mercoledì 30 settembre 2015

Putin infiamma le Nazioni Unite: “Vi rendente conto di quello che avete fatto?”

Con un discorso storico il presidente russo Vladimir Putin è intervenuto alla 70esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite accusando l’Occidente di aver completamente sbagliato politica in Medio Oriente. Non solo, Putin ha anche ricordato come sia un “grosso errore” non collaborare con Damasco nella lotta all’Isis e ha ricordato come il golpe in Ucraina sia stato “orchestrato dall’esterno”.
Vladimir Putin ha provocato un terremoto con le sue dichiarazioni in seno alla 70esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fatto questo peraltro ampiamente prevedibile visto come si sono raffreddati i rapporti tra Occidente e Russia nell’ultimo anno. Il presidente russo ha chiesto chiaramente a coloro che hanno provocato l’escalation in Medio Oriente: “Vi rendete conto di cosa avete fatto?”. Il riferimento è chiaramente all’appoggio che l’Occidente ha dato ai vari ribelli contro Gheddafi in Libia e contro Assad in Siria. Ma Putin ha anche apertamente criticato l’Onu ricordando come ultimamente si siano sentite molte critiche contro l’Onu e che nel corso della storia le varie decisioni prese dalle Nazioni Unite sono state offuscate dall’assensa di consenso in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
“Alcuni paesi hanno cominciato a pensare che, essendo loro più forti, erano autorizzati ad ignorare le Nazioni Unite“, ha detto il presidente russo, criticando le iniziative unilaterali: “L’interferenza aggressiva ha causato la distruzione totale e la catastrofe sociale in Medio Oriente“, ha aggiunto. Insomma, secondo Putin sarebbe stato proprio il vuoto di potere voluto dall’Occidente per il Medio Oriente a creare le premesse per la creazione dello Stato Islamico, ancor più che a detta del presidente russo gli ideologi dell’Isis “si fanno beffe dell’Islam, lo deturpano“. Ma Putin è andato anche oltre sottolineando come fin qui “tutti i tentativi di giocare con i terroristi e di finanziarli sono fatali e possono avere conseguenze catastrofiche“. Non solo, il presidente russo ha accusato l’Occidente di essere “ipocrita” in quanto lo Stato Islamico non è nato dal nulla ed è composto da ex soldati iracheni, libici e siriani, compresi i ribelli “moderati” finanziati dall’Occidente fin qui. Peccato che gli Stati Uniti al posto che fare ammenda continuino un pericoloso gioco al rilancio che indica come alla Casa Bianca non abbiano la minima consapevolezza dei danni che la loro politica stia facendo in Medio Oriente e in Europa.
Putin, al contrario, ha portato soluzioni concrete come ad esempio la proposta di “creare un’ampia coalizione per combattere i terroristi”, che veda i paesi musulmani in prima fila. Del resto secondo Mosca sarebbe un errore madornale continuare a non collaborare con Assad nell’ottica della distruzione dell’Isis,in quanto ”Solo l’esercito siriano e i curdi combatteranno in modo reale contro lo stato islamico“. Evidentemente però alla Casa Bianca interessa più disfarsi dell’odiato Assad piuttosto che porre fine all’insorgenza dei tagliagole jihadisti in Siria e Iraq. Ma Putin ha parlato anche di Ucraina, ricordando come il golpe del Maidan sia stato “orchestrato dall’esterno, provocando una guerra civile“. Insomma, un Putin sugli scudi che ha detto di fronte al mondo quello che gli americani fingono di non vedere e che i media compiacenti cercano di occultare, e ha anche criticato l’Occidente di utilizzare ancora l’ideologia della guerra fredda con il blocco sovietico che non esiste più mentre la Nato “continua a espandersi“. Forse proprio perchè osa dire queste cose Putin è diventato un feroce dittatore mentre il “mite” Eiltsin, ben più accomodante nei confronti degli Usa, poteva permettersi di fare quello che voleva in politica interna senza paura di una stampa negativa.

lunedì 28 settembre 2015

Economia il gioco perverso tra il taglio del credito e l'aumento dell'usura

Con la forte contrazione dei prestiti bancari avvenuta in questi ultimi anni, soprattutto nei confronti delle imprese di piccola dimensione, esiste il pericolo che il fenomeno dell'usura, soprattutto al Sud, assuma dimensioni preoccupanti. Un crimine invisibile che rischia di minare la tenuta finanziaria di moltissime attivita' commerciali ed artigianali".
La denuncia e' sollevata da Paolo Zabeo, coordinatore dell'Ufficio studi della CGIA: tra la fine di giugno del 2011 e lo stesso periodo del 2015, l'ammontare degli impieghi bancari alle imprese e' diminuito di 104,6 miliardi di euro, mentre il numero di estorsioni e di delitti legati all'usura denunciato dalle forze dell'ordine all'Autorita' giudiziaria e' aumentato in misura esponenziale. Se nel 2011 le denunce di usura erano 352, nel 2013 (ultimo dato disponibile) sono salite a 460 (+30,7 per cento); le estorsioni, invece, sono passate da 6.099 a 6.884 (+12,9 per cento). Oltre al perdurare della crisi, sono soprattutto le scadenze fiscali e le piccole spese impreviste a spingere molti imprenditori nella morsa degli strozzini.
Nell'ultimo indice del rischio di usura, che da oltre 15 anni l'Ufficio studi della CGIA provvede a calcolare, si evince come tale fenomeno abbia assunto dimensioni preoccupanti soprattutto nel Mezzogiorno. Nel 2014, infatti, la Campania, la Calabria, la Sicilia, la Puglia e la Basilicata sono state le realta' dove la "penetrazione" di questa piaga sociale/economica ha raggiunto i picchi maggiori.
In altre parole - prosegue Zabeo - con la forte stretta creditizia, il conseguente aumento dei ritardi nei pagamenti avvenuto nelle transazioni commerciali tra le imprese e il perdurare di elevati livelli di disoccupazione, l'usura, gia' presente in questi territori in misura maggiore che altrove, ha assunto dimensioni ancor piu' preoccupanti". L'indice del rischio di usura, infatti, e' stato calcolato mettendo a confronto alcuni indicatori regionalizzati riferiti prevalentemente al 2014: la disoccupazione, le procedure concorsuali, i protesti, i tassi di interesse applicati, le denunce di estorsione e di usura, il numero di sportelli bancari e il rapporto tra sofferenze ed impieghi registrati negli istituti di credito. In pratica questo indice e' stato individuato attraverso la combinazione statistica di tutte quelle situazioni potenzialmente favorevoli alla diffusione dello "strozzinaggio".
Con le sole denunce effettuate dalle forze di Polizia all'Autorita' giudiziaria - conclude Zabeo - non e' possibile dimensionare il fenomeno dell'usura: le segnalazioni, purtroppo, sono relativamente poche. Spesso, le vittime di questo crimine si guardano bene dal rivolgersi alle forze dell'ordine; chi cade nella rete degli strozzini e' vittima di minacce personali e ai propri familiari, elemento che scoraggia molte persone a chiedere aiuto. Per questo abbiamo incrociato i risultati di ben 8 indicatori per cercare di misurare con maggiore fedelta' questa piaga. Cio' che pochi sanno sono le motivazioni per le quali molti artigiani o i piccoli commercianti diventano prede degli usurai.
Ritornando alla metodologia di calcolo di questo indice, si evince come nelle aree dove c'e' piu' disoccupazione, alti tassi di interesse, maggiori sofferenze, pochi sportelli bancari e tanti protesti, la situazione sia decisamente a rischio. Ebbene, rispetto ad un indicatore nazionale medio pari a 100, la situazione piu' critica si presenta in Campania: l'indice del rischio usura e' pari a 155,1 (pari al 55,1 per cento in piu' della media Italia), in Calabria a 146,6 (46,6 per cento in piu' rispetto alla media nazionale), in Sicilia si ferma a 145,3 (45,3 per cento in piu' della media Italia), in Puglia a 136,3 (36,3 per cento in piu' della media nazionale) e in Basilicata il livello raggiunge quota 133,2 (33,2 per cento in piu' della media Italia).
Diversamente, la realta' meno "esposta" a questo fenomeno e' il Trentino Alto Adige, con un indice del rischio usura pari a 47,6 (52,4 punti in meno della media nazionale). Anche la situazione delle altre 2 regioni del Nordest e' relativamente rassicurante: il Friuli Venezia Giulia, con 72,8 punti e il Veneto, con 73,2 punti, si piazzano rispettivamente al penultimo e terzultimo posto della graduatoria nazionale del rischio di usura.

domenica 27 settembre 2015

Evasori fiscali: 30mila contribuenti italiani nascosti a San Marino. Con 33 miliardi di euro

L’evasione fiscale in Italia è come un vaso di Pandora, e ogni giorno se ne scopre qualche nuovo pezzo. Si scopre, ma non si riesce ad eliminare. Sappiamo da tempo che a San Marino, ovvero nel cuore del Paese, si concentra una bella fetta di evasori fiscali, specie delle regioni limitrofe, dall’Emilia Romagna alle Marche. Oltre ai soliti noti, imprenditori, banchieri e professionisti, ci sarebbero però anche conti intestati a personaggi delle regioni meridionali in odore di malavita organizzata. Il settimanale L’Espresso questa settimana, in un’inchiesta molto documentata, pubblica tutti i particolari dello scandalo.
EVASIONE FISCALE A SAN MARINO -
In appena nove anni, dal 2006 al 2014, i movimenti bancari tra San Marino e l’Italia sono stati pari a 33 miliardi di euro, e 26.900 cittadini italiani, dei quali 23.500 sono persone fisiche e 2.550 società, hanno conti accesi presso banche della piccola repubblica. Insomma: numeri importanti per un fenomeno che stravolge i conti pubblici e costringe il governo a tenere alto il livello di tassazione.
SAN MARINO PARADISO FISCALE -
A questo punto ci sono due domande da farsi. La prima: ma è possibile mai che da anni conosciamo lo scandalo dell’evasione nascosta a San Marino, e ogni volta dobbiamo fare finta di sorprenderci per la sua portata? I furbetti del fisco sembrano così destinati a ricevere una sorta di impunità a vita, e allora perché gli altri cittadini dovrebbero pagare regolarmente le tasse? La seconda domanda, invece, riguarda la sanatoria fiscale con la quale, entro poco tempo, gli evasori potranno regolarizzare le loro posizioni e portare i loro soldi sporchi in Italia: siamo davvero convinti che sia un metodo equo ed efficace, o piuttosto l’ennesimo regalo all’evasione? La mia sensazione è che, a proposito di fisco, una piccola e inutile repubblica, come San Marino, fa diventare la nostra, quella italiana, un’autentica repubblica delle banane.

sabato 26 settembre 2015

«Fine della democrazia? Iniziò con Thatcher. E continua con Renzi»

«La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie», spiegava Margaret Thatcher nel lontano 1980. L’inizio della fine della democrazia che l’Europa sta vivendo nel 2015, l’annus horribilis in cui Banca centrale Europea e Fmi piegano il volere di cittadini e governo greco, è lì. All’origine dell’applicazione pratica delle politiche neoliberiste, sostiene il sociologo Luciano Gallino. Fosse stato per la Scuola di Chicago di Milton Friedman, i Chicago Boys, i pensatori che costruirono l’impero teorizzando che il mercato si regola da solo, e che meno stato nell’economia meglio è, si sarebbe già potuto iniziare nei primi anni Settanta. Giusto il tempo degli ultimi fuochi keynesiani dei “Trente Glorieuses” (1945-75), quelli della ripresa economica improntata sul risparmio e sul welfare, sulle istituzioni statali indipendenti e sovrane rispetto ai fondi monetari, alle banche mondiali, alla rapacissima finanza. Il big bang lo fa deflagrare quella signora dalla permanente un po’ blasé, assieme all’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, che cominciano ad asfaltare sindacati e sindacalizzati, a cancellare il sistema di welfare a protezione delle fasce più deboli. Le tornate elettorali cominciano a diventare un optional. Governi conservatori o progressisti, europei o statunitensi, agiscono tutti verso la stessa direzione: smantellare lo stato sociale e privatizzare i servizi pubblici. Tanto ci pensa il mercato.
«Il potere economico nella forma che conosciamo si chiama capitalismo e per un certo periodo nel dopoguerra al capitalismo sfrenato si è potuto opporre qualche ostacolo favorendo prima di tutto la crescita economica e sociale di lavoratori e ceti medi», spiega Gallino, ordinario di sociologia all’Università di Torino dal ’71 al 2002, e autore di un volume sul tema intitolato Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa (Einaudi). Per lo stesso editore sta per pubblicare Il Denaro, il debito, la doppia crisi. «Dopo il 1980 però comincia la controffensiva neoliberale che ha avuto la meglio su tutti i governi d’Europa compresi quelli socialisti e socialdemocratici che non erano differenti nella pratica da quelli neoliberali e conservatori – continua Gallino – E’ stata una rivincita delle classi dominanti che ha avuto un successo straordinario. L’unico governo da allora ad oggi non allineato è forse quello greco di Tsipras».
Ma come si è innescata la stessa dinamica impositiva del credo neoliberista nelle istituzioni e nel governo dell’Unione Europea?
«A partire dagli anni Ottanta, a partire dagli Stati Uniti ma con un grosso contributo delle nazioni europee, si è affermato il processo cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente danneggiato l’economia reale. Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5% producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare più a pensarci troppo».
Poi c’è stata la crisi del 2007-2008…
«Una crisi causata soprattutto dalla “finanziarizzazione”, non disgiunta dalla stagnazione dell’economia reale. A cui si dovevano far seguire serie riforme a livello bancario e finanziario, anche solo tornando alle regole, tipo la legge Glass-Steagall del ‘33, che avevano assicurato 50 anni di stabilità. Però non si è fatto nulla. Le banche e il sistema finanziario sono tornate più grosse, prepotenti e invadenti di prima della crisi. L’euro e la superiorità della Germania riflettono i risultati della finanziarizzazione. Va detto che la politica tedesca è stata quella di comprimere i salari dei propri lavoratori, e di utilizzare fiumi di forniture a basso prezzo dai paesi industriali dell’Est per favorire le proprie esportazioni in modo incredibile. Nel 2014 l’eccedenza degli incassi tra import ed export è stata di 200 miliardi di euro. I crediti di qualcuno sono però i debiti di qualcun altro: spesso dei paesi impoveriti sotto il predominio della Germania, alla quale l’euro ha giovato moltissimo, impedendo agli altri paesi di svalutare la propria moneta per stare dietro alla competitività tedesca. Sono stati compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente danneggiato l’economia reale»
Il caso greco sarà quindi il primo di tanti altri che arriveranno?
«Sì. Con la Grecia i tedeschi hanno detto: “Umiliarne uno per educarne diciotto”, se parliamo dell’eurozona. Ne seguiranno altri. La Germania procede con decisione, la sua industria e le sue banche sono pesantemente coinvolte nel meccanismo infernale che hanno messo in moto. Dopo la Grecia toccherà all’Italia, alla Spagna, e anche alla Francia».
Eppure il presidente Renzi ogni giorno vara una nuova riforma…
«Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi, il Jobs Act è una stanca ricucitura di vecchi testi dell’Ocse pubblicati nel 1994 e smentiti dalla stessa Ocse: la flessibilità non aumenta l’occupazione. Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’hanno ma procedono per la loro strada di passiva adesione alle politiche di austerità».
C’è chi vede la capitolazione greca di fronte alla fermezza Bce e Fmi come l’atto più antidemocratico avvenuto in Europa negli ultimi vent’anni. Che ne pensa?
«Il ministro Schãble, il mastino della Germania e dell’euro, sta preparando altre strettoie dittatoriali per rafforzare il dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona. A me pare che per un paese che vale demograficamente un ottavo della Germania, tener testa per cinque mesi agli ottusi e feroci burocrati di Bruxelles, della Bce e del Fmi sia un altissimo riconoscimento, un grande esempio di dignità politica. L’Italia è lontana anni luce dalla Grecia. Siamo un paese economicamente molto più pesante e di fronte ai memorandum europei avremmo potuto ottenere risultati maggiori; ma questi neoliberali che ci governano rappresentano le classi sociali alleate con la finanza che ci domina».
Renzi un neoliberale come Reagan e la Thatcher?
«Sì. Anche Monti arrivò da Bruxelles, grazie all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del lavoro, i tagli forsennati alle pensioni. La Commissione Europea e la Bce ci mandano lettere che assomigliano ai feroci memorandum mandati alla Grecia. Ci manca soltanto che ci mandino lettere con su scritto come confezionare il pane, proprio come suggerito nell’accordo dell’Eurogruppo con Tsipras il 12 luglio».
Che c’è scritto in materia di produzione del pane?
«Si tratta di una indicazione dell’Ocse richiamata espressamente nel testo dell’accordo. Da sempre i panettieri greci vendono due tipi di pane: da mezzo e da un chilo. Nella “cassetta degli attrezzi” dell’Ocse (così si chiama) ci sono alcuni paragrafi dedicati ai fornai a cui viene imposto, al fine di allargare la liberalizzazione di un paese e bla bla bla, di introdurre varie altre pezzature di diverso peso delle pagnotte. E poi il pane dovrà essere venduto in qualunque posto, anche nei saloni di bellezza, se lo vogliono. Capirete bene cosa rappresenta un’imposizione del genere: si sta dicendo ad un paese intero come fare il pane. Pensiamo ai 30mila dipendenti della Cee a Bruxelles e alle migliaia che lavorano per l’Ocse e per l’Eurogruppo con le loro macchinette mentre calcolano migliaia di coefficienti e trovano il tempo e ritengono opportuno intervenire sul pane. Si è raggiunto un livello di imbecillità inaudito, ed è soprattutto una forma di dittatura che avanza».
Ci può spiegare il concetto di “autoritarismo emergenziale” che ha coniato?
«Un governo che ha una vocazione autoritaria, ma è ancora soggetto al peso del voto, deve trovare buone ragioni per imporre le sue misure autoritarie. Per farlo ricorre allo “stato di eccezione”, un vecchio concetto politico che indica che una parte di uno stato che non ne avrebbe diritto si appropria di poteri non suoi. Lo stato di eccezione può essere costituito dalla guerra, da epidemie, da disastri naturali, dove s’impone che la Costituzione venga messa da parte.
«Ricordiamo la costituzione della repubblica di Weimar, la più liberale d’Europa. Conteneva un articolo sullo stato di eccezione che nel 1933 permise al capo di governo Adolf Hitler di appropriarsi del potere assoluto facendo fuori gli altri partiti e poi la costituzione stessa. In Europa con la crisi delle banche, non solo americane, e grazie alle folli liberalizzazioni sono emerse le montagne di debito a cui gli istituti si sono esposti. Quando queste procedure sono cadute come castelli di carta i governi si sono dissanguati per salvare le banche con fiumi di denaro che hanno indebolito i bilanci pubblici degli stati. Così il debito pubblico europeo è salito in due anni dal 65% all’85% e i governi hanno inventato uno stato di eccezione, quello della spesa eccessiva per la protezione sociale. Si è speso troppo? Bisogna tagliare i bilanci pubblici. Così s’impongono misure sempre più dittatoriali».
Secondo lei ci sono le condizioni per constrastare ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista?
«Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale, ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla 28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei partiti al governo. Hanno il 95% della stampa a favore, il 99% delle tv, dominano nelle università, e hanno conquistato i governi. Sono piuttosto difficili oggi da sconfiggere. La sinistra come forza partitica poi non esiste più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia paragonabile a quello all’attacco vincente dei neoliberisti. Inoltre non ci sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale, qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili. Possono esserci milioni di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista, per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?»
Le vecchie categorie di pensiero del Novecento non bastano più per comprendere la realtà politica attuale?
«No, ce ne sono alcune che funzionano ancora bene. Il fatto è che non basta dire “proletari della UE unitevi”, o cambiando forma dire ‘precari’ o ‘classi medie impoverite della UE unitevi’. Qui bisogna fornire idee, documenti, possibilità di azione e controreazione. Possono esserci milioni di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista, per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?»
C’è chi indica il salvataggio nell’uscita dall’euro. Oppure decondo lei si può stare dentro e modificarne in qualche modo il pensiero dominante?
«Al di là della demagogia di alcuni politici italiani, l’euro è una camicia di forza peggiore anche del ‘gold standard’. Ha giovato solo alla Germania, perfino la Francia ha perso punti nelle esportazioni e aumentato la disoccupazione. Così com’è l’euro non può più funzionare.
«Sia chiaro che uscire dall’oggi al domani non si può, sarebbe un disastro per i depositi bancari, la fuga dei capitali, la forte svalutazione della moneta sul mercato internazionale. Ma bisognerà affrontare presto la questione del “se e come uscirne”, perché ciò vuol dire molti mesi di preparazione; oppure possiamo tentare di temperare questa uscita in qualche modo: affiancare all’euro una moneta parallela che permetta ai governi di avere libertà di bilancio, mentre con gli euro si continua a sottostare al giogo dei creditori internazionali. Purtroppo con la Germania al comando e l’inanità del nostro e degli altri governi non c’è molto da sperare. Intanto i muri della Ue scricchiolano e prima o poi sarà il peggioramento della crisi a imporci decisioni drastiche. Sempre che non arrivi Herr Schäuble a dirci che non ci vuole più nell’euro. Non è una battuta, stando ai documenti che circolano».

venerdì 25 settembre 2015

Il Bavaglio che asfissia la giustizia

L’oltraggio all’etica giurisprudenziale. L’affronto all’egualitarismo. L’iniziazione della P3. Qualsiasi titolo si tenti di adottare, sarebbe pacato. E posato. La ristrettezza di previsione delle stanze del potere capitolino, meriterebbe che una pioggia di improperi la sommerga. Trainando con sé la folta orda di felloni incravattati che deliberatamente (ed impunemente) attentano alla democrazia e la stuprano, sin quando non perisca esausta, e degeneri in folate autoritarie. I toni moderati sarebbero un’inconscia accettazione di una svolta totalitaria. Perché la Camera ha appunto sancito quanto premesso: la scrostatura definitiva della restante credibilità politico-istituzionale della Roma palazzinara. Con annessa intimidazione alla legalità. Probabilmente, qualcuno dovrebbe spiegare a Matteo Renzi che riformare la giustizia prevederebbe ben altro approccio.
Joseph de Maistre potrebbe essere un sontuoso alleato. “La spada della giustizia non ha fodero”. Le stilettate della sua lama sono la vitalità della morale. Un brio dirompente che la mattinata parlamentare di ieri ha deciso di sedare, senza concessione di alternativa. Approvando la Legge Bavaglio, Montecitorio mette in mora la critica della cronaca, la vivacità del raziocino, e l’equilibrio della coscienza. I luminosi pulsanti verdi degli scranni dei deputati hanno smontato i cardini del giusto, inappuntabile principio di solidità sociale. L’ostruzionismo perpetuato ai giudici e lo smantellamento delle intercettazioni, si avvinghiano all’attenuante della salvaguardia della privata sfera personale. Ma non riescono a nascondere il loro effettivo scopo.
Perseguire penalmente il giornalismo d’inchiesta ed inibire l’attività dei tribunali, per la semplice ragione che un’intercettazione sia scomoda e leda il potente di giornata, è la letale concretizzazione dell’infida malafede del vecchio che si cela alla spalle della maliziosa laboriosità del nuovo. Non c’era riuscito Berlusconi, e nemmeno l’inqualificabile sudditanza a lui prostrata, fra assoldati dipendenti di partito, turiferari poltronisti, e spregevoli scribacchini. Ci riesce Renzi, nella più intollerabile delle manovre di regime: inibire l’operato giudiziario, intralciando la magistratura, e macchiando la trasparenza di un’indagine. Un cortocircuito politico potenzialmente esplosivo, condito di omertà e di occultismo, dal retrogusto dittatoriale e massonico. Pidduisti alla riscossa

giovedì 24 settembre 2015

Povertà e ricatto sociale

Secondo l’Istat sono 4 milioni gli italiani in condizione di povertà assoluta, il 6,8% della popolazione. Ma accanto alla povertà assoluta esiste quella relativa, cioè calcolata in rapporto al reddito medio pro capite. La povertà relativa coinvolge il 13% degli italiani, quasi 8 milioni. Accanto ad essi poi ci sono quelli a rischio. Sempre secondo l’Istat il 28,4% è a rischio di povertà.
La povertà oggi non riguarda soltanto i diretti interessati. Proietta la sua ombra inquietante anche su persone e famiglie che fino ad alcuni anni fa se ne sentivano immuni. In una realtà “agiata” come quella italiana, non cessa di far sentire la sua presenza minacciosa. Eppure è sempre più oscurata dalla rappresentazione pubblica della società italiana. Non compare esplicitamente nei discorsi, se non come un fatto lontano, che interessa unicamente paesi sottosviluppati e pochi disagiati. Il senso di precarietà ormai è diventato una condizione endemica e stritola i ceti medi dei paesi occidentali. Accanto ad essa, la povertà si profila come una eventualità per molti non più tanto remota. La presenza della povertà, per coloro i quali non la sperimentano empiricamente, è avvertita come incombenza psicologica e ricatto sociale cui non è possibile sottrarsi.
Nelle moderne società occidentali il capitalismo ha tolto qualsiasi sicurezza alle classi medie. Nessuna certezza, nessun punto fermo. Anche le ultime garanzie giuridiche sono state ormai abolite e qualunque lavoratore è esposto al ricatto padronale; il “posto fisso” è abolito. Esso, nei discorsi dei politici e degli intellettuali più accreditati, è considerato un retaggio del passato, un ostacolo allo sviluppo dei mercati e dell’economia “I giovani devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita” aveva detto Mario Monti in una trasmissione televisiva. Ma non esiste nessuna crescita, nelle società capitalistiche occidentali contemporanee, se non per i profitti degli oligarchi e i guadagni delle élite economiche. Il terreno è venuto a mancare sotto i piedi dell’individuo del Terzo Millennio: tutto dipende dai mercati e come logica conseguenza nulla può essere garantito con certezza. I finanziamenti pubblici alle cure mediche, all’istruzione, allo Stato Sociale, devono essere ridotti per andare incontro alle esigenze dei mercati, ovvero alle classi capitalistiche che reclamano sempre nuovi e più ingenti profitti.
Lo spettro della povertà compare sullo sfondo dei proclami dei governi e dei media, sul tasso di crescita che si alzerebbe, ogni anno, secondo le più ottimistiche previsioni, di un mirabolante 1%. La povertà viene rimossa dai discorsi, ma rimane come arma di ricatto che usano le élite, per mezzo dei loro referenti politici, per imporre leggi a loro favorevoli. Anche forse “progressiste” si fanno portavoce delle politiche restauratrici e liberiste. Il sottinteso di questi programmi è che la povertà non può essere cancellata, ma soltanto, temporaneamente, lenita. Essa diventa uno strumento per il dominio sociale.
Mentre nei decenni passati il capitalismo propagandava l’illusione che esso potesse eliminare la povertà, pur in presenza di forti squilibri nella distribuzione della ricchezza, diffondendo l’entusiasmo nella “ricerca della felicità”, ovvero la fiducia nel miglioramento delle condizioni di vita personali, l’ottimismo riguardo a un futuro migliore, oggi guarda perfino con disprezzo a ogni ingenua speranza. Non c’ è utopia possibile. L’unica ideologia ammessa è quella del disincanto. Nessun governo occidentale si propone lo scopo (nemmeno sul piano puramente retorico) di abolire la povertà, come di eliminare la disoccupazione. Il disagio sociale, la carenza, sono dati ineliminabili nella società dell’opulenza. Ma questo disincanto, che coglie un elemento di verità, viene giustificato con una nuova menzogna: la povertà non riguarda soltanto una data organizzazione sociale, ma è un fenomeno costitutivo e ineliminabile della storia umana. Il capitalismo non è (non più) il migliore dei mondi possibili, ma l’unico possibile. Al di fuori di esso non vi è nulla di umanamente concepibile. La società attuale deve essere considerata un dato di fatto immutabile e non c’è bisogno che si riconosca buona, perché è senza alternativa. E allora la povertà cessa di diventare un problema per le oligarchie al potere; crollato il socialismo, e l’esperienza di una forma diversa e più giusta di organizzazione sociale, i governi non sono più impegnati nel rendere il capitalismo più appetibile. C’è solo una gestione dei desideri individuali che spetta al mercato, che genera l’impulso al consumo disperato, emarginando nel contempo chi non può o non vuole lasciarsi sedurre. Alla politica rimane la semplice retorica, convincere la popolazione che “There is no alternative” come recitava lo slogan della campagna elettorale di Margaret Thatcher, non c’è alternativa, piaccia o non piaccia. Persino coloro che si propongono come riformatori radicali, fanno presto a convertirsi alla retorica della gestione dell’esistente, come dimostra la parabola greca di Syriza, presto esaltata dai sempre ricettivi emuli italiani.
Ciò che è ammesso, al più, è la possibilità di alleviare gli “effetti collaterali” più duri del capitalismo odierno, attraverso una “carità di stato” che riduca le conseguenza più dannose e ingestibili del sistema, come è il caso dei cosiddetti “ammortizzatori sociali” tanto cari ai politici di centrosinistra.
La censura cede sempre più il posto all’autocensura della coscienza individuale che non trova il coraggio neanche di formulare un diverso paradigma sociale. La colonizzazione delle coscienze ha raggiunto il massimo risultato e non si è in grado di immaginare una dimensione collettiva di riscatto. Rimane soltanto la speranza (per chi è ancora possibile) di miglioramenti individuali, ma anche questi sembrano sempre più lontani e hanno smesso di appassionare fette sempre crescenti di popolazione, che non coltiva altro ormai che la rassegnazione e l’oppio della soddisfazione disordinata di pulsioni indotte.

mercoledì 23 settembre 2015

Oltre il Colosseo

“Se davvero il patrimonio rappresenta un servizio pubblico essenziale, secondo le indicazioni del governo, contenute nel decreto approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri, è opportuno definire le caratteristiche di questo servizio” dice Tomaso Montanari, storico dell’arte, curatore del libro “Rottama Italia” di Altreconomia edizioni, editorialista del quotidiano la Repubblica.
Nel fine settimana i media hanno vivisezionato le ragioni dell’apertura ritardata del Colosseo, venerdì scorso, per permettere ai custodi di partecipare a un’assemblea sindacale, hanno dato voce ai turisti indignati rimasti per tre ore in attesa di fronte ai cancelli del monumento; e hanno preso per un dato di fatto la decisione di disciplinare l’apertura di “musei e luoghi di cultura” (così il comunicato stampa del governo, al termine del consiglio dei ministri) con la legge 146 del 1990 sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Ci si è concentrati sulla forma, ma non c’è stato il tempo (il decreto deve ancora essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) per studiare le “conseguenze” di una inclusione dei musei tra i servizi pubblici essenziali. Abbiamo chiesto a Montanari di farlo: “Dobbiamo considerare innanzitutto la categoria dell’accessibilità, che decliniamo in vario modo. C’è, intanto, quella materiale: il patrimonio dev’essere aperto, con orari definiti e certi; tanto nelle biblioteca quando nei musei, nelle chiese e nel patrimonio diffuso. Questa ‘certezza’, però, non sempre oggi è reale: e a far sì che questo ‘diritto’ sia limitato è la povertà di mezzi e di personale.
Viene poi -continua Montanari- l’accessibilità in senso sociale: se è vero che canone di pagamento delle prestazioni sanitarie dipende dal reddito, certo con mille problemi ed inefficienza, allora lo stesso criterio potrebbe essere applicato al patrimonio.
Credo però che come si entra gratis in biblioteca si potrebbe entrar gratis nei musei, il che eliminerebbe anche alla radice buona parte dei problemi legati alla privatizzazione dei servizi accessori, come biglietteria e book shop.
La sostenibilità economica di una opzione del genere riguarda le scelte dell’esecutivo e la legge di Stabilità: il patrimonio culturale dev’essere sostenuto, e invece è definanziato criminalmente da decenni. Se il patrimonio è un servizio pubblico essenziale, perché l’Italia dedica al ministero dei Beni culturali appena lo 0,6% del PIL? Le nostre tasse devono andare a sostenerlo” dice Montanari, che punta infine l’accento sul tema dell’accessibilità culturale, “che è quella a cui tengo di più: qual è l’apparato didattico dei nostri musei? Il patrimonio è parte di un progetto di ‘inclusione’, che passa attraverso un’alfabetizzazione? No, non esiste alcun progetto in questa direzione”.
La precondizione per fare del patrimonio un servizio pubblico essenziale è però che il patrimonio esista, aggiunge lo storico dell’Arte fiorentino, che insegna all’Università di Napoli: “È crollato il tetto della Chiesta di San Francesco, a Pisa (la scoperta è avvenuta il giorno 17 settembre, ndr), ma non ho letto un Tweet del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, per affermare che ‘la misura è colma’, com’è avvenuto a seguito dello sciopero annunciato dei custodi del Colosseo”.
Dire che la fruizione del patrimonio rappresenti un servizio pubblico essenziale ha poi una connotazione ulteriore se vista dal punto di vista del ricercatore, dello studioso: Se una biblioteca chiude, per carenza di personale, o non garantisce tempi adeguati per la ‘presa’ dei libri (il servizio di prestito, ndr), potrò far causa al ministero dei Beni culturali, come faccio oggi se non vengo curato in modo adeguato in un ospedale?” si chiede Montanari.
E non è un esempio lontano dalla realtà: in un post sul suo blog dedicato all'articolo 9 della Costituzione sul sito di Repubblica, Montanari ha pubblicato due foto recenti, “cartelli" apparsi sulle porte della Biblioteca nazionale centrale di Firenze (la più importante d'Italia) e dell'Archivio di Stato di Roma, che evidenziano l'impossibilità di rispettare gli orari di apertura al pubblico. “Questo è il punto. Le biblioteche chiudono e gli archivi sono memoria del passato e laboratorio di futuro. Chiuderle è come chiudere le arterie che portano sangue al cervello della nazione -dice Montanari-. Ma Franceschini non urla, non chiede decreti d’urgenza, non twitta. Perché? Perché il colpevole è lui. E dunque via con l’ennesima arma di distrazione di massa, la caccia alla strega sindacale”.
Perché l'indignazione del ministro dei Beni culturali è alta solo quando il monumento non fruibile è un blockbuster, come Pompei e il Colosseo? Che idea prevale nella gestione del patrimonio? Conta solo il "danno d'immagine" verso i turisti, o c'è anche un comunità scientifica che critica il rapporto tra l'Italia e i suoi monumenti, musei, beni storici, archeologici ed architettonici?
“Non è mai passata l’idea costituzionale che il diritto al patrimonio sia un diritto essenziale della persona, e che esso serva ad attuare l’articolo 3 (uguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana). Franceschini parla di servizio essenziale, ma intende dire ‘show must go on’. Il patrimonio entra nella narrazione renziana solo con riferimento a quella decina di musei e monumenti redditizi. Stiamo davvero toccando il fondo, sul piano culturale e civile. Dire, come fa Franceschini, che questo grottesco decreto d’urgenza applica l’articolo 9 fa rivoltare nella tomba i nostri costituenti. L’idea che la Costituzione si applica mettendo un diritto contro l’altro è pura barbarie.
La cultura (e non solo il turismo blockbuster, che ne è solo una parte: e non la più feconda sul piano civile) è davvero un servizio essenziale, ma non è negato da qualche assemblea sindacale bensì dalla politica bipartisan dei governi degli ultimi 30 anni. Il patrimonio culturale è chiuso per alto tradimento della classe politica”.

martedì 22 settembre 2015

Il trionfo di Putin alle amministrative e lo smacco dell’Occidente

Le elezioni amministrative in Russia – regionali e locali – del settembre 2015 sono state importanti per almeno due ragioni: la prima, di ordine interno, riguardava lo sviluppo del sistema elettivo russo dopo la riforma di semplificazione sulle norme di registrazione dei partiti dell’anno 2012; la seconda, con ripercussioni sulla politica estera della Federazione, concerneva la prima verifica popolare circa l’operato del partito del presidente Putin dall’inizio della crisi ucraina. I risultati non hanno deluso.
“Russia Unita”, compagine di governo, ha ripetuto i successi degli ultimi anni, confermando tutti i governatori uscenti con una sola, ma significativa eccezione, nel governatorato di Irkutsk, dove il candidato del presidente, Eroščenko, andrà al ballotaggio con il comunista Levčenko. Il Partito Comunista Russo si mantiene, quindi, come unica alternativa di valore a Russia Unita, se consideriamo che né i nazional-liberali di Žirinosvkij, tradizionalmente il terzo partito del Paese, né gli altri e più noti partiti di opposizione liberale e filooccidentale – riuniti nella Coalizione Democratica facente capo al “nuovo” Parnas – hanno ottenuto accrescimenti anche minimi. L’incremento delle registrazioni dei vari movimenti alle liste politiche non ha portato alla confusione che gli allarmisti profetizzavano su una proliferazione dei piccoli partiti che avrebbe favorito il governo a detrimento delle opposizioni più importanti. Questo buon risultato è stato ammesso anche da Mitrochin e Ryžkov, segretari rispettivamente di Jabloko e Parnas, non esattamente dei fanatici putiniani, che hanno descritto la riforma elettorale come un enorme conquista da parte del movimento di protesta, pur criticandone diverse sfaccettature. I suddetti partiti liberali non hanno comunque rovesciato i rapporti di forza, se complessivamente il gradimento di Russia Unita supera il 70% in tutta la Russia mentre la Coalizione Democratica ha raggiunto l’1% nell’unica regione in cui era presente. Con il vicepresidente della Duma Isaiev a soffermarsi sulla “aumentata concorrenza tra le varie forze politiche” e il premier Medvedev che definisce la chiamata alle urne “un buon risultato”1, alla seconda prova dopo la riforma delle liste possiamo dire che il sistema politico russo non è mai stato così in salute.
Si dica pure che il presidente Putin ha superato brillantemente le durissime prove dell’ultimo biennio. L’approvazione elettorale certifica l’appoggio completo alle politiche del governo sui temi caldi del sostegno alle popolazioni del Donbass e alla Siria, ma dimostra anche il fallimento politico delle sanzioni europee. Da segnalare come anche in Crimea, promossa a nuovo “soggetto federale” dopo il ritorno nel 2014 alla madrepatria, si siano tenute le elezioni, concluse con la vittoria, ancora una volta, di Russia Unita.
Ma vi è pure altro su cui riflettere.
Se i russi sono soddisfatti, gli occidentali lo sono molto meno: i leader «democratici, aperti e civili» su cui puntavano moltissimo per indebolire Putin e poter corrompere e paralizzare la Russia dall’interno, hanno fatto un fiasco clamoroso. La bassissima percentuale di voti ottenuti indica chiaramente che non sono riusciti a fare presa su nessun segmento elettorale.
Il piano Brzezinski-Wolfowitz, per disgregare la Russia e relegarla a un ruolo di secondo piano, subalterno alla superpotenza americana, tagliandola fuori dall’Ucraina e dal Mediterraneo e spezzettandola in tanti stati governati da gente corrotta (e quindi manipolabile) non verrà certo messo da parte, ma ha appena subito l’ennesima battuta d’arresto, dopo quelle in Ucraina e in Siria (l’ultima di questi giorni).
A proposito di battute d’arresto e di Siria, notiamo l’indecisione statunitense, o meglio: l’esplosione del conflitto tra fazioni (e strategie diverse) all’interno dell’establishment americano. Alcuni non fanno altro che ripetere che Assad se ne deve andare. Altri temono di più l’ISIS o comunque chiunque verrà dopo Assad. Così a bombardamenti evanescenti ai «danni» (si fa pe dire) dell’ISIS si alternano richieste e minacce, via via in tono sempre più isterico, affinché Assad se ne vada.
«Gli Stati Uniti non vogliono più che cada il governo del presidente siriano Bashar al-Assad. Lo ha detto il rappresentante permanente russo all’Onu Vitali Ciurkin in un’intervista alla Cbs ripresa dall’agenzia Tass. Secondo Ciurkin, «il governo americano ora è molto preoccupato che il governo di Assad cada, l’Isis prenda Damasco e gli Usa siano incolpati di ciò2.»
In questo gioco, si è ben inserita la Russia, che ha intensificato gli aiuti alla Siria, proprio quando si era (di nuovo) rafforzato il partito della guerra ad Assad. Putin ha più volte rifiutato offerte/ordini da parte americana di mollare Assad, asserendo che «solo i siriani possono decidere il proprio destino.»3 Gli annunci e le mosse russe hanno gettato nel panico gli occidentali, anche perché molto è stato speso per rendere l’ISIS una macchina efficiente e un pesante intervento russo poteva causarne la fine. Ecco, allora, le altrimenti incomprensibili minacce occidentali, rivolte ai russi, di astenersi da ogni operazione che non sia puramente difensiva. Tuttavia, queste affermazioni si sono rivelate un boomerang mediatico ai danni degli americani, dato che diverse persone, anche inserite nel circuito mediatico mainstream, stanno aprendo gli occhi riguardo il ruolo statunitense nella vicenda. E questo non può che aumentare la paura che gli americani nutrono nei confronti di Putin; paura che inevitabilmente si trasforma in odio, non riuscendo a sbarazzarsi di lui: Machiavelli insegna che si può odiare solo chi ci è superiore.
Da qui i rinnovati attacchi contro Putin, che una parte dell’opinione pubblica occidentale, sempre più minoritaria, vede come un dittatore sanguinario che fa ammazzare giornalisti, oppositori e gay. Proprio sulla vicenda dei gay, si è inserito l’ennesimo saltimbanco dell’Occidente, Elton John. Il «cantante», in verità meno noto per il talento musicale che per le proprie inclinazioni (fra le altre cose, ha la passione per l’acquisto di bambini) ha insultato Putin dicendo che le sue idee sui gay sono un mucchio di stupidaggini, e pretendendo (sic!) un confronto pubblico.
E qui facciamo un attimo una pausa. La legge «antigay» che in tanti condannano senza (volerla) conoscere, si limita a punire la propaganda sessuale (quindi anche etero) in presenza di bambini.
Gli “occidentali” usano queste tematiche come arma contro i Paesi in cui vogliono un «regime change» e in tutti quelli già sottomessi o da sottomettere completamente. Le ragioni sono semplici: si batte il tasto sulle libertà occidentali, associandole astutamente a immagini di benessere e di felicità. Si contrappone il tutto al «grigiore, conservatorismo, fascismo, nazismo, stalinismo, o altro» dei governanti. Poi si presentano gli USA ed, eventualmente, l’adesione alla UE, come unico baluardo della libertà (che viene tradotta dai media con: tu diventerai ricco, libero e felice) mentre qualunque movimento patriottico (non sciovinista, che questi invece sono utili sopratutto nell’est europeo) finirà per scontrarsi contro tale propaganda, quindi verrà additato come colui che vuole negare benessere e libertà ai connazionali. Il tutto, rafforzato da ossessive campagne mediatiche. Lo abbiamo visto nelle varie rivoluzioni colorate, ma anche nei paesi sottomessi, come l’Italia.
Lo scopo è anche quello di ridurre le persone a meri atomi individuali, la cui unica qualità sia il consumo, indebolendole, logorandole psichicamente con l’esigenza di non offendere certe lobbies col proprio linguaggio o con le proprie azioni.
Una prova di tutto ciò, è che di solito quegli attivisti che si occupano delle libertà individuali di certi popoli non hanno mai neppure provato a scatenare proteste nei paesi arabi “medievaleggianti” ma in buoni rapporti con gli USA (Arabia Saudita, Qatar etc).
Quindi Putin è la Grande Bestia, almeno per chi sperava di poter continuare a sfruttare la Russia come un bordello a cielo aperto, dopo che Eltsin aveva gettato il proprio Paese in pasto ai cani. Ma Putin guadagna consensi anche grazie all’opposizione fattagli dagli occidentali, ed è questa la cosa che più rende isterici gli americani e i loro vassalli: la «gioiosa macchina da guerra» mediatica, che permette agli USA di cambiare a piacimento i governi di mezzo mondo, non solo non è riuscita nel proprio intento dentro la Russia, ma non è neanche servita a isolarla diplomaticamente. Questo, nonostante gli USA abbiano «accorciato il guinzaglio» ai governanti europei, per costringerli a osteggiare Mosca. Il permanere al potere di Putin e, di riflesso, di Assad, rappresentano una aperta sfida al dogma del «nuovo secolo americano» dell’America quale «unico Paese indispensabile4.» E, tuttavia, il paradosso è che ora le altre opzioni sono tutte peggiori per gli stessi americani!
«“..In privato, mi dicono, il presidente Obama ha accettato – e forse ha anche incoraggiato – l’accresciuto sostegno di Putin al regime di Assad, avendo capito che è la sola speranza di scongiurare una vittoria degli estremisti sunniti. Ma in pubblico, Obama sente che non può far propria questa posizione razionale”.
La stupefacente asserzione qui sopra è una citazione di Robert Parry, uno dei più grandi giornalisti investigativi americani, con ottime entrature nel sistema di potere americano, specie oggi nella Casa Bianca

lunedì 21 settembre 2015

Torna l’allarme bavaglio, a rischio pubblicazione intercettazioni

Ritorna l’allarme bavaglio all’informazione. Ci aveva provato Berlusconi durante i suoi governi a censurare la stampa, ora con il nuovo ddl sulla riforma penale, presentato oggi alla Camera, sembra concretizzarsi il rischio. A lanciare l’allarme è il M5S, che nella giornata di ieri ha tenuto una conferenza stampa con Giulia Sarti (membro della Commisione Giustizia e della Commissione Antimafia, ndr) e Vittorio Ferraresi (Capogruppo Commissione Giustizia) per denunciare i rischi che questo disegno di legge porta con sè.
E così questo pomeriggio è iniziato l’iter per la nuova legge sulla riforma penale che la maggioranza vuole approvare interamente in prima lettura entro giovedì. Il M5S ieri ha dichiarato che inizieranno una decisa opposizione. “E’ una delle più importanti battaglie che abbiamo condotto in commissione giustizia in questa legislatura - ha detto la Sarti - Purtroppo noi M5S per esporre tutti i nostri emendamenti (300, ndr) avremmo solo un’ora e 11 minuti”. Per questo l’opposizione, ha spiegato la deputata M5S, continuerà forte al Senato.
Il grande rischio per l’informazione contenuto nel nuovo ddl riguarda i criteri di pubblicazione delle intercettazioni. In molti casi strumento essenziale per permettere alla cittadinanza di costruirsi un’opinione sul contesto sociale e politico. La delega al governo, contenuta nel ddl, per riscrivere le norme sulla pubblicazione delle intercettazioni, è molto generica. Dieci righe che “danno la possibilità di scrivere una legge di proprio pugno senza nessun criterio” ha denunciato Giulia Sarti. In effetti, una volta concesso la possibilità di scrivere un decreto legislativo al governo, la Camera e il Senato possono esprimere il loro parere a riguardo ma le loro indicazioni non sono vincolanti per il governo. Per questo un passaggio molto delicato è la stesura dei criteri di delega. In questo caso i criteri scritti in poche righe indicano in maniera vaga che “si prevede una revisione della disciplina delle intercettazioni telefoniche o telematiche che possa assicurare una maggiore tutela dei diritti alla riservatezza”. Nello specifico “si tratta di mettere a punto delle regole che assicurino un’anticipata selezione del materiale derivante da intercettazione da utilizzare anche in fase cautelare”. In altre parole significa determinare come “filtrare” le intercettazioni che potranno essere pubblicate o meno. Quindi cercare di impedire la pubblicazione di ascolti non rilevanti ai fini del processo.
“Se i giornalisti non potranno più pubblicare intercettazioni penalmente rilevanti il rischio è che i cittadini non potranno conoscere più i rapporti che intercorrono spesso tra esponenti politici e personaggi poco trasparenti” ha spiegato alla conferenza stampa ieri Giulia Sarti. E’ il caso ad esempio di un’ intercettazione dell’86 che dimostra l’amicizia tra il boss mafioso Gaetano Cinà (deceduto, ndr) e Alberto Dell'Utri (gemello di Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia ora in carcere per concorso esterno in ass. mafiosa, ndr), conoscente di Alessandra Moretti, europarlamentare del Pd. “E’ importante - ha aggiunto la deputata del M5S - conoscere e sapere i rapporti che hanno personaggi come Alberto Dell’Utri con la criminalità organizzata”. Inoltre una norma in questi termini, secondo il deputato Ferraresi, potrebbe anche favorire ricatti da parte dei pochi che avrebbero conoscenza del contenuto delle intercettazioni.
Altro punto critico del disegno di legge è l’ “emendamento Pagano” che dopo le ultime modifiche prevede la punizione con reclusione da 6 mesi a 4 anni per chi diffonde riprese o registrazioni effettuate di nascosto, escluse le registrazioni ai fini di diritto di cronaca e uso processuale. Di conseguenza un qualsiasi commerciante che decida di registrare il proprio estorsore si deve guardare bene dal farlo perché se la registrazione non da luogo ad un processo potrebbe rischiare la reclusione.
Questo ddl sta facendo discutere in vari ambienti. Se da una parte alcuni magistrati, tra cui il procuratore capo di Palermo Franco Lo Voi, si sono detti d’accordo con la limitazione delle pubblicazioni delle intercettazioni, altri togati assieme alla stragrande maggioranza della stampa si sono schierati completamente contro. Fondamentale quindi sarà chi comporrà la commissione ministeriale delegata dal governo a ridefinire le norme sulle intercettazioni.

domenica 20 settembre 2015

L’attentato di Berlino e tutti i conti che non tornano

Ennesimo attentato nel cuore dell’Europa e ancora una volta a causa di un flop dei meccanismi di monitoraggio nei confronti di soggetti ben noti all’intelligence; misure che dovrebbero servire a prevenire gli attacchi, ma a quanto pare così non è stato. Il caso dell’aggressione di giovedì a una pattuglia di polizia a Berlino ha però delle dinamiche ancor più assurde, in primis per la condizione del soggetto in questione, l’iracheno Rafik Youssef, che era allo stesso tempo “terrorista” e “rifugiato politico”; in secondo luogo perché non era un esaltato qualunque, ma un ex membro di un gruppo qaedista iracheno con alle spalle una lunga lista di accuse; in terzo luogo perché invece di scontare la pena alla quale era stato condannato nel 2008, era stato rilasciato con la condizionale nonostante fosse un soggetto socialmente pericoloso; inoltre perché Rafik non ha avuto alcun problema a togliersi il braccialetto elettronico prima di scendere in strada armato di coltello.
Andiamo con ordine partendo dal fatto:
Nella mattinata di giovedì 17 settembre la polizia berlinese riceve numerose telefonate per segnalare la presenza, nel quartiere di Spandau, di un “pazzo armato di coltello”, un uomo alto e magrissimo, capelli scuri e barba, che si aggira per la zona minacciando i passanti. All’arrivo delle prime auto della polizia, sul posto segnalato, l’uomo si scaglia contro una poliziotta e le infila il coltello vicino alla clavicola, l’altro agente apre il fuoco e scarica diversi colpi contro il terrorista che morirà poco dopo durante il trasporto in ospedale. L’agente donna è stata operata d’urgenza ed è ora fuori pericolo. Fin qui nulla di particolarmente insolito, un’aggressione da parte di un pazzo esaltato? E invece no, perché Rafik Mohammed Youssef (41) era molto di più, era un ex membro del gruppo estremista sunnita Ansar al-Islam, nato nel 2001 nel nord dell’Iraq e responsabile di decine di attacchi suicidi, tra cui quello all’interno della mensa di una base militare americana a Mosul, il 21 dicembre 2004, che causò la morte di 14 soldati statunitensi. Ansar al-Islam aveva però una particolare predilezione per gli attentati contro partiti e istituzioni curde, con attacchi suicidi contro le sedi dell’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) e contro obiettivi governativi iracheni. In aggiunta, il 29 agosto 2014, una cinquantina di comandanti dell’organizzazione avevano giurato fedeltà all’ISIS, mentre altri esponenti rigettavano l’alleanza, restando di fatto legati ai qaedisti.
Rafik Youssef era stato arrestato nel 2004 dalla polizia tedesca mentre stava pianificando un attentato a Berlino dell’allora premier iracheno Iyad Allawi e fondatore del partito sciita INA (Iraqi National Accord), in visita ufficiale in Germania. Youssef era infatti un acerrimo nemico dei curdi e degli sciiti, un elemento su cui riflettere, considerando anche lo scenario mediorientale dei primi anni del 2000, con indipendentisti curdi che venivano bollati dall’occidente come terroristi e l’Iran come “stato canaglia”. Assieme a Youssef vennero arrestati anche Ata Abdulaziz Rashid e Mazen Ali Hussein, tutti membri di Ansar al-Islam. Youssef nel 2008, dopo un lungo processo, era stato condannato a 8 anni di carcere per poi venire rilasciato con la condizionale nel 2013, con obbligo di portare il braccialetto elettronico e il divieto di contattare altri membri di Ansar al-Islam. Sarebbe interessante sapere il motivo per cui Youssef è stato rilasciato, magari per buona condotta? Assolutamente no. Il magistrato Rebsam-Bender lo ricorda bene come “personalità complessa, difficile” e come uomo “irascibile e incapace di controllarsi”. Nel 2013 Youssef si era distinto per alcuni comportamenti aggressivi, tra cui delle ingiurie a degli agenti di polizia e ad un magistrato. Insomma, non certo il candidato ideale per una “condizionale”, visti i precedenti e il profilo psicologico.
Rafik Mohammed Youssef non poteva neanche essere rimpatriato in quanto “rifugiato politico”; se fosse tornato in Iraq sarebbe stato condannato alla pena di morte. Insomma, terrorista o “perseguitato politico”? A giudicare dal “curriculum vitae” del soggetto in questione, è un po’ difficile farlo passare per “rifugiato politico”, anche perché se così fosse, allora in Europa potrebbero tranquillamente entrare centinaia di jihadisti lamentando “persecuzione” da parte dei cattivoni di turno a casa propria e non è detto che non sia già successo e non stia succedendo oggi, magari sfruttando il flusso di “profughi” da est. In passato jihadisti e predicatori dell’odio del calibro di Abu Qatada e Anwar Shabaan trovarono asilo rispettivamente in Gran Bretagna e Italia in quanto, se rimpatriati, avrebbero rischiato la pena di morte. Curiosamente però le stesse regole non valsero per Abdullah Ocalan, leader del PKK, frettolosamente cacciato dall’Europa per essere poi attirato in un tranello in Kenya, dove venne arrestato dai turchi. Altro fatto interessante, Rafik Youssef era considerato pericoloso, sorvegliato dai servizi di sicurezza e soggetto sul quale la polizia emetteva rapporti giornalieri, un profilo anomalo per un rilascio con condizionale. Nonostante ciò , Rafik giovedì mattina non ha riscontrato alcun problema nel togliersi il braccialetto elettronico, teoricamente non rimovibile, almeno così dovrebbe essere, per poi riversarsi in strada armato di coltello. Una storia che vacilla dall’inizio alla fine e che sembra quasi la scena di uno di quei film d’azione dove accade l’impossibile e l’improbabile, ma invece è la triste realtà e se oggi non siamo qui a piangere l’ennesima vittima del terrore è proprio grazie alla prontezza di riflessi di uno dei due agenti aggrediti, che non ha esitato un momento nel compiere il suo dovere.

sabato 19 settembre 2015

Siria: «La guerra si elimina eliminando le cause»

Gli aleppini, un popolo in faticoso cammino con le taniche d’acqua a far la spola dai camioncini cisterna alle scale di casa. Gli aleppini senza elettricità che scoppiano di caldo d’estate e non sanno come scaldarsi d’inverno. Gli aleppini e in genere i siriani ormai all’80% senza lavoro remunerato a causa della guerra (ha un reddito quasi solo chi è dipendente statale). L’impossibile, rischiosa vita quotidiana dei siriani che non riescono o non vogliono lasciare quartieri e patria è descritta nelle lettere del dottor Nabil Antaki, volontario dei Maristi Blu. Antaki parla di quello che «non fa più notizia» nei quartieri ancora controllati dall’esercito nazionale ma presi di mira dall’al Qaeda siriana, Al Nusra: «Aleppo manca di acqua e gli abitanti hanno sofferto molta sete e molto caldo quest’estate. Non era a causa della siccità o dell'abbassamento del livello dell'acqua nell'Eufrate. La stazione di pompaggio esiste e non è stata distrutta. Siamo stati alla mercé di bande armate che hanno deciso di tagliarci l’acqua (con 40 gradi all'ombra) durante molte settimane». Così le autorità hanno scavato pozzi per fornire di acqua circa due milioni di persone: «Aleppo è diventata una gruviera». Il medico non si limita a riferire sulla situazione ad Aleppo e sull’impegno dei volontari locali, ma ammonisce: «Nel frattempo, fermate quella che avete scatenato in Siria e vedrete che il flusso dei profughi che vi disturba si prosciugherà perché le persone preferiscono restare a casa loro e conservare la loro dignità. Non dobbiamo dimenticare le migliaia di profughi che sono morti annegati o asfissiati. Vi siete indignati solamente quando i vostri media vi hanno mostrato l'immagine straziante del piccolo Aylan su una spiaggia turca. Bisognava farlo prima, e anche adesso, dopo questo dramma». Intanto Padre George Abou Khazen, francescano libanese, vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, è in Italia per la riunione del Pontificio consiglio Cor Unum sulla crisi siriana e irachena e parla del suo popolo.
Nell’emergenza quotidiana dei siriani, quanto e come incidono le sanzioni occidentali?
I siriani già stremati da oltre 4 anni di guerra sono puniti anche dalle sanzioni. Dobbiamo ringraziare il fatto che la Siria ha tuttora fabbriche di medicinali che funzionano, altrimenti ci mancherebbero del tutto anche quelli. Ma la penuria è totale. Per esempio non arrivano i macchinari per gli ospedali. Tanti posti di lavoro sono stati soppressi a causa della guerra peggiorata dalle sanzioni. Non si riesce a mandare il denaro agli studenti siriani all’estero con borsa di studio. Manca tutto e anche gli idrocarburi, perché i nostri pozzi sono nell’area controllata dal califfato.
I siriani che cercano di arrivare in Europa scappano soprattutto dalle zone conquistate dal califfato, ma anche dai quartieri di Aleppo. L’accoglienza è importante, ma se il paese si svuota…?
E’ proprio così. La Siria si svuota del suo popolo…Noi chiediamo, con forza, sì di accogliere chi è già arrivato da voi, ma soprattutto di aiutare chi rimane, anziché favorire le partenze. L’emorragia di cervelli e braccia è enorme. I benestanti sono già andati via anni fa, accolti anche grazie alla loro disponibilità di capitale. La classe media se ne sta andando adesso, vendono la casa e partono cercando asilo. Sono partiti in questi anni di guerra 35.000 medici, dopo aver studiato del tutto gratis. Se ne vanno tanti giovani che non vogliono rischiare la vita facendo il servizio militare di leva. Rimangono i poveri. Perché non si pensa a eliminare le cause di questo fenomeno?
Già, le cause. E’ proprio impossibile che finisca la guerra, alimentata da interventi armati occidentali diretti – come in Iraq e Libia – e indiretti - come in Siria? Un sondaggio pubblicato dal Washington Post su siriani delle 14 province del paese rivela che il 64% di loro ritiene possibili soluzioni diplomatiche, il 65% ritiene che si possa tornare a convivere e il 70% è contrario alla divisione del paese.
Certo! La pace non è mai impossibile. Anche in Libano sembrava che il conflitto sarebbe durato per sempre. E nell’operare per la pace tutti possono avere un ruolo. Ricordo che per esempio l’avvio di negoziati fra israeliani e palestinesi, decenni fa, iniziò perché il sindaco di Betlemme fu invitato in Italia e da lì iniziarono una serie di passi…anche se l’esito non è stato molto felice. Ma se la guerra va avanti, e se la Siria cade nelle mani del califfato e dei suoi cugini, se viene spezzettata in staterelli, è finita per tutto il Medioriente. Come prima cosa occorre un cessate il fuoco e un processo politico. Il governo siriano ha aperto all’opposizione ma ovviamente non si può accettare che abbiano una parte anche gli 85.000 combattenti stranieri, sostenuti dall’estero. Bisogna guardare alle cause della tragedia ed eliminarle… Grandi potenze straniere e gruppi tuttora appoggiano economicamente gruppi armati. Che sono più o meno come lo Stato islamico, come Jabath al Nusra e altri.
E allora come sconfiggere il califfato dell’Isis, che l’82% dei siriani intervistati dal suddetto sondaggio ritiene creato dagli Stati uniti e comunque dall’estero? Che cosa può fare l’Italia, che finora ha agito al traino di Usa, Arabia saudita, Qatar, Turchia, Francia e Gran Bretagna, contribuendo all’escalation?
Vanno chiusi i rubinetti! Da dove entrano le armi? E i camion e i mezzi militari fiammanti? Chi addestra e chi fa passare uomini venuti da combattere da tutto il mondo in Siria e Iraq? E chi compra il petrolio dei giacimenti che adesso sono controllati dall’Isis in Siria e Iraq? Chi compra dai terroristi i reperti archeologici iracheni e siriani, il tesoro forse più ricco al mondo? Mi chiedo poi come mai non tagliano le linee di approvvigionamento: abbiamo tutti visto nel deserto i mezzi dell’Isis incolonnati, era così difficile fermarli? E perché non tagliano le comunicazioni? E’ tutto possibile, se si vuole, con la tecnologia.. Ma forse il califfato è servito e continua a servire...
Dal punto di vista dell’aiuto materiale a chi rimane in Siria, che cosa possono fare paesi, gruppi e singole persone?
Tanto! I Fratelli Maristi, la Caritas, la Mezzaluna siriana si danno da fare con l’aiuto della popolazione, in fratellanza. Direttamente gestiamo il programma di fornitura di acqua con camioncini muniti di serbatoi, pompe e generatore. Un ospedale religioso cura gratuitamente i feriti gravi di guerra. Distribuiamo alimenti e pasti caldi. Organizziamo attività pedagogiche per i bambini e gli adolescenti. Ci piacerebbe anche «adottare una…finestra»: ovvero aiutare chi rimane a riparare in parte le case danneggiate. Così oltretutto si darebbe lavoro ad artigiani.
Monsignor Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo, presidente di Caritas Siria, è intervenuto alla conferenza stampa «Cristiani di Siria: aiutateci a rimanere» organizzata da Aiuto alla Chiesa che soffre, tenutasi a Roma il 16 settembre.
«Quando vado per strada ad Aleppo vedo miseria ovunque…i ricchi sono partiti da un pezzo, la classe media è diventata povera, i poveri si sono immiseriti. Le sanzioni alla Siria contribuiscono alla disgrazia – spiega - Conosco l’esperienza degli immigrati cristiani caldei che dall’Iraq sono arrivati in Siria. È un’esperienza di morte, di fine della presenza cristiana. Cerco quindi di far rimanere le persone qui, anche se capisco chi va via. I ragazzi scappano per non rischiare la vita con il servizio di leva. Tanti vanno via perché non si sa quando finirà la tragedia, e la povertà spinge via. Inoltre l’Occidente esercita un’attrattiva forte».
Le colpe e i colpevoli
«Aleppo si trova a 40 chilometri dal confine con la Turchia che accoglie gruppi armati, li forma, li arma; da almeno 5 punti lanciano attacchi ai nostri quartieri. Ho paura che Aleppo faccia la fine dell’irachena Mosul. Tutta questa guerra ha lo scopo di distruggere e dividere la Siria, per interessi strategici esterni e per il commercio di armi. Gli estremisti armati sono sostenuti da varie potenze sunnite. Da 5 anni aspettiamo una soluzione, ma sembra che ci sia la determinazione di continuare la guerra fino a distruggere tutto, tutto come in Iraq, come in Libia, come in Yemen».
Il rimpianto della convivenza
«Non vorremmo in Siria parlare di persecuzione, non è la nostra storia. Questa non è la Siria, sono gruppi e pensieri che arrivano dall’esterno. Cristiani e musulmani hanno sempre convissuto, superando i conflitti… ».
La pace è sempre possibile, ma…
«Una soluzione politica, negoziale è ancora possibile, i siriani sono capaci di riconciliazione».
All’Agenzia stampa Fides, monsignor Audo spiega: «Noi facciamo di tutto per difendere la pace mentre in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare una guerra infame. E' il paradosso terribile in cui ci troviamo. Non riusciamo più a capire cosa vogliono davvero

