il tessuto del lavoro, rinnegati diritti considerati inalienabili e dove sanità, istruzione e Welfare in generale sono stati annientati. Senza più la possibilità di veder canalizzata la rabbia e la protesta in un partito, scrive oggi Zero Hedge, le degenerazioni possono avvenire.
Oggi è esplosa la rabbia da parte di quegli elettori che avevano visto in Tsipras e Syriza una speranza. Riporta Bloomberg che “ i lavoratori greci sono scesi per strada per protestare. Il principale bersaglio della protesta: Alexis Tsipras. I sindacati – una base importante per il partito del primo ministro – hanno cantato gli stessi cori che Tsipras intonava in precedenza contro i governi dell'austerità". Giornata di sciopero generale oggi in Grecia con medici e giornalisti che si sono uniti ai lavoratori portuali, dipendenti pubblici e della metro di Atene nel primo sciopero generale da quando Syriza ha preso il potere nel gennaio scorso.
I sindacati greci, ADEDY e GSEE, stanno manifestando contro la decisione di Tsipras di arrendersi ai creditori e imporre misure che sono “l'età buia dei lavoratori”, come l'hanno definita, con l'agenzia di statistica del paese che ha rilasciato gli ultimi dati sull'occupazione che mostrano come 1,18 milioni di lavoratori, il 24.6% della forza lavoro, rimane senza occupazione nel paese. Un paese raso al suolo.
Il sindacato GSEE, in una nota, ha dichiarato che i lavoratori vedono queste misure come causa di “austerità punitiva, povertà e impoverimento” per un paese dove un quarto della forza lavoro è inoccupata. “C'è un rischio di esplosione sociale, con i tagli alle pensioni e aumenti delle tasse all'orizzonte”, ha dichiarato Sotiria Theodoropoulou, ricercatrice allo European Trade Union Institute di Brussels.
In modo molto divertente se ci pensate, Syriza supporta gli scioperi contro le sue politiche. Dal Telegraph leggiamo che: “il dipartimento del partito che si occupa di questioni del lavoro ha invitato la partecipazione di massa nelle strade per protestare contro le politiche neo-liberali e il ricatto dai centri finanziari e politici all'interno e fuori dalla Grecia”.
“Ci attendiamo una grande adesione”, ha dichiarato Petros Constantinou, membro prominente del gruppo di sinistra Antarsya al Guardian. “Questo è un governo che è sotto la pressione dei creditori dall'alto e dal popolo dal basso per la sua incapacità. Non conoscerà tregua”. E Kalomoiris, un noto dirigente di Unità popolare, il nuovo gruppo politico nato dalla scissione di Syriza dopo la resa di Tsipras, chiosa: “In questo paese un lauerato inizia la sua carriera per 750 euro al mese e stiamo parlando che i salari devono essere congelati per i prossimi decenni, con aumenti delle tasse. Come può la gente accettarlo? Siamo al punto che l'esplosione sociale avverrà, è inevitabile prima o poi”.
E dalle strade di Atene in questo momento, qualcosa di molto simile da un'esplosione sociale sta realmente avvenendo: