martedì 30 giugno 2015

Gli “strozzini” il vero ostacolo al salvataggio della Grecia

Dato che i debiti della Grecia sono anche effetto dello strozzinaggio delle banche e della politica della trojka, il governo greco dovrebbe rifiutare di pagarli in gran parte e, piuttosto che rimanere indebitati chiedendo l’elemosina in eterno, tentare un'altra strada, che tra l’altro aprirebbe un orizzonte nuovo per i prossimi paesi della lista, tra cui l’Italia. Tsipras sta cercando di fare ripartire il paese usando politiche simili ai suoi predecessori con qualche differenza dettata dal suo essere “di sinistra”, che poi significa favorire i ceti medio/bassi, tagliare il meno possibile la spesa pubblica, mettere qualche tassa in più ai ricchi e agli imprenditori, cercando di favorire la crescita. Le due politiche però sono in palese contraddizione dato che se stanghi chi investe cioè gli imprenditori, è chiaro che il paese molto difficilmente crescerà. E poi crescere per cosa? Per rilanciare i consumi che indebitano la gente? Per dare ancora ossigeno e aumentare i fondi per i ladrocini e la corruzione? Perché, invece di guardare all’Europa, non puntare alla vera speranza, alla vera risorsa, cioè la Grecia e i greci? Stiamo parlando di fantascienza e di argomenti di cui probabilmente Tsipras (che si illude pure di passare dalla padella europea alla brace cinese o russa) non sa nulla, ma proviamo lo stesso a suggerire soluzioni, chissà che succeda un miracolo.
Appena insediato Tsipras avrebbe dovuto proclamare un piano di emergenza interno per la reale salvezza del Paese. Puntare alla massima autonomia energetica e alimentare, ridurre tutte le spese e gli sprechi possibili e immaginabili, chiamare a raccolta esperti a livello mondiale in grado di supportare e consigliare il paese nel suo obiettivo di emanciparsi da finanza e strozzini europei. Denunciare la politica suicida della trojka e fare del paese un esperimento a livello globale di economia di sostentamento e salvaguardia ambientale. Tanto cosa hanno più da perdere i greci? Coinvolgere esperti di transition town, di tecnologie alternative, di energie rinnovabili, di risparmio energetico e idrico, di economia post crescita, di mobilità alternativa, di politiche zero rifiuti e coordinarli assieme ai colleghi greci studiando soluzioni per poi applicarle in ogni realtà del paese.
Partire quindi dall’aspetto più importante e cioè garantire ai greci la vera sopravvivenza che non è attingere ad un bancomat ma mangiare, quindi insegnare a tutti i principi di permacultura e agricoltura sinergica nominando ministro dell’agricoltura Panos Manikis. Orti e coltivazioni ovunque, allargando a tappeto le tecniche per l’autonomia alimentare in modo che si scongiuri il pericolo della fame, diminuendo la dipendenza dal denaro e da derrate alimentari che provengono dall’estero. Se i soldi sono il problema, più che dare sgravi, contributi o tagliare questo e quello, bisogna insegnare ai cittadini, ad esempio, come ridurre drasticamente i consumi di acqua ed energia ma non solo perché costretti dalla penuria ma per effettivo risparmio, conoscenza e consapevolezza. E’ la vecchia storia per cui non ha senso dare da mangiare a qualcuno che ha fame facendolo rimanere dipendente, occorre dargli i mezzi perché diventi autonomo. Si sottovaluta il fatto che un’amministrazione pubblica statale in teoria può arrivare a chiunque e potrebbe fare opera di informazione e formazione capillare ottenendo risultati efficaci in poco tempo anche con mezzi esigui. In questo modo si renderebbero maggiormente autonomi i cittadini stessi e più consapevoli delle loro possibilità. Impostare una politica di autonomia e indipendenza risveglierebbe anche forze e orgoglio dei Greci che ormai si sentono come i parassiti europei. Approfittando della crisi industriale si potrebbe puntare ad una industria più leggera e dare forti agevolazioni ma solo a ditte greche o estere che volessero investire e lavorare nel settore dell’efficienza e risparmio energetico, delle rinnovabili, della tutela ambientale, dell’ecoturismo, dell’agricoltura e alimentazione biologica. Ad esempio, l’ecoturismo di qualità offrirebbe a chiunque l’esperienza di un paese non solo bellissimo ma trampolino di lancio di una nuova era. Poi mobilitare e formare tutti gli abitanti sulle tematiche della riduzione degli sprechi, sulla resilienza, autosufficienza e introdurre queste come materie di studio in ogni scuola e università. Utilizzare le scarse risorse rimaste, in modo sensato e intelligente e non buttarle nel pozzo senza fondo del debito. Assistiamo infatti al paradosso per cui la Grecia, che potrebbe diventare largamente autonoma da un punto di vista energetico grazie all’abbondanza di sole e vento, che dal punto di vista agricolo ha potenzialità eccezionali e dal punto di vista turistico è una meta meravigliosa, si deve inginocchiare a paesi senza sole, senza risorse vere, senza bellezze naturali e artistiche, che importano quasi qualsiasi cibo e in caso di esaurimento delle fonti fossili durerebbero lo spazio di un mattino. C’è qualcosa che non quadra in questa schizofrenia dalla quale prima si esce e meglio sarà, per i Greci e per qualsiasi altro popolo che si ostina ancora a credere che l’unica forza, l’unica possibilità sia quella finanziaria e invece è il sintomo della debolezza e dipendenza più grande.

I greci in questa fase paradossalmente sono i più “fortunati” di tutti, hanno una crisi che li mette, loro malgrado, nelle condizioni di cambiamento reale e di emancipazione da un sistema che non ha alcun senso e futuro.

lunedì 29 giugno 2015

IL TABÙ DELL’EURO

La crisi dell’eurozona che ha paralizzato il continente per quasi un decennio ha tutte le caratteristiche di un’opera wagneriana, in cui una tragedia si sussegue all’altra. La persistenza della crisi, e la negazione prevalente delle sue origini da parte delle élite europee, ha aiutato il degenerare della situazione ad una dimensione paragonabile alla grande depressione degli anni trenta.

Le conseguenze politiche della crocifissione dell’Europa meridionale da parte dell’Unione Monetaria Europea (UME) sono ora chiare: le politiche UME hanno sgretolato i successi dell’integrazione europea del dopoguerra, hanno dato nuova vita a partiti populisti radicali e alimentato la crescita dei sentimenti anti-NATO. La lunga crisi non può che aumentare le fila degli amici dell’ imperialismo russo in Europa occidentale (imperialismo russo che rimane tutto da dimostrare NdVdE).
Da lungo tempo l’euro è troppo debole per la Germania e troppo forte per il Sud Europa, inclusa la Francia. Invece di facilitare la convergenza delle economie europee, l’Unione Monetaria Europea ha invece accentuato il divario di competitività tra gli Stati membri. Nel suo tentativo di ripristinare la competitività delle industrie esportatrici dell’Europa meridionale, intrappolate in una moneta sopravvalutata, la Troika ha introdotto una politica di svalutazione interna – nota anche come austerità competitiva – dopo la crisi del 2008, indirizzata al taglio dei salari. Il risultato prevedibile è stato disoccupazione di massa e un forte calo nella produzione industriale, un disastro economico artificiale, causato dalla cieca determinazione di salvare l’euro.
Ma ancora oggi, la narrativa europea mainstream si rifiuta di collegare l’euro al collasso dell’economia greca. Al contrario, il ritornello di Bruxelles sottolinea la “mancanza di riforme strutturali”, che di per sé non può spiegare le immense sventure della Grecia.
Le economie dell’Europa meridionale hanno un disperato bisogno di una profonda svalutazione della moneta, l’unico e potentissimo strumento di aggiustamento in grado di contrastare la grave crisi economica, anche se questa deve essere accompagnata da una politica economica assennata. Fino a quando questi paesi rimarranno membri dell’UME, la svalutazione non sarà possibile.
La moneta unica, l’amata creatura delle élite europee, è per lo più immune da qualsiasi critica. Fare l’ovvio collegamento tra l’euro e la crisi economica, è diventato un tabù. Curiosamente, questo tabù non esiste negli Stati Uniti, dove gli osservatori di destra e di sinistra, come Martin Feldstein e Paul Krugman, fanno questo collegamento.
Di conseguenza, i critici dell’euro di stampo moderato vengono accostati a populisti di destra come Marine Le Pen e Nigel Farage. Ciò dimostra la forte distanza tra la realtà e i media mainstream europei.
La sede naturale dei moderati favorevoli al mercato, persone che capiscono la follia dell’euro, è nel centro-destra europeo, con la sua fede nella libertà economica e in un governo limitato, con l’impegno verso l’alleanza transatlantica, l’appoggio alla globalizzazione e una visione positiva di un’UE meno burocratica improntata al principio di sussidiarietà (come si può vedere, H-O Henkel non è certamente un marxista né un estremista di destra. E’ semplicemente un conservatore di buon senso NdVdE).
L’incapacità dell’establishment europeo di distinguere i politici che vogliono una UE riformata, mercati liberi e non vogliono l’euro, dai populisti che non vedono nulla di buono nell’UE, è un sintomo di quanto sia inquinato il dibattito pubblico riguardo all’euro. Collegare il fallimento della UE allo smantellamento concordato dell’euro, significa togliere all’Europa l’unica opzione realistica di creare le condizioni per la crescita.
I leader europei insistono nel continuare a punire la Grecia con una brutale austerità, ciò spinge il paese che ha inventato la democrazia tra le braccia dell’autocratico Cremlino. La difesa dogmatica dell’euro a tutti i costi, mette a rischio il mercato comune e suscita altri sentimenti anti-americani e anti-NATO più di quanto avrebbe potuto immaginare il propagandista sovietico più creativo.
Il luogo comune secondo il quale l’unione fiscale potrebbe salvare l’eurozona deve essere respinto. Le lezioni che ci insegna la storia italiana dimostrano che i trasferimenti fiscali non sono in grado di aiutare le regioni che soffrono a causa di una moneta sopravvalutata. Allo stesso modo, il QE della Banca Centrale Europea non può porre fine alla miseria in Europa, dal momento che non può risolvere il problema dei tassi di cambio disallineati all’interno dell’UME e i suoi squilibri interni, invece esso alimenta le bolle speculative che mettono le basi per una nuova crisi finanziaria.
La Grecia ha bisogno di una forte svalutazione e di una cancellazione del debito. Il miglior scenario economico per uno smantellamento dell’euro sarebbe l’uscita controllata della Germania e degli altri paesi competitivi, ma in assenza di questa volontà politica a Berlino e in altre capitali, dovrebbe essere concordata un’uscita controllata della Grecia.
Solo con la cooperazione bipartisan tra forze politiche europee centriste dotate dell’immaginazione politica di concepire una UE senza un’unione monetaria, quantomeno nella sua forma attuale, possiamo spianare la strada verso una reale ripresa europea.

domenica 28 giugno 2015

'Il paziente greco'

Il "paziente greco" è in cattive condizioni e ha bisogno di un rimedio potente per poter migliorare efficacemente, ma a quanto pare l'ospedale finanziario Europeo ha dimenticato il suo giuramento d'Ippocrate.
Un ospedale moderno è composto di vari reparti specializzati, tra cui c'è il reparto cure intensive e rianimazione, dove vanno i casi gravi che richiedono il massimo di attenzioni. L'esistenza di questo reparto dimostra che non tutti i pazienti reagiscono allo stesso modo. Alcuni, più robusti, recuperano alla svelta; altri più deboli, più anziani, più malati, possono avere bisogno di trattamenti diversi e di maggiore aiuto.
L'ospedale finanziario Europeo è stato molto impegnato negli ultimi 5 anni con le vittime della crisi mondiale e della sbornia di credito facile che l'ha preceduta e provocata. Irlanda, Portogallo, Spagna e (in qualche misura) l'Italia hanno occupato i posti letto di questo ospedale ed hanno preso le loro medicine nei dosaggi indicati e seguito tutte le raccomandazioni. E nemmeno uno ha pienamente recuperato, nonostante il fatto che nessuno di questi paesi fosse mortalmente ammalato, al peggio avevano subito declini attorno a 5-10 punti di PIL ed erano stati tutti perlopiù molto stabili nei precedenti anni.
La Grecia è un caso a parte: Un paziente debole di costituzione sin dal principio, con istituzioni deboli, una industria non competitiva. Aveva usufruito smodatamente del credito facile pre-crisi, e quando arrivò il collasso l' "Europa" e il FMI gli prescrissero enormi dosi della solita medicina, qualcosa attorno a tre volte le dosi assunte dagli altri pazienti. I risultati sono tossici: la Grecia ha perso circa un quarto delle sue entrate fiscali, la disoccupazione è al 29% e il Governo non possiede riserve di liquidità.
In qualunque ospedale moderno, un paziente simile sarebbe attaccato alle macchine in rianimazione. Gli si darebbero delle trasfusioni, idratazione endovenosa, una flebo e una maschera di ossigeno. Non ci sarebbe niente di strano per i dottori, abituati al fatto che spesso i trattamenti standard non sono sufficienti e ci vuole qualcosa di più.
Ma l'Europa di oggi questo reparto non c'è l'ha affatto, e al contrario la Grecia rimane nel reparto dei pazienti ordinari e ogni tanto qualcuno passa a controllare la cartella clinica per constatare che non è cambiato nulla, e si mette a sgridare il paziente. Deve fare più esercizio! Alziamo i dosaggi delle medicine! Guarda gli altri pazienti, loro se la stanno cavando! E avanti su questa falsariga, finché il dottore se ne va con un nulla di fatto.
Nel frattempo dietro le pareti dei loro uffici, nel feudo dei dottori, discutono, uno l'FMI, sostiene che serve la chirurgia, bisogna ristrutturare il debito. Altri, il governo Tedesco ed altri si lamentano che l'intervento chirurgico e costoso e non vogliono pagare la fattura. Nel frattempo la Banca Centrale Europea amministra liquidità salina, goccia dopo goccia, alle banche del paziente.
Dopo 5 anni avanti così, con la morte sempre in agguato, i Greci hanno deciso di rifiutare i trattamenti. Hanno chiesto, nel corso degli ultimi mesi degli incontri con i primari, per vedere se si possono modificare i protocolli. Gli hanno risposto no, no a meno che tutti i dottori non sono d'accordo. Ma ai dottori non va che la loro autorità sia messa in discussione. E immagina soltanto, riferiscono ai loro capi, che succederebbe se ci pieghiamo a un accordo? Anche gli altri pazienti inizierebbero ad avanzare pretese, saremmo rovinati! Così i trattamenti restano sempre gli stessi e i loro risultati sono sempre peggiori.
Tenere fede al giuramento
C'è un importante principio da ricordare, il giuramento d'Ippocrate, di incontestabile origine Greca. Il suo punto fondamentale è "sei non puoi fare del bene evita almeno di peggiorare le cose". Dobbiamo chiederci se questo principio non sia stato del tutto rimpiazzato da un altro, con origini invece nella sordida cultura della finanza internazionale: "prima di tutto non rimetterci mai soldi".
E se è così, dovrebbe forse, il paziente, andarsene dall'ospedale? Questa è la vera decisione fondamentale adesso. E non è una facile scelta. Se va a casa il "paziente" potrebbe morire senza nessuno ad aiutarlo. I dottori poi, non lo lasciano andare e mettono bastoni tra le ruote. Per farla franca ci vuole grande coraggio e non c'è neanche certezza che una volta lasciato in pace a casa sua il paziente possa riprendersi. Forse questo debito si può semplicemente amputare, una operazione rozza ma che spesso è volentieri salva vite. Forse l'aria buona e la buona cucina di casa possono fare miracoli! Immaginate come sarebbero furiosi, i dottori, a vedere il paziente, finalmente libero, che guarisce sempre di più!
Siamo esattamente a questo punto nella lotta tra la Grecia, l' "Europa" e il FMI. Non ne sappiamo ancora gli esiti e, comunque vada a finire, sarà solo la Storia a giudicare. Eppure sento che quando la Storia giudicherà, la sua simpatia sarà tutta per la Grecia, mentre questi comitati di dottori petulanti, gelosi del loro potere e dogmaticamente incapaci di ridiscutere i loro vecchi metodi, non ne potranno in ogni caso uscire sotto una bella luce.

venerdì 26 giugno 2015

Se Roma piange Milano non ride. Il Comune rischia il default

Che il Comune, anzi la Città Metropolitana di Roma Capitale abbia i suoi guai è ormai cronaca di tutti i giorni. Per le strade e i circoli che contano di Milano, la “capitale economica”, è diventato frequente ascoltare battute dal sapore antico sulla diversità tra le due grandi città. Roma è alle prese con l'inchiesta sulla corruzione e le infiltrazioni mafiose dentro i suoi uffici, tra i consiglieri comunali e qualche incaricato della giunta Marino. A Milano in questi anni le inchieste sul malaffare si sono abbattute invece sulla Regione (soprattutto nel settore “aziendalizzato” della sanità) e sull'Expo. Ma il Comune del sindaco di Pisapia, almeno su questo terreno, era riuscito a salvarsi. Ma, come abbiamo scritto spesso su questo giornale, la “amministrazione degli onesti” può non fare la differenza quando accetta di piegarsi ai diktat del Patto di Stabilità e alle logiche del pareggio di bilancio che da Bruxelles arrivano fino al più piccolo dei comuni della Brianza o del Salento, tanto per dire. E allora giù con i tagli ai servizi sociali e l'aumento delle addizionali locali dell'Irpef e se qualcuno protesta ti arriva addosso la longa manu della “legalità”. Eppure può non bastare, neanche a Milano.
I conti della Città metropolitana di Milano, secondo il Corriere della Sera, rivelano infatti una voragine da 90 milioni di euro che deve essere assolutamente chiusa entro il 31 luglio, altrimenti le alternative sono il pre-dissesto o ancor peggio l’arrivo del commissario. Il sindaco Pisapia, insieme al suo assessore al Bilancio, Sergio Romano, nei giorni scorsi sono volati di corsa a Roma per incontrare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti (che ha preso il posto di Graziano Delrio) e presentargli il problema.
Nel bilancio preventivo 2015 c'è infatti un buco di 90 milioni di euro e nei prossimi anni non può che peggiorare perchè anche sul groppone del Comune di Milano arriveranno i debiti accumulati per l'Expo 2015. Eh sì, perchè una grossa parte di quei 320 milioni di euro spesi per acquistare le aree dove è sorto l'Expo (che si poteva fare magari all'ex Ortomercato, già di proprietà del Comune), ricadranno sul bilancio comunale. A questo si aggiungono i provvedimenti del governo e i vincoli del Patto di Stabilità.
Nel 2015 i tagli alle Città metropolitane erano fissati a un miliardo di euro e la ricaduta su Milano è stata di 27 milioni di euro, ma nel 2016 si raddoppia e si arriva a due miliardi di tagli, quindi Milano dovrà fare a meno di 54 milioni di euro di trasferimenti statali. Non solo, nel 2017 i tagli arriveranno a tre miliardi di euro e quindi a 81 miliardi in meno. Le previsioni mettono i brividi: nel 2016 il buco nel bilancio comunale raggiungerà i 163 milioni, per arrivare a 212 nel 2017, sempre senza tenere conto del buco di ritorno del debito post Expo. Su questo rinviamo ad un ottimo studio fatto da OffTopic, Expo significa debito e al recente convegno di Ross@ a Milano dedicato proprio all'Expo.
A complicare il tutto c'è poi la sussidiarietà alla rovescia, con le Città Metropolitane che finanziano lo Stato attraverso i proventi delle imposte provinciali (come l’imposta di trascrizione dell’auto e l’aliquota della rc auto) che finiscono al Mef, si tratta di 150 milioni di euro, pari al 42 per cento delle entrate fissate a 360 milioni di euro.
Per Milano dunque, nonostante non sia alle prese con gli affari di Mafia Capitale, si aprono due scenari niente affatto rassicuranti. Senza “una mano” dal governo si va al pre-dissesto oppure si arriva al dissesto vero e proprio e viene imposto un commissario, esattamente come l'aria che tira a Roma. Dire che la giunta Pisapia, quando si è imbarcata nell'operazione Expo, non avesse contezza di questi scenari è poco credibile, esattamente come non è la giunta Marino quando si rifiuta di trarre le dovute conclusioni – le dimissioni – a fronte di quanto rivelato dall'inchiesta su Mafia Capitale. Ma mentre il furbo Pisapia annuncia che quando i nodi verranno al pettine lui non ci sarà perchè non si ricandida a sindaco, Marino ha annunciato, con scarso buonsenso, che lui si vuole ricandidare e rimanere sindaco fino al 2023. C'è poco da ridere. Come abbiamo ripetuto da molto tempo, il totem delle "buone amministrazioni" non basta più, al massimo sono delle foglie di fico. Ma a noi interessano le esigenze popolari non le vetrine, a Roma come a Milano.

giovedì 25 giugno 2015

L'ISIS nel Kosovo e nei Balcani liberati e democratizzati dalla NATO

Queste scritte inneggianti agli islamisti dell’Isis e ai terroristi indipendentisti albanesi dell'AKSH, con il messaggio “Il Califfato sta arrivando”, erano apparse lo scorso anno sui muri di cinta del monastero ortodosso di Decani, nel Kosovo. Le scritte sono visibili anche a 300 metri dall’ingresso del monastero, il più importante della chiesa ortodossa serba, che è sotto protezione dell’Unesco, e tuttora protetto da check point, filo spinato e automezzi militari delle forze internazionali.
Il video dell'Isis diffuso il 4 giugno, relativo alle strategie del Califfato verso la regione balcanica, non fa altro che confermare ciò che analisti militari, studiosi, osservatori e giornalisti (quelli ovviamente, che possiedono onestà intellettuale e indipendenza dai media occidentali) da anni segnalano, documentano e denunciano: che, dalla distruzione della Jugoslavia in poi, in quelle regioni si è insediata una realtà legata all'estremismo fondamentalista ed integralista, che ormai è parte ben radicata di quegli Stati e influenza decine di migliaia di persone.
E' curioso che solo ora media, giornalisti e politici gridino al lupo, spaventati dalla possibilità di avere vicino a noi i terribili militanti dello Stato islamico; in questi anni questi signori si occupavano di cucina, di teatro, di poesia o di flora marina?
Dietro questo processo di radicamento integralista vi sono i governi di Stati nostri alleati, quali la Turchia e l’Arabia Saudita, membri della NATO o baluardi delle politiche criminali e devastatrici nel Medio Oriente che sovvenzionano la ricostruzione di scuole e moschee, per potere successivamente diffondere la propria linea ideologica attraverso tali istituzioni. Ad esempio si stima che, solo i fondi sauditi filtrati nei Balcani attraverso organizzazioni caritatevoli dedite al proselitismo, superino i 500 milioni di dollari
Eppure questi stessi soggetti integralisti in Iraq, in Cecenia, in Bosnia, in Serbia, nel Kosovo, in Libia, in Siria sono stati esaltati come combattenti per la libertà; sono stati finanziati, armati, sostenuti dai governi occidentali e dai media ufficiali; sono stati i protagonisti della "liberazione" di quei paesi da "regimi e despoti" che non li tolleravano e li combattevano…ma non erano "democratici".
Ieri eroi, oggi terroristi criminali! Campioni di "salto della quaglia", i nostri.
Il primo ministro del Kosovo H. Thaci, comandante dell'UCK
Dalle loro poltrone mediatiche mettono in guardia contro la possibilità che, sui barconi dei disperati che attraversano il Mediterraneo, possa viaggiare anche qualche terrorista del califfato; ed ora tremano alla visione di questo video che li mette davanti ad una realtà concreta: la concreta possibilità che il pacioso occidente, non solo possa ospitare qualche isolato terrorista pazzo, ma debba confrontarsi addirittura con una strategia di destabilizzazione sanguinaria, pianificata dall’Isis e dal Califfo che lo guida.
Ma questi luminari del giornalismo, della politica, dell'informazione di massa non sono a conoscenza dell’esistenza del Battaglione Dudaev in Ucraina, formato da 550 jihadisti tagliagole, reduci dell'Iraq, della Libia, della Siria, che stanno combattendo per la "democrazia e la libertà" in Ucraina contro le milizie popolari antinazifasciste del Donbass, cui è stato fornito un passaporto ucraino per motivi di "patriottismo", e col quale possono tranquillamente e legalmente prendere un aereo o un treno per raggiungere Roma, Berlino, Parigi, Londra, ecc. Altro che barconi…
Ma c'è un altro aspetto che deve essere posto in risalto, ed è la responsabilità dei politici, dei giornalisti, dei pensatori di destra e di sinistra, di tutti coloro che, in questi ultimi venti anni, chi in malafede, chi in buonafede, chi per condivisione politica delle strategie aggressive e imperialistiche, chi per semplice cecità, si sono resi, di fatto, complici di questa situazione.
Quando si denunciava che Bin Laden aveva il passaporto della "nuova Bosnia", quando si spazzavano via l'Afghanistan l'Iraq, Haiti, Grenada, il Burkina Faso di Sankara, la Jugoslavia, la Serbia, il Kosovo multietnico, la Libia, oggi la Siria e l'Ucraina del Donbass (che però non sono cadute); tutti questi signori profumatamente pagati, professionisti e illuminati politicamente, cosa dicevano, scrivevano, quali analisi proponevano?
A nessuno di questi signori viene in mente che la diffusione del jihad nell’area balcanica rappresenta il prodotto di un’opera occidentale di destabilizzazione che ha creato instabilità, oltre ad un immiserimento generale ed una disgregazione etnico-religiosa generatrice di odi tra i popoli. E quest’opera distruttrice è stata fatta in nome di una cieca logica di interessi immediati.
Tutto parte dalla diffusione, da parte dell'Isis, di un video dove si annuncia di voler "vendicare l'umiliazione subita dai musulmani in Kosovo, Albania e Macedonia"; così proclama nel video in lingua albanese Abu Muqatil Al Kosovi, un miliziano islamico kosovaro che si dichiara rappresentante dello Stato Islamico nella regione.
Il lungo video, diffuso dal Al Hayat media center, l'organo ufficiale dell'organizzazione, annuncia futuri attacchi nella regione balcanica, che saranno affidati a miliziani di origine albanese. "Arriveremo con gli esplosivi", dichiara fra le altre cose Abu Muqatil al Kosovi, originario del Kosovo. Abu Muqatil, preannuncia "giornate nere" per tutti quelli che, "in Kosovo, in Albania, in Macedonia ed in tutti i Balcani, hanno disprezzato i musulmani". Poi aggiunge: "dovrete aver paura di camminare per le strade, di stare nei vostri uffici, di dormire nelle vostre case. Con il permesso di Allah, vi strangoleremo".

Già dalla fine del 2013 il War Long Journal, citando la rivista specializzata SITE, aveva stimato che oltre centocinquanta jihadisti kosovari stavano combattendo nelle fila dell’opposizione armata siriana, oggi alcune fonti ufficiose parlano di quasi 2000 combattenti provenienti dai vari Stati balcanici. Fra questi c’è anche Abu Abdulah el-Kosovi che, nel video dell’ISIS, parla nella sua lingua madre albanese dell’importanza di estendere la guerra nei Balcani e in Europa. Si tratta di un fatto importante, perché evidenzia l’obiettivo da parte del Califfato di rivolgersi direttamente alle popolazioni di etnia albanese, ultimamente sempre più coinvolte nel conflitto siriano. Il fenomeno è in continua crescita sin dal 2011, anno in cui secondo le fonti dei Servizi di sicurezza serbi è cominciato l’afflusso di combattenti dai Balcani. A sostegno di questa tesi vi sono i dati riportati nell’articolo “Albanian Islamists Join Syrian Civil War” di Mohammad al-Arnaout (consultabile sul sito al-monitor.com). Secondo l’autore, infatti, i volontari non provengono dal solo Kosovo, ma più in generale da tutti quei paesi balcanici in cui è presente popolazione albanese di fede islamica, ossia Montenegro, Macedonia, Serbia (valle di Preševo) e, chiaramente, Albania, oltre a quelli provenienti massicciamente alla Bosnia.
Questa campagna di reclutamento, come riportato dall'autorevole pubblicazione Analisi Difesa, ha negli ultimi tempi preoccupato anche le autorità locali, soprattutto dopo che alcuni giornali, come Shekulli (il Secolo) di Tirana e Koha Ditore (Daily Time) di Priština, hanno pubblicato dei pezzi allarmanti sul flusso di combattenti verso la Siria. L’articolo più deciso è stato quello della testata kosovara, che ha puntato il dito contro la politica troppo “distratta” del Premier Thaci, nonchè contro le due moschee del paese, una nella capitale e una a Mitrovica, indicate come veri centri di reclutamento del terrorismo.
In Kosovo un altro fattore inquietante è rappresentato dal partito LISBA (il cui nome inglese è “Islamic Movement to Unite”) accusato, da alcuni osservatori locali, di essere direttamente coinvolto in queste attività. Questa realtà politica è guidata da Arsim Krasniqi e Fuad Ramini (nella foto sotto) che The Weekly Standard ritiene essere il vero leader carismatico, sfruttando due elementi che facilitano l’affermazione dell’integralismo islamico: la grandissima influenza che gli USA hanno sul paese e gli aiuti sauditi in favore della diffusione del wahabismo.
Il 12 novembre 2013 sei uomini furono arrestati in Kosovo con l’accusa di essere i responsabili del reclutamento di combattenti. Tuttavia i problemi del Kosovo non finiscono qui. Secondo varie agenzie di stampa, già l’anno scorso il territorio del Kosovo è stato utilizzato come centro di addestramento da vari gruppi armati siriani, rivoltisi all’UCK per migliorare le proprie preparazioni al combattimento. L'accusa più pesante e dettagliata fu quella di V. Čurkin, Ambasciatore Russo presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, già nel maggio 2012, aveva denunciato che “le autorità del Kosovo hanno dei rapporti con rappresentanti dell’opposizione siriana per addestrare insorti siriani sul proprio territorio".
Nell’agosto 2014 ci sono stati oltre 40 arresti di militanti e seguaci della rete del Califfato in Kosovo, mentre altri 17 erano sfuggite alla retata.

Nella foto sotto l'Imam della moschea El-Kudus a Gnjilane, Zekerija Cazim, uno dei principali istigatori e reclutatori della jihad in Kosovo, mentre viene portato in carcere

Nel settembre 2014, a Pristina, durante una seconda retata delle forze internazionali contro la rete locale dell'Isis, tra i 15 fermati (di cui 9 sono iman di moschee locali), vi era anche Shefqet Krasniqi (foto sotto), capo religioso della Grande Moschea di Pristina, che reclutava e indirizzava verso le zone di guerra in Siria e Iraq; si valuta che solo attraverso lui siano partiti da Pristina oltre 200 volontari, di cui 20 sono morti in combattimento.
Fuad Rakimi, il maggior leader estremista del Kosovo

Tra i nomi dei più noti jihadisti kosovari compare anche quello di Lavdrim Muhaxheri, comandante della Brigata Balcanica, battaglione che combatte al fianco dello Stato Islamico in Iraq e composto quasi interamente da miliziani di origine balcanica, apparso in un video in cui brucia il suo passaporto kosovaro e decapita un bambino accusato di spionaggio, come gesto di iniziazione (foto sotto). Lavdrim Muhaxheri è stato poi ucciso nella città Kobane, come riportato dal giornalista del "Times", H. Jaber.


Nella foto di sotto, che ritrae Muhaxheri, la persona alla sinistra del riquadro (cerchiata col rosso) è Muhammad Zekirj, un terrorista dalla Macedonia di Ohrid, che insieme ad un altro terrorista di nazionalità albanese macedone, Benjamin Imeri da Gërçec, è stato restituito all’ISIS dalla Turchia, in cambio di 49 cittadini tirchi rapiti. I due erano stati arrestati per l'omicidio di tre agenti di polizia turchi nel sud dell'Anatolia. Crimine che avevano commesso, secondo le autorità turche, insieme con un cittadino del Kosovo, Stand Ramadaniz.


Ecco uno dei "liberatori" del Kosovo alleati della NATO e dell'occidente, poi al lavoro in Siria e Iraq, con in mano la testa di un ragazzino siriano.


Bujar Abdia, un albanese che da molti mesi combatteva nelle file dello Stato Islamico, si è fatto esplodere in un attacco suicida nella provincia di Salahuddin, nel nord dell'Iraq, uccidendo 36 soldati curdi.
I Wahhabiti di Glogovac in Kosovo hanno minacciato di decapitare il deputato dell'Alleanza per il Futuro del Kosovo, e membro dell'Assemblea del Kosovo, Palu Lekaj. Oltre a Palu Lekaj, Abdia, capo della comunità di Glogovac, ha minacciato altri politici del Kosovo definendoli "infedeli".
In Siria invece è stato ucciso un altro albanese combattente nelle file dell'Isis: si tratta di Ekrem Hasan da Kline, fratello di Abu Hassani, che a sua volta sta combattendo in Siria.


Il giornale "The Economist" ha redatto un elenco dei paesi europei che hanno inviato jihadisti nelle zone di combattimento. In percentula, il Kosovo è in cima alla lista dei 22 paesi, seconda la Bosnia e quarta l'Albania. Una trentina di loro sono stati uccisi nei combattimenti.
Dalla sola area di Raska in Kosovo sono andati a combattere in Siria, nelle fila dello Stato Islamico, circa 40 wahhabiti; la comunità islamista radicale di Raska è formata da circa 120 persone che organizzano scuole wahhabite nei locali di case private.

Un jihadista kosovaro dell'Isis
Ma la situazione è gravissima anche in Bosnia-Erzegovina, dove esiste una presenza massiccia dell'integralismo e dello jihadismo, in particolare wahabita e salafita, che sono sul posto già dal conflitto degli anni ’90, quando migliaia di mujaheddin accorsero nel paese per combattere le forze serbe.
Sono pubbliche le denunce di attività di reclutamento per la Siria e, addirittura, dell’esistenza di uffici a ciò preposti, presenti nella Repubblica bosniaca; i dati ufficiali suggeriscono la presenza di bosniaci musulmani nella guerra contro Damasco. Alcuni giornali serbi, tra cui il Vecernje Novosti, hanno rivelato che sono quasi 600 i volontari attivi in Siria provenienti da Sarajevo e altri centri.
Quanti rammentano che l’attentatore di Francoforte del 2011, che uccise due soldati americani e ne ferì altri, era il kosovaro albanese Arid Uka, ed era stato addestrato nell’enclave salafita bosniaca di Zenica?
Sempre nel 2011 Mevlid Jasarevic, albanese nativo di Novi Pazar in Serbia, noto per i contatti con le cellule jihadiste di Gornja Maoca, era uno degli attentatori contro l’ambasciata USA a Sarajevo; insieme a lui c'era il ventitreenne Emrah Fojnica, morto poi in un attentato suicida in Iraq nel 2014.
Come riporta Veronica Castellano in Osservatorio Terrorismo, alcune delle zone che attualmente ospitano comunità di orientamento salafita in Bosnia sono i villaggi di Bihac (al confine settentrionale con la Croazia), Teslic, Zepce, Zenicae (nella zona centrale del Paese), Gornja Maoca e la città nord-orientale di Tuzla. Tali comunità rifiutano di collaborare e riconoscersi nella principale organizzazione islamica bosniaca, la Islamiska Zaidenica, e vivono secondo una interpretazione ultra-conservatrice della Sharia, senza telefoni o televisori, mandando i bambini in scuole coraniche (piuttosto che in scuole pubbliche) e seguendo i sermoni di imam estremisti come Nusret Imamovic, Jusuf Abu Muhammad al-Maqdisi, o Bilal Bosnic, quest’ultimo uno dei leader del movimento salafita bosniaco, che recentemente ha predicato anche nel nord Italia. Tra i più noti epicentri del reclutamento jihadista bosniaci, vi sono la Moschea Bianca e quella del Re Fahd, entrambe a Sarajevo