venerdì 18 settembre 2015

NATO E UE ALIMENTANO L'EMERGENZA PROFUGHI

In questi mesi di recrudescenza dell'emergenza profughi, il Sacro Occidente ha scoperto di avere un altro nemico (o un altro alibi): gli "scafisti". Lo "scafismo" rappresenta una categoria ancora incerta, ma non c'è dubbio che, con il tempo, la narrazione mediatica si arricchirà di connotazioni e di sfumature inquietanti che renderanno il nuovo nemico più familiare e riconoscibile da parte dell'opinione pubblica. Potrebbe venirne fuori un bell'ibrido mostruoso, magari un cocktail di jihadismo e mafia russa.
A questa pubblica opinione addestrata al wrestling opinionistico dei talk-show, viene offerta intanto una vasta gamma di eroi mediatici con i quali schierarsi, da una Merkel in versione umanitaria, ai "cattivi" Salvini ed Orban. Il giornalista "contor-sionista" Furio Colombo si schiera senza esitazioni con la cancelliera Merkel, che costituirebbe, secondo lui, l'ultimo barlume della politica estera europea. In realtà per parlare propriamente di politica estera non bastano i confronti con la commissaria europea Mogherini, al paragone della quale qualunque figura rischia di giganteggiare. Occorrerebbe qualche passetto in più.
In tutta la rappresentazione della guerra allo "scafismo", la Merkel può permettersi di recitare la parte del personaggio nobile, mentre a Renzi si riserva il ruolo del deficiente, poiché è ovvio che non si può dare la caccia agli scafisti senza mettere a rischio la vita dei profughi. Ma la Germania non sta nel Mediterraneo a ridosso delle coste africane, e non è neppure un Paese di frontiera come l'Ungheria e la Serbia. La geografia consente oggi alla Merkel di far bella figura, prendendosi comodamente anche un milione di profughi siriani, che potranno essere degli ottimi lavoratori sottopagati, dato che la Siria ha sempre speso molto in istruzione e qualificazione professionale.
Anche senza fare della dietrologia, ma attenendosi rigorosamente alle notizie di fonte ufficiale, si comprende immediatamente che qualcosa non torna in questa "emergenza" profughi. Un problema come l'immigrazione di massa potrebbe anche non avere soluzioni, ma la buona fede dei governi europei può essere comunque misurata in base alla loro volontà di circoscrivere il problema e di ricondurlo a numeri più gestibili. Ed è proprio questa volontà che manca. Semmai si può scorgere la volontà contraria. Se si va a scorrere infatti l'infinita lista ufficiale dei Paesi sottoposti a sanzioni da parte dell'Unione Europea, alla lettera elle si scopre che ad essere oggetto di un rigoroso embargo sulle armi c'è ancora la Libia del governo "laico" di Tobruk in guerra con le milizie jihadiste.
In base alle notizie di stampa si scopre anche che le milizie jihadiste beneficiano invece di regolari forniture di armi da parte della Turchia. E, sino a prova contraria, la Turchia fa parte della NATO. La questione delle forniture di armi alle milizie jihadiste non solo ha determinato tensioni tra il governo di Tobruk e la Turchia, ma comporta una situazione di scontro diplomatico tra la stessa Turchia ed il governo egiziano di Al-Sisi, che pure dall'UE viene indicato come un punto di riferimento irrinunciabile per la lotta al terrorismo.
Se l'UE volesse dimostrare di fare appena sul serio nella lotta alla partenza di barconi dalle coste libiche, le basterebbe togliere l'embargo al governo di Tobruk e muovere una protesta diplomatica presso il governo di Ankara. Ma, con tutta probabilità, le direttive della NATO sono ben diverse.
Sta di fatto che a gestire tutta l'operazione mediatica del bimbo siriano morto sulla spiaggia è stata proprio la stampa turca, quindi la versione ufficiale che è stata imposta sull'emergenza profughi viene confezionata dal governo di un Paese NATO non aderente alla UE; ed il governo turco è coinvolto nell'appoggio sia ai jihadisti della Libia che a quelli della Siria. Allora, di che cavolo parla Furio Colombo?
Ma c'è anche di peggio, come i cannoneggiamenti ed i bombardamenti aerei che gli Israeliani riservano alle truppe di Assad ogni volta che queste cercano di stanare le milizie jihadiste dal confine del Golan. Non si tratta proprio di milizie dell'ISIS, ma comunque di un'organizzazione affine, Al Nusra. Non risulta però che nessuna obiezione sia mai stata mossa a riguardo ad Israele; anzi, all'Expo di Milano Renzi ha celebrato l'unità di intenti che esisterebbe con Netanyahu sulla presunta lotta al terrorismo.
Se Assad è per L'UE ancora il principale nemico, quale alternativa si offre a milioni di Siriani in fuga dal Califfato, se non l'emigrazione di massa? Non è che qui si tratta di eliminare con una sorta di genocidio migratorio proprio il popolo siriano, visto che costituisce il principale ostacolo per Israele e per gli USA?
Una volta questa tragedia migratoria sarebbe stata definita aggressione imperialistica; anche perché vi era più lucidità rispetto al fatto che l'imperialismo non è affatto un ordine mondiale, ma una destabilizzazione permanente. Oggi anche le più ardite opposizioni si fermano quasi sempre alla locuzione di "responsabilità dell'Occidente", una nozione abbastanza generica ed ambigua da poterla interpretare nel senso che gli USA e la NATO hanno sbagliato a non bombardare di più. Il presidente francese Hollande si adegua a questa interpretazione delle "responsabilità dell'Occidente", ed ha annunciato voli di ricognizione sulla Siria in vista di bombardamenti contro l'ISIS. Poi, tanto per chiarire le cose, lo stesso Hollande ha dichiarato che il suo principale obiettivo rimane la cacciata di Assad. Parole che, anche se non fossero seguite dai fatti, costituiscono già di per se stesse un incentivo alla migrazione.

giovedì 17 settembre 2015

Putin ha accusato l'Occidente di "utilizzare gruppi terroristici" per destabilizzare governi

Putin e Assad hanno invitato l'Occidente a collaborare nell'ambito di un'alleanza anti-IS. Secco no dalla Francia Se avete seguito l'incessante avanti e indietro tra Washington e Mosca nel corso delle guerre per procura che infuriano in Ucraina e in Siria, si sa che il Cremlino non ha eguali quando si tratta di descrivere la politica estera in modo breve e preciso.
Questo, ricorda il blog americano ZeroHedge, si è manifestato in pieno all'inizio di quest'anno quando il Consiglio di Sicurezza di Vladimir Putin ha pubblicato un documento che portava il titolo sottile "Sulla strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti."
Nel corso delle ultime settimane, a seguito dell'intensificarsi del sostegno militare russo fornito ad Assad, la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha consegnato la seguente valutazione di come Washington ha cercato di caratterizzare il rapporto di Mosca con Damasco.:
"In primo luogo siamo stati accusati di fornire armi al cosiddetto 'regime sanguinario che perseguitava gli attivisti democratici, ora stiamo presumibilmente danneggiare la lotta contro il terrorismo. Questa è spazzatura completo."
Sì, probabilmente lo è, ma non dimentichiamo che la Russia non è stata esattamente sincera quando si è trattato di riconoscere che, come Washington, l'interesse di Mosca, in Siria, è legato al terrorismo soltanto nella misura in cui il terrorismo serve come strumento occidentale per destabilizzare Assad che, va ricordato, deve rimanere al suo posto se Putin intende tutelare il pugno di ferro di Gazprom sulla fornitura in Europa di gas naturale.
Naturalmente se quello che ne deriva è che anche la Russia utilizza l'ISIS come una cortina fumogena per giustificare l'invio di truppe in Siria, il Cremlino è, per definizione, più onesto riguardo alle sue motivazioni della Casa Bianca. Cioè, l'ISIS ha destabilizzato Assad e dal momento che la Russia ha interesse a mantenere il regime al potere, Mosca ha in realtà un motivo per sradicare lo Stato islamico. Gli Stati Uniti, d'altro canto, hanno facilitato la destabilizzazione del paese, in primo luogo, giocando un ruolo nella formazione di tutti i tipi di ribelli siriani, e dire che alcuni di essi potrebbero essere andati a combattere per l'ISIS sarebbe una valutazione molto generosa quando si tratta di descrivere il coinvolgimento della CIA (una valutazione meno generosa sarebbe chiamare l'ISIS una "risorsa strategica della CIA").
Ciò significa che gli Stati Uniti avranno veramente cura di spazzare via l'ISIS solo dopo la deposizione di Assad e l'insediamento di un governo fantoccio congeniale sia a Washington che a Riyadh e a quel punto - assumendo che non ci siano altri regimi nella zona che il Pentagono sente come necessario destabilizzare - l'esercito americano "libererà" rapidamente la Siria dal "flagello" dell' ISIS.
A dire il vero, la Russia è ben consapevole del gioco che sta giocando e, come vi abbiamo riportato ieri, Vladimir Putin, ieri da Dushanbe, in Tagikistan, dove è impegnato al summit del CSTO, si è subito rivolto agli Stati Uniti. «Oggi c’è l’esigenza di unire gli sforzi nella lotta contro il terrorismo», ha detto il capo del Cremlino, riferendosi neanche troppo velatamente all’Occidente, esortandolo a mettere da parte ogni ambizione geopolitica, abbandonando «i cosiddetti doppi standard e la politica di utilizzazione diretta o indiretta di alcuni gruppi terroristici per raggiungere i propri obiettivi tattici, compreso il cambiato di governo o regimi indesiderati. Senza questo – ha precisato - è impossibile risolvere altri pressanti problemi, compreso il problema dei rifugiati». Putin ha rivendicato il ruolo del suo paese nel conflitto che sta affliggendo la Siria, affermando che «senza il nostro supporto al governo di Assad, il numero di rifugiati che arriverebbero in Europa sarebbe decisamente maggiore rispetto a quello attuale».
La cosa da notare è che Putin ha sostanzialmente "invitato" gli Stati Uniti a smetterla di utilizzare terroristi per destabilizzare Assad.
Le intenzioni di Vladimir Putin in Siria sono chiare. La Russia sta rifornendo apertamente il regime di Assad con aiuti militari, nel tentativo di impedire ai terroristi ed estremisti (alcuni dei quali sono stati addestrati dagli Stati Uniti e ricevono aiuti dal Qatar) di facilitare l'estromissione di Assad. E' così semplice e, francamente, le uniche due cose che la Russia non ha dichiarato pubblicamente (perché questa è la diplomazia internazionale, dopo tutto, il che significa che tutti stanno sempre mentendo su qualcosa) sono i) il ruolo che il gas naturale gioca in tutto questo, e ii) che il Cremlino cercherà di impedire a chiunque di rovesciare Assad, quindi nella misura in cui ci sono veri, ben intenzionati "combattenti per la libertà" in Siria, loro si ritrovano dalla parte sbagliata del fuoco russo alla pari dell'ISIS.
Per quanto chiare siano le internzioni di Putin, negli Stati Uniti ci si attiene alla nozione assurda che il Pentagono proprio non riesce a andare a fondo di ciò che la Russia sta facendo e l'idea ancora più assurda che la Russia - che sembra essere l'unico paese che in realtà è interessato a combattere l'ISIS come dimostra il fatto che ci sono stivali russi sul terreno - stia in qualche modo danneggiando lo sforzo da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati per sconfiggere i radicali islamici in Siria.

mercoledì 16 settembre 2015

Le mafie d’oggi: gioco d’azzardo e doppiopetto

La mafia s’insinua dove lo Stato latita, diceva Giovanni Falcone. Il concetto, espresso dal giudice più di vent’anni fa sembra essere, tuttavia, particolarmente attuale. Perché dalla Relazione della Direzione Investigativa antimafia (Dia), trasmessa pochi giorni fa al Parlamento, emergerebbe la particolare vulnerabilità dello Stato in “ampi settori del tessuto sociale, imprenditoriale, amministrativo ed istituzionale alla pervasività mafiosa, esponenzialmente amplificata dalla diffusione di sacche di malaffare nei gangli vitali dell’apparato produttivo e decisionale del Paese.” Insomma, la mafia continua ad essere fra noi, dicono i magistrati e le forze di polizia, ad infestare, in maniera più subdola che mai le istituzioni, il mercato e l’amministrazione del Paese.
La Dia, rivolgendosi al Parlamento, ha lanciato un monito: nell’ultimo semestre del 2014 lo Stato ha fatto un passo indietro lasciando ulteriore terreno fertile alle organizzazioni criminali. Organizzazioni la cui struttura e il cui modus operandi si sono radicalmente modificati, per risultare più competitive sul mercato e farsi notare sempre meno dagli investigatori.
Nascondere i profitti
Dalla relazione è emersa una sempre più marcata tendenza delle mafie alla “dissimulazione dei proventi derivanti da traffici illeciti, al fine di affievolire l’allarme sociale ed evitare inutili, quanto controproducenti, ostensioni di forza”. I magistrati hanno cercato di fare chiarezza sul fenomeno del riciclaggio: le organizzazioni criminali riciclano sempre più spesso “denaro sporco” indirizzandolo verso attività più che lecite, reinvestendo nell’illegalità solo una parte dei loro proventi. Basti pensare che molti dei capitali della ‘ndrangheta sono stati attualmente reinvestiti nel business miliardario del gioco d’azzardo online, con sede a Malta.
L’internazionalizzazione delle mafie
Molte organizzazioni criminali italiane hanno varcato i confini nazionali per assaltare nuovi mercati. Sono in aumento, infatti, i capitali di provenienza mafiosa che fuggono all’estero alla ricerca del giusto affare e del guadagno migliore. “Gli effetti degenerativi causati dalle mafie – si legge sulla relazione- non sono più limitati agli ambiti regionali di provenienza – dove, comunque, le organizzazioni mafiose conservano un profondo radicamento e continuano ad esprimere il proprio potere di influenza e di condizionamento – ma si diffondono e si moltiplicano in aree tradizionalmente considerate immuni da simili fenomenologie criminali, fino a travalicare i confini nazionali ed europei, distorcendo la concorrenza e alterando il funzionamento delle regole di mercato attraverso lo sfruttamento di sistemi legislativi “meno accorti” e l’utilizzo di schermature societarie o di veri e propri trust.”
L’impresa mafia
I complessi ingranaggi dell’imprenditoria nazionale restano fortemente intaccati dalla costante presenza delle organizzazioni criminali. Negli ultimi anni le mafie hanno fatto il grande salto di qualità. Se prima il mafioso era estorsore o socio occulto dell’imprenditore, attualmente sono i boss stessi a condurre le redini delle aziende. Si assiste, infatti, sempre più spesso al proliferare di “imprese a partecipazione mafiosa, nelle quali non assistiamo più al classico paradigma in cui, semplicemente, un mafioso si serve di un prestanome; ora il criminale può, infatti, associarsi ad un imprenditore in modo diretto, ma non formalizzato, costituendo una società di fatto.” Solo lo scorso anno le aziende legate alle cosche calabresi avevano messo le mani su appalti Expo per un valore di 100 milioni di euro circa. Fortunatamente, poi, una quarantina di queste aziende furono interdette dalla Procura di Milano, una volta individuata la profonda “contiguità mafiosa” delle imprese.
Politica e mafia
Non esistono più le intimidazioni di una volta. Attualmente, dice la Dia, si assiste alla “convergenza di interessi e di obiettivi tra ambienti malavitosi e “aree grigie” di taluni contesti amministrativi, politici, imprenditoriali e finanziari.” Il politico non è più sottomesso della mafia, ricattato da quest’ultima, ma diventa primo sodale dei clan. Sempre più diffusi sono, infatti, su scala nazionale “circuiti di malaffare”, frequentati da imprenditori, politici e mafiosi attraverso i quali vengono visibilmente alterate le attività produttive, il mercato e gli appalti.