mercoledì 24 giugno 2015

Multinazionali ed evasione fiscale

Da tempo ci si interroga sulle multinazionali e sulla loro natura con inutili denunce del fatto che spesso e volentieri riescano ad aggirare il fisco. Non solo le multinazionali non creano lavoro e valore nei luoghi dove producono, ma creano anche scompensi enormi nel gettito fiscale, come peraltro evidenziato anche da un premio Nobel come Joseph Stilglitz. Ma evidentemente manca la volontà politica di fermarle, e anzi con il TTIP si andrebbe nella direzione del tutto opposta…
Con qualche anno di ritardo la questione annosa delle multinazionali ora è finita anche sul tavolo della Commissione Ue. Non si potrebbe altrimenti eludere tale problema dato che si chiedono continuamente sforzi economici al popolo, cui però non corrispondono sforzi adeguati da parte dei colossi, che anzi spesso e volentieri riescono a fare i furbetti e a massimizzare i profitti. Si pensi che un’impresa che opera in diversi paesi europei potrebbe arrivare a pagare il 30% di tasse in meno rispetto a una attiva solo in un Paese. Già questo dovrebbe far capire le proporzioni del problema ancor più che sono moltissime queste imprese che passano da una giurisdizione fiscale all’altra cercando sempre e comunque il tornaconto. Si chiama “elusione fiscale” e in questo senso la Commissione Ue ha rilanciato l’impegno a riformare la tassazione societaria per “combattere l’elusione fiscale, garantire la sostenibilità del gettito e rafforzare il mercato unico per le imprese“.
Il tentativo sarebbe quello di riformare la tassazione creando una tassa unica a livello europeo per le multinazionali per andare soprattutto a richiedere il dovuto nei luoghi dove le multinazionali generano gli utili. Del resto ci sono stati casi eccellenti, vedi Apple e Amazon, esempi di grandi colossi che riescono a stringere accordi con i governi locali arrivando a strappare imposizioni fiscale davvero ridicole, vedi il 2% ottenuto dalla Apple in Irlanda. Il coltello del resto lo hanno sempre loro dalla parte del manico dato che le multinazionali sono tra i pochi attori rimasti in grado di assumere lavoratori. Se un governo alza la voce ecco che le multinazionali possono tranquillamente minacciare di andare da un’altra parte, costringendo quindi i governi a concedere tassazioni ridicole. Ora che del problema si occupa anche la Commissione Ue, se non altro, il pubblico può constatare che evidentemente quelli che a inizio XXI secolo protestavano contro lo strapotere delle multinazionali forse avevano le loro buone ragioni. In questo senso proprio la Commissione ha anche pubblicato una sorta di lista nera degli Stati non cooperativi per quanto riguarda le politiche fiscali, e ci sono i soliti nomi: da Hong Kong fino a Monaco, le Maldive, le Bahamas e il Liechtestein.
Anche un premio Nobel per l’Economia come Joseph Stiglitz in passato aveva detto la sua circa il problema delle multinazionali e del fisco: “Le imprese multinazionali agiscono come imprese singole e unificate e pertanto dovrebbero essere soggette a imposizione in quanto tali. È giunto il momento per i nostri governanti di mostrare coraggio e riconoscere la finzione legale del principio di entità separata”. Infatti come dice Stiglitz le multinazionali godono di una sorta di immunità immotivata da parte dei governi che permette loro di avere molteplici identità e soprattutto di suddividere i profitti al di sotto della soglia minima imponibile. “Durante la transizione, le nazioni sviluppate leader dovrebbero imporre la minimum corporate tax, un’aliquota d’imposta minima sul reddito delle grandi società per arrestare la corsa verso il basso e tributi sulle multinazionali come singole società”, ha aggiunto. Ma senza la volontà politica di farlo, crediamo, le multinazionali continueranno a fare il bello e il cattivo tempo, magari arrivando a ricattare i governi chiedendo minori tasse e minori diritti per i lavoratori per creare investimenti e posti di lavoro. Non casualmente sono proprio le multinazionali tra i principali responsabili dell’abbassamento del costo del lavoro in Europa e sono loro stesse tra i responsabili del mancato sviluppo di molti paesi del Terzo Mondo.
Impossibile poi in questo senso non citare il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo economico tra Ue e Stati Uniti finalizzato in teoria a liberalizzare i mercati di merci e capitali tra Usa ed Europa. In molti ora cominciano a parlarne nonostante finora le trattative siano state condotte in rigoroso segreto per tenere lontano dal dibattito la questione. Secondo molti tale accordo non sarà niente altro che una sorta di gigantesco regalo ai colossi e alle multinazionali, schiudendo la porta a una privatizzazione totale di tutti i servizi pubblici essenziali. Una sorta di trionfo del privato sul pubblico che vedrà ovviamente le multinazionali americane farla da padrone assolute. Dulcis in fundo se il ‪#‎TTIP‬ dovesse venire ratificato un’azienda avrà la possibilità di citare in giudizio uno Stato qualora questo le vietasse di commercializzare i propri prodotti al suo interno. E soprattutto come mai nessuno risponde al perchè i negoziati si sono svolti in gran segreto o comunque lontano dalla stampa e dai riflettori? Insomma tutti a parole si mostrano contrari nei confronti delle multinazionali, quando poi si tratta di prendere misure concrete e di fare delle prove di forza, puntualmente tutti si piegano. Così facendo il rischio è quello che le multinazionali sostituiscano, progressivamente, i governi.

martedì 23 giugno 2015

Squinzi batte di nuovo cassa: "cancelliamo il welfare"

Sono passate solo poche settimane da quando, parlando dei rapporti con il governo Renzi e quindi della legislazione di favore da ottenere, Giorgio Squinzi si lasciò scappare un “non abbiamo più niente da chiedere”. Dopo l'approvazione del Jobs Act, in effetti, poteva sembrare che gli imprenditori di questo paese e di qualsiasi altro volesse venir qui, fossero satolli di incentivi e facilitazioni, ancorché a corto di idee industriali.
E invece no. Squinzi torna a dettare la linea al governo, aprendo il fronte del welfare, genericamente inteso, tutto “da rivedere”.
«La sostenibilità del nostro modello sociale passerà necessariamente dalla rivisitazione del sistema di Welfare. È tempo di avviare una riflessione complessiva su ammortizzatori sociali, sulle politiche attive, i servizi del lavoro e la formazione». Parlava davanti agli scarsi sopravvissuti di un settore evaporato, in questo paese: la chimica.
Ma non si è certo limitato a un discorso settoriale... Addirittura vorrebbe una “rivoluzione culturale”, mettendo definitivamente al centro l'impresa e i suoi “valori”, invece che quelli del lavoro. Insomma: un art, 1 della Costituzione che recitasse “la Repubblica italiana è fondata sull'impresa”. Con tutto quel che ne consegue.
L'elenco delle cose da cambiare fatto da Squinzi è molto lungo e variopinto. Ci infila dentro microtasse cervellotiche, pensate dai suoi quasi amici governanti per fare cassa nei momenti difficili e poi “rimaste lì”, come la accisa per il terremoto di Messina (1910!) che paghiamo tutti facendo benzina.
«La cultura anti industriale da noi è ancora ben diffusa e radicata. Questa è la riforma più difficile che dobbiamo realizzare. Gli imprenditori hanno bisogno di sentire intorno a sé una società che considera l'impresa come un patrimonio e un valore da difendere. Invece le migliaia di norme che si sono stratificate negli anni per renderci dura la vita dobbiamo ammettere che hanno avuto successo. E ancora non è finita. La manina anti industriale ogni tanto si affaccia nelle pieghe dei provvedimenti. I reati ambientali, il nuovo falso in bilancio, nuove autorizzazioni di varia natura, il canone sugli imbullonati - che faccio sempre fatica a raccontare all'estero tanto è assurdo - in generale una giurisprudenza studiata e scientificamente realizzata contro l'impresa, non nascono dal caso ma da una cultura, da un abito mentale diffuso che pensa ancora all'imprenditore come a un nemico della collettività».
Diciamo che se non ci avesse messo dentro anche i reati ambientali avrebbe potuto passare come un discorso di buon senso. Però proprio su questi reati, e soprattutto su alcune condanne comminate dalla magistratura (assai poche in confronto all'estensione del disastro ambientale doloso perpetrato da quasi tutte le imprese, finché non vengono colte sul fatto), Squinzi si era già speso molto, parlando appunto di “cultura anti-industriale”.
Risulta difficile per chiunque dotato di normale raziocinio capire perché, se lo sversamento di liquami industriali cancerogeni è un reato, questa sia una dimostrazione di “cultura anti-industriale”. Seguendo, con difficoltà, la sua logica, potremmo dire che un certo modo disinvolto di fare industria è una dimostrazione di “cultura stragista”. Ma non è necessario buttarla in ideologia. Bastano i fatti, per (s)qualificare l'argomentazione di Squinzi (peraltro titolare di un'industria chimica – la Mapei – specializzata in materiali per l'edilizia; due in uno, insomma).
Per il falso in bilancio, invece, si tratta forse di una incomprensione imputabile a scarse nozioni giuridiche: la Cassazione ha appena mostrato che la versione Renzi del "falso in bilancio" è anche più permissiva, per l'impresa, di quella voluta da Berlusconi...
Questa cultura, secondo Squinzi,
«ha radici lontane e si è alimentata nei decenni della diffidenza per il successo, per l'individualità, per il profitto. È una cultura che combatte il rischio, la valutazione e la responsabilità, e che cresce in un liquido di coltura fatto di un falso egualitarismo che vuole schiacciare il Paese sulla mediocrità. Tutto ciò non si risolve per legge, ma con valori civili diversi e noi abbiamo il dovere di costruire un percorso di crescita sociale collettiva fondato su chi investe e rischia, sul premiare chi è responsabile e crea lavoro, sull'imparare a restituire i risultati di ciò che si promette».
Oh, e diciamolo... Bisogna valorizzare le diseguglianze, anzi farne un esempio di virtù. Basta con quella pretesa novecentesca di voler campare soltanto perché si è venuti al mondo... Se non sei “competitivo”, crepa! E se non trovi lavoro, in effetti, per farti crepare basta tagliarti gli ammortizzatori sociali, la sanità pubblica, l'edilizia popolare (già fatto, da decenni...), l'istruzione pubblica (ma non più gratuita, anzi..), le pensioni.
E qui non poteva non scattare, pena l'esser qualificato un “gufo”, l'applauso al governo messo lì da Confindustria. «Le riforme avviate e alcune misure di politica economica adottate, testimoniano dell'impegno al cambiamento del Governo e, lasciatemi orgogliosamente dire, sono testimonianza importante anche del ruolo di Confindustria a favore delle imprese».
Mica ideologia, soldi e decreti contro il lavoro dipendente!
«Numeri e provvedimenti misurano la dimensione degli interventi avviati: 40 miliardi di soldi nostri che la pubblica amministrazione ha finalmente pagato, 5,6 miliardi di riduzione dell'Irap, 2,6 miliardi di abbattimento degli oneri sociali nel 2015, diminuzione del costo dell'energia, la nuova moratoria sui debiti bancari; nuovi incentivi agli investimenti privati, anche in innovazione; il decreto Poletti e il Jobs Act sul mercato del lavoro, la delega fiscale, l'alternanza scuola-lavoro, il credito d'imposta sulla ricerca e il patent box, l'impegno sull'internazionalizzazione».
Potrebbe bastare, no? No.
«Oggi al Governo non possiamo che chiedere di non smarrire la determinazione, perché la nostra società è ancora densa di rendite da demolire per lasciare spazio a equità, a competizione e mercato».
Non lasciatevi ingannare dalle aprole. “Equità”, se ricordate Monti e Fornero, è un principio da sviluppare verso il basso, non verso livelli migliori. Per esempio: esisteva un doppio mercato del lavoro, quello dei “garantiti” che avevano in contratto a tempo indeterminato e la protezione dell'art. 18, mentre i giovani e i vecchi precari non avevano nessuna tutela. Per “equità” sono state tolte tutte a tutti! Ora ogni lavoratore è spiabile e licenziabile in qualsiasi momento... Paradosso verbale: ora c'è un altro “egualitarismo”, è l'assenza di diritti sul lavoro.
Squinzi suggerisce anche la rpima mossa, e come argomentarla per non apparire troppo impopolari: la riforma dell'assistenza e del welfare devono «orientare la spesa a chi ne ha veramente bisogno». Sembra di sentire la telefonata al direttore del Corriere della Sera perché scateni gli Stella e i Rizzo contro le “posizioni di rendita”. Naturalmente sbattendo per ora in prima pagina, com'è giusto, ristoranti di lusso che pagano un affitto inesistente al Comune di Roma. Ma la conseguenza desiderata è già scritta: una stretta generalizzata su tutti gli assegnatari di un alloggio pubblico, un elevamento drastico “ma equo” degli affitti popolari per portarli a valori di mercato (tacendo sulla rendita immobiliare e i palazzi tenuti sfitti in attesa che i prezzi risalgano, in modo da “tenere su” - contemporaneamente – anche il livello degli affitti a libero mercato). Sia che ci sia dentro un ristorante alla moda o un pensionato ultraottantenne...