martedì 15 settembre 2015

Il ruolo dei media nella distorsione degli avvenimenti in Siria

Se qualcuno aveva ancora delle perplessità sul ruolo che svolgono i grandi media nel sistema europeo, gli ultimi avvenimenti relativi alla guerra in Siria ed alla fuga verso l’Europa di masse di rifugiati, hanno fugato ogni possibile dubbio: Il ruolo dei grandi media, giornale e Tv si dimostra quello di megafono della propaganda atlantista che parte da Washington e da Londra.
Lo conferma il modo con cui i media occidentali hanno diffuso le notizie circa il presunto intervento militare russo in Siria sulla base di informazioni inizialmente trasmesse da una fonte israeliana (ynet news) e successivamente riprese e diffuse da quasi tutti i media, circa l’incremento degli aiuti da parte di Mosca all’Esercito di Al-Assad, l’arrivo di nuovi aerei da guerra, il passaggio di navi da trasporto con armi e blindati destinati al porto di Tartus (base russa in Siria), un modo che ha fatto amplificare queste notizie a dismisura fino a lanciare titoli quali “Allarme per l’intervento della Russia nella guerra in Siria, Nato in allarme: l’Azione russa non aiuta, ecc..
E’ apparso subito chiaro che la grancassa dei media, su istigazione di fonti israeliane e statunitensi come Reuters, Ass. Press, Fox News ed altre, è stata subito ripresa dai media europei, senza verifiche, per lanciare una campagna di amplificazione di un probabile intervento russo in Siria, sulla base di pochi elementi: qualche nave avvistata sul Bosforo e qualche aereo da trasporto in più visto arrivare vicino Damasco, fino alla notizia della presenza di militari russi sul terreno di battaglia a supporto dell’Esercito siriano.
Il tutto per lanciare un allarme e per tacciare quella dell’intervento russo come di una “pericolosa complicazione” nella guerra in Siria, una “aggressione” della Russia ed una “indebita ingerenza” di questa in Siria.
In realtà il Pentagono, grazie al suo apparato di satelliti ed osservazione, conosceva benissimo quale fosse il livello degli aiuti militari russi alla Siria , e le stesse autorità russe non hanno mai fatto mistero del loro aiuto al governo siriano, dato che esiste un trattato di cooperazione con la Siria fin dai tempi dell’URSS.
Quindi dove stava in fondo la novità? Lo stesso Ministero russo ha infatti smentito una partecipazione diretta russa nella guerra in Siria, salvo poi dichiarare, la portavoce del Cremlino, che la Russia, come ha sempre fatto, stava fornendo assistenza militare ed addestramento ai reparti siriani circa l’utilizzo dei nuovi armamenti forniti.
La campagna di allarme era ormai partita in tromba ed i giornali europei non hanno lesinato titoli allarmistici fino a riportare le dichiarazioni del Pentagono in cui si afferma che “l’Intervento russo in Siria per appoggiare il governo di Al-Assad si considera inammissibile e che questo intervento potrebbe avere un effetto destabilizzante”.
Sarebbe superfluo osservare che, se si è verificato un intervento destabilizzante in Siria questo è stato proprio quello degli USA e delle potenze occidentali che, assieme ai loro alleati regionali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia) nel corso di questi 4 anni e mezzo, hanno fatto di tutto e di più, infiltrazione di un esercito di terroristi nel paese, campi di addestramento per i terroristi in Giordania e poi in Turchia, fornitura massiccia di armi ed istruttori ai gruppi terroristi, finanziamento e pagamento dei salari ai mercenari (l’Arabia Saudita), interventi dell’aviazione israeliana in appoggio dei gruppi terroristi, ricovero in ospedali di Israele dei terroristi feriti (Israele con il gruppo di Al-Nusra), fino ai reparti speciali di truppe di elite statunitensi e britanniche, mascherate e mescolate con i terroristi per dirigere alcune operazioni sul terreno, come ammesso ultimamente da diversi organi di informazione USA e britannici. Vedi: Nytimes.com The Guardian
Il paradosso della situazione è che, l’accusa di “intervento destabilizzante” fatta alla alla Russia, proviene proprio da quei paesi che hanno destabilizzato la Siria provocando in conflitto che è una vera e propria guerra per procura che ha provocato oltre 260.000 morti, distruzioni immani e milioni di profughi, che adesso vengono sospinti dalla Turchia verso l’Europa in una manovra coordinata con l’intelligence USA, per provocare il caos anche in Europa.
In questo contesto appare chiara la manovra dei media occidentali di presentare la Russia nel ruolo dell’ “aggressore”, del sostenitore del “cattivo” tiranno, Bashar Al-Assad, demonizzato oltre ogni misura come avvenne a suo tempo per Gheddafi e per Saddam Hussein o per Milosevic in precedenza.
Tanks Russia
Niente di nuovo, si tratta del tipico sistema americano delle fasi che precedono l’intervento militare: fase 1) diffamazione (a mezzo dei media), fase 2) demonizzazione dell’avversario da abbattere (voci di armi di distruzione di massa o armi chimiche, presunte stragi di civili, ecc.), fase 3) intervento militare, rovesciamento del governo e rimozione con la forza del “tiranno” (soppressione fisica o carcerazione).
L’altra finalità di questa campagna mediatica di criminalizzazione di Putin e della Russia è quella di distogliere l’attenzione dall’evidente fallimento della strategia degli USA e dei loro alleati in Siria: Washington contava su una sostanziale passività della Russia per procedere nel suo piano, quello di occupare gradualmente la Siria, istituendo delle no “fly zone”, successivamente mandando all’attacco i gruppi di “ribelli moderati” protetti dall’aviazione e reparti speciali americani e britannici per conquistare obiettivi sensibili e debilitare l’Esercito siriano.
Naturalmente la campagna mediatica si muove su enunciazione di falsità evidenti, a partire da quella che i media come la RAI e tutti i grandi giornali europei continuano a definire una “guerra civile” nascondendo al pubblico che in Siria sono arrivati oltre 70.000 (si calcola) jihaddisti delle più disparate nazionalità (82 nazionalità diverse), dai libici agli afghani, ai sauditi, ai tunisini, agli egiziani, pakistani, yemeniti e persino ceceni di lingua russa, senza contare i “foreign fighters” europei arrivati a frotte da Francia, Gran Bretagna, Belgio ed Olanda.
L’obiettivo finale della strategia di USA ed Israele : creare in Siria un protettorato USA con suddivisione del paese in più regioni in base ai gruppi confessionali e realizzazione di un grande stato sunnita tra Iraq e Siria sotto influenza saudita, il vecchio piano elaborato dallo stratega israeliano Oded Yinon per la dissoluzione della Siria come nazione unita.
La Russia di Putin ha visto il gioco, come in una partita di poker, si è mossa in anticipo e manda all’aria tutto il piano americano. Non per nulla sono arrivate davanti alle coste siriane unità navali lanciamissili con truppe da sbarco e sistemi antimissile, impegnate in una esercitazione che durerà diverse settimane oltre ad aver creato un ponte aereo che porterà mezzi ed armi per creare una barriera di difesa nelle città siriane. Sarà difficile attaccare la Siria senza una dura reazione delle forze russe.
Si da il caso poi che la Russia interviene in Siria anche per proteggere la sua stessa sicurezza visto che è già iniziato il tentativo di infiltrare i terroristi dell’ISIS nel Caucaso e minare dall’interno la regione russa. Non è difficile indovinare chi stia coordinando questa operazione da dietro le quinte. Inoltre l’intervento russo inoltre avviene dopo oltre un anno che si è costituita una coalizione anti ISIS, capeggiata dagli USA che, nonostante i 4.000 milioni di dollari spesi, ha dimostrato di non essere in grado di ottenere risultati significativi ed anzi esiste il più che fondato sospetto (ormai certezza) che la coalizione anti ISIS abbia fatto di tutto per non ostacolare l’ISIS nella sua avanzata, vista l’utilità di questa organizzazione terroristica, utilizzata come “spauracchio” per le finalità geopolitiche che si propone Washington nella regione. Ne fa fede la vendita del petrolio estratto dai pozzi in Iraq e Siria, consentita all’ISIS attraverso la Turchia, ne fa fede il mancato bombardamento delle linee di rifronimento dell’ISIS, con le centinaia di camions che transitano per strade scoperte ed individuabili tra la Turchia la Siria e l’Iraq, e tanti altri episodi di contiguità fra la coalizione ed il gruppo terrorista, come gli aviolanci di rifornimenti ed armi sulle posizione dell’ISIS in Iraq, effettuati da aerei ed elicotteri della coalizione e registrato e denunciato dai combattenti iracheni. Vedi: Gli USA sostengono militarmente l’ISIS. La denuncia di un deputato iracheno
La Russia interviene per annientare veramente l’ISIS non per contenerla o blandirla come hanno fatto fino ad ora gli americani ed i loro alleati e possiamo stare sicuri che inizierà una nuovo fase decisiva del conflitto.
Barcos russo en Siria
Rimane poi da fare una considerazione importante: tutte le navi che arrivano in Siria con il loro carico e le navi da guerra che vanno ad integrasi nella flotta del Mediterraneo partono dai porti della Crimea come Sebastopoli. Esattamente da quella penisola, che in precedenza faceva parte dell’Ucraina, da cui gli USA avevano pianificato di estromettere la Russia, per impedirle di svolgere un ruolo di grande potenza. La Russia senza la Crimea non avrebbe avuto più l’accesso facile al Mediterraneo e non avrebbe potuto facilmente intervenire in soccorso dell’alleato siriano.
Questo spiega in buona parte tutta l’operazione del golpe di Kiev del 2014, fagocitato dagli USA e dalla UE , nonchè tutti i piani di ridimensionare la potenza russa. Anche in quel caso, Putin aveva giocato d’anticipo e, con la mossa del referendum, aveva spiazzato l’avversario riannettendosi la Crimea che, d’altra parte a buon ragione è sempre stata terra russa. Un’altro fallimento della politica di Obama che si ritorce contro gli Stati Uniti ma che i media europei, prostituiti alle centrali di potere atlantiste, cercano di nascondere sostenendo il ruolo di presunto aggressore di Putin, ignorando il diritto all’autodeterminazione, lo stesso che aveva giustificato il distacco del Kossowo dalla Serbia. Il famoso doppio standard dell’ipocrisia occidentale.

lunedì 14 settembre 2015

Le morti bianche chiedono giustizia: 643 in sette mesi

I numeri drammatici delle morti bianche in Italia dovrebbero far riflettere: 643 incidenti mortali sul lavoro in sette mesi, con un aumento del 9,5% rispetto allo stesso periodo del 2014. Eppure per il governo l’Italia si trova in una fase di “ripresa” nel lavoro.
Secondo i dati dell’ Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre sulla base di dati Inail negli ultimi sette mesi in Italia ci sarebbero stati qualcosa come 643 incidenti mortali sul lavoro, con un incremento del 9,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Numeri che parlano di una morte quotidiana con una media che si attesta a 90 vittime al mese. Una piaga sociale quella delle morti sul lavoro che non trova alcuna risposta concreta che vada oltre le dichiarazioni di intenti e le promesse. Spesso e volentieri infatti non sono le fatalità a causare gli incidenti mortali, piuttosto le colpe andrebbero ricercate nella scarsa diffusione della cultura della sicurezza. Inoltre il fenomeno degli incidenti sul lavoro riguarda il Nord come il Sud e sta diventando una piaga sempre più nazionale. La regione maggiormente colpita sarebbe infatti la Lombardia con 70 vittime seguita a ruota dalla Toscana con 46, dalla Campania con 43, dal Veneto con 42, dal Lazio con 39, dall’Emilia Romagna con 36, e poi Sicilia con 35, Piemonte con 33 e Puglia con 26. Se invece si guarda al rischio di mortalità della popolazione lavorativa divisa in macroaree ecco che è il Nord-Est a guidare la classifica con un indice di 32,7 contro una media nazionale che si attesta al 21,1. Eppure per politici ed economisti la situazione sarebbe quella di una ripresa dell’economia, a segnalare come il problema della sicurezza sul lavoro non venga sentito come primario.

domenica 13 settembre 2015

Tfr in busta paga: una fregatura che non ha convinto nessuno

Era stata strombazzata come una delle misure del governo per “mettere soldi in tasca” ai lavoratori. In realtà molti – noi tra questi – l'avevano giudicata piuttosto una mossa per sfilarne altri dai portafogli già magrissimi dei dipendenti di ogni ordine e grado.
Bene. Ora ci sono le cifre, rese note dall'associazione dei consulenti del lavoro. E fanno ben sperare nella capacità di giudizio dei “subordinati”: soltanto lo 0,83% ha infatti chiesto di farsi accreditare in busta paga, mensilmente, anche il tfr.
Inequivocabile la motivazione addotta da tutti gli intervistati: la tassazione prevista – ordinaria, con l'aliquota Irpef che in molti casi si innalzava con l'aumentare “formale” dello stipendio netto – è troppo penalizzante. In altri termini, ci si rimette troppo, addirittura il 62% invece del normale 23.
Se ne ricava la conclusione che quanti l'hanno comunque chiesta sono ridotti davvero in pessime condizioni, tanto da preferire il pessimo detto “pochi, maledetti e subito”, pur di arrivare con meno affanni a fine mese.
Al contrario, cresce considerevolmente la percentuale di dipendenti che richiede anticipazioni del tfr già maturato per affrontare spese consistenti e impreviste, o semplicemente necessarie (spese mediche, cambio auto, acquisto della casa, ecc): ben il 27% in più.
Facile capire il perché. In questo caso, infatti, l'anticipazione avviene con tassazione “separata”, secondo la normativa prevista normalmente per il tfr.
Conclusione: il governo Renzi spara propaganda senza riscontri.

venerdì 11 settembre 2015

Europa, la terra delle disuguaglianze

Secondo un rapporto sulla disuguaglianza sociale di Oxfam in Europa si sarebbero registrati livelli “inaccettabili di povertà e disuguaglianza”. Nel “vecchio continente” ci sono oltre 123 milioni di persone a rischio povertà ed esclusione sociale a fronte di 342 plurimiliardari con un patrimonio totale da 1340 miliardi di euro.
“In Europa si registrano livelli inaccettabili di povertà e disuguaglianza”, parole molto chiare quelle scelte dal rapporto Oxfam, ong internazionale da sempre molto attenta ai problemi legati alla fame e alle disuguaglianze sociali. Il quadro offerto dalla ong sull’Europa è tale da lasciare interdetti dal momento che il vecchio continente si sta trasformando sempre di più in un continente pieno di poveri ma con pochi super miliardari. Rapporto alla mano in Europa risultano esserci 342 miliardari il cui patrimonio totale ammonterebbe a 1340 miliardi di euro a fronte di oltre 123 milioni di persone che sono a rischio povertà ed esclusione. “Invece di dare priorità alle persone, i processi decisionali politici sono sempre più influenzati dalle ricche élite che manipolano le regole a proprio vantaggio: in tal modo aggravano la povertà e la disuguaglianza economica, logorando costantemente e pesantemente le istituzioni democratiche”, ha detto il rapporto Oxfam. E poi ancora: “Le misure di austerità e gli iniqui sistemi fiscali che affliggono l’Europa vanno a tutto vantaggio dei potenti titolari di interessi privati. È giunto il momento di invertire la rotta della povertà e della disuguaglianza in Europa, mettendo al primo posto le persone”.
Oxfam
Ovviamente la crisi economica cominciata nel 2008 ha solo aggravato questo processo al punto che la combinazione austerità e disoccupazione ha condotto a un nuovo aumento della grande povertà in Europa e alla riduzione della ricchezza della cosiddetta classe media.Nel 2008 infatti in Europa il numero di persone a rischio povertà era 116 milioni contro i 123 di oggi, segno che nel giro di sette anni ci sono stati ben sette milioni di poveri in più. In Italia poi il 20% dei più ricchi detiene il 61,6% della ricchezza nazionale netta, mentre il 20% di quelli più poveri ne controlla appena lo 0,4%. Insomma una Europa sempre più povera continua però a votare e a farsi rappresentare da personaggi che fanno parte della percentuale dei più fortunati, e in questo modo la tendenza difficilmente verrà invertita.