lunedì 22 giugno 2015

Atene è sola? Per ora sì

Il titolo “Praga è sola”, dell’allora rivista Il Manifesto durante il periodo dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dei paesi del patto di Varsavia, è di quelli che fece epoca. Denunciava la solitudine di un paese invaso nel silenzio, o nell’impotenza materiale, di tutta l’Europa. Si trattava soprattutto di una critica rivolta alla sinistra, al di qua ed al di là della linea che spaccava in due il continente, ai suoi ritardi e alle sue connivenze. Finì come sappiamo: l’invasione militare della Cecoslovacchia lasciò il posto ad un governo di nuovo coloniale, congelando economia e società di quel paese. Poco più di vent’anni dopo la Cecoslovacchia diventò uno dei tanti satelliti dell’economia neoliberale dell’area a seguito della caduta del muro di Berlino. L’economia socialista sperimentale degli anni ’67-’68, voluta dal nuovo corso del partito comunista cecoslovacco, i cui massimi dirigenti furono tutti arrestati prima e dopo l’invasione, non si era potuta sviluppare. Non solo, visto che nell’area la globalizzazione liberista richiedeva la frammentazione degli stati per funzionare (piccole patrie per diverse aree di mercato) nei primi anni ’90 il paese si spaccò in due: nacquero la repubblica ceca e quella slovacca.
A qualche decennio di distanza da tutta questa storia c’è da chiedersi se Atene sia sola e cosa comporti il suo eventuale isolamento. Indubbiamente Atene è sola a livello di vertici dell’eurozona. E’ impressionante vedere vertici, che siano di primi ministri o di capi dei dicasteri economici, dove il dissenso è solo di uno: Tsipras o Varoufakis. E la questione in ballo non è solo quella nazionale greca. Sono state messe in discussione le politiche di austerità dell’eurozona ma il risultato è invariato: solo i greci sono i dissidenti. Il resto è un muro liberista. E qui il significato politico è ben preciso: se l’eurozona punta, per sopravvivere, a deflazione salariale, modello economico con l’export come primato, e ad essere un nuovo spazio di attrazione dei capitali (con diverse concezioni, ed interessi su cosa significhi) per il continente e per la Grecia non può esserci che l’austerità. Non solo: lo stesso tentativo (complesso) di sganciamento dal rapporto tra crescita del debito pubblico e salvaguardia delle banche –operato tra governance continentale e Bce- approda comunque alla conferma delle politiche di austerità. No exit, insomma. Poi c’è l’altra questione: a parte la Spagna, il resto dell’Europa non fa ribollire le piazze a favore della Grecia. Eppure anche la metà delle partecipazioni alle manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2003 avrebbe messo seriamente in discussione la legittimità delle politiche di austerità. Atene è quindi sola e finirà come Praga? Sottomessa e poi magari divisa?
La situazione, in effetti, è differente e non solo perché allora l’invasione di un paese si misurava con i carri armati mentre oggi lo si fa con i prestiti del Fondo Monetario Internazionale (responsabile, non dimentichiamo, di un piano di “risanamento” della economia della Jugoslavia che ha causato la più sanguinosa guerra civile europea dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi). Ma anche perché la crisi dell’invasore può essere più veloce di quella del patto di Varsavia degli anni ’60 che ebbe bisogno di almeno vent’anni per maturare definitivamente la propria spettacolare implosione. E se la crisi dell’Eurozona, in qualche modo, accelera allora Atene può diventare, per forza di cose, un po’ meno sola. Certo l’asse franco-tedesco, che è l’asse bancario di chi si è fatto ripagare i debiti greci grazie all’intervento dei bilanci pubblici europei lasciando Atene alla fame, sulla Grecia non sembra cedere. Ma le frasi di Draghi sulla crisi greca “rischiamo di navigare in acque inesplorate” rivelano la fragilità di fondo dell’eurozona. Certo, sono le frasi di chi da una parte cerca di ammonire, avvertendo dei rischi in corso sui mercati finanziari, l’ala più dura dei paesi dell’eurozona. Ma sono anche le frasi di un istituto che, come oggi tutte le banche centrali, rilascia effetti annuncio ad uso dei mercati per giocare come un gigantesco fondo speculativo. Altrimenti i bond che emette finiscono per valere sempre zero. E così la Bce, in questo caso, deve generare un po’ di profitti sui bond pubblici dell’eurozona grazie a qualche notizia, oggi nella veste delle dichiarazioni di Draghi in persona, che muove un po’ la volatilità sul mercato (favorendo stavolta i ribassisti di ogni taglia. Non a caso lo stesso Draghi aveva parlato di possibile volatilità dei mercati le scorse settimane). Già perché, ad esempio, i fondi pensione tedeschi, a secco di rendimenti sicuri dall’obbligazionario pubblico, hanno bisogno di giocare sulla volatilità come, a suo tempo, fatto col rublo nel momento più duro delle sanzioni a Mosca. Quando si dice mettere a valore la notizia e l’incertezza, insomma.
C’è da chiedersi quanto è forte un avversario del genere, costretto ad anticipare un po’ di mosse della speculazione per non venirne travolto, causa movimenti ribassisti troppo repentini, oppure per favorire qualche fondo in affanno. E c’è da chiedersi, come ha fatto recentemente l’Economist, quali strumenti abbia questo avversario per affrontare, sempre con le solite misure di austerità, la prossima crisi. Perché l’Europa -se perdurano la flessione della locomotiva americana, il rallentamento della crescita globale e si rinnova la crisi del settore bancario e dei bilanci pubblici nel continente- rischia di non avere gli unici strumenti che piacciono al liberismo in questi casi: ribasso dei tassi (sono già a zero e, in alcuni casi, sotto lo zero), debiti delle banche trasferiti sui bilanci pubblici (un incubo la sola idea, infatti da anni si preparano politiche per evitare un nuovo 2008 in questo senso), leva finanziaria per l’economia e moneta competitiva (il regalo del dollaro alto non è destinato a durare in eterno nell’epoca delle currency war). Quindi l’avversario può essere fortissimo, se i vertici dei paesi dell’eurozona fanno blocco contro la Grecia, o debolissimo. Se questo blocco genera una crisi greca che scoppia in faccia agli stessi paesi dell’austerità –come ipotizzato dal Financial Times in inverno- o se una nuova ondata recessiva manda in corto circuito gli strumenti di politica monetaria, o di politica economica tout court, della governance europea. A quel punto la Grecia avrebbe maggior forza politica per far valere le misure antiausterità in Europa.
Giuste o sbagliate che siano le scelte fatte –onestamente non può averci convinto tutto di Syriza ma in politica è naturale vederla diversamente- i greci hanno comunque mostrato il coraggio epico di un popolo già espresso nel respingere la flotta persiana a Salamina. E sembra anche spuntare l’astuzia di Ulisse: se si applicano le regole dello stesso FMI ci vorrebbero perlomeno 15 mesi per maturare un vero default dopo la tranche di insolvenza dei pagamenti del 30 giugno. E, in ogni caso, con la Grecia piena di turisti in estate è difficile pensare che la Bce chiuda la liquidità bancaria a quel paese almeno fino a settembre. Tutto tempo guadagnato per logorare il gigante avversario e attendere le elezioni spagnole. Quando, se Podemos riuscisse a vincere, si potrebbe davvero parlare di assedio spezzato ad Atene. Per questo la stampa tedesca non ha esitato, su più testate, a definire in governo greco come un organismo di giocatori di poker. Tutto vero, l’azzardo sembra palese e le scommesse da vincere tante, ma in questo caso è il minimo stare dalla parte dei giocatori di poker. Perché Atene, al momento sarà anche sola, ma ha dimostrato di saper giocare a carte. E se vince barando ci sarà anche più gusto. Non è il piacere del tifo contro. Ne va della salute di un continente e del futuro delle generazioni che lo abitano.
Certo, l’Italia dovrebbe anche scoprire la questione greca come problema interno –estremamente più pressante delle vicende di Buzzi e di “er cecato” e delle litanie sull’onestà- ma il nostro è un paese strano. Spesso politicamente asimmetrico rispetto all’Europa: conflittuale quando nel continente tutto sembra tacere e pacificato e provinciale quando oltrefrontiera accadono le cose importanti. Intanto, teniamoci stretti i nostri coraggiosi greci. Che le potenze oscure che proteggono i bari li ispirino

domenica 21 giugno 2015

Non può esserci democrazia senza sovranità.

La crisi economica che ci attanaglia ha una causa precisa che tuttavia sfugge ai più. La causa, per essere individuata, richiede la comprensione di alcune nozioni giuridiche che spesso possono risultare noiose o distanti per la gente comune.
Torniamo dunque sull’argomento più importante e cerchiamo di spiegare a tutti perché la democrazia non può esistere senza sovranità e che dunque chi ci chiede di rinunciare ad essa è un nemico del Paese e della libertà. Diffidate di loro perché sono quelli che utilizzano la crisi per obbligarci a cedere sovranità.
Partiamo dalla definizione degli elementi che compongono uno Stato, essi sono:
A) Il popolo;
B) Il territorio;
C) La sovranità.
La differenza tra uno Stato democratico ed una dittatura sta semplicemente nel fatto che in democrazia la sovranità appartiene al popolo complessivamente inteso. Precisamente in una democrazia rappresentativa come quella italiana il popolo elegge i suoi rappresentati così delegando momentaneamente l’esercizio della sovranità agli eletti. Conformemente alla Costituzione dunque la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa (art. 1).
Ed ecco il punto, che succede se quote di sovranità vengono cedute? Semplicemente accade che i rappresentanti votati dal popolo non possono più decidere in determinate materie e che dunque quando il popolo tornerà a votare non avrà più influenza su di esse. Questo è ciò che è accaduto in materia monetaria ed economica in forza dei Trattati Europei. L’Italia ha ceduto la propria sovranità e dunque economia e moneta sono sottratte alle determinazioni sovrane della nostra popolazione. I nostri rappresentati hanno esorbitato i limiti del loro mandato cedendo il potere che avevano unicamente in delega.
La Costituzione non prevede in alcun modo la possibilità di cedere sovranità ma acconsente unicamente alle limitazioni di sovranità. Ciò è ovvio poiché se si cede la sovranità si smantellano, come detto, Stato e democrazia.
Orbene ai profani del diritto resta difficile distinguere tra cessione e limitazione di sovranità ma la differenza è davvero semplicissima ed ovvia. Limitare la sovranità significa contenere il proprio potere sovrano, ovvero non esercitarlo in determinate materie omettendo di legiferare oppure conformando la propria legislazione alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.). Cedere la sovranità invece significa consegnare un proprio potere ad un terzo soggetto esterno al Paese che lo eserciterà al posto nostro. Una sovranità limitata resta comunque nella totale disponibilità del popolo quella ceduta invece è persa per sempre.
Un esempio banale: se io ometto di esercitare un controllo alla frontiera semplicemente non esercito un mio potere sovrano. Limito la mia sovranità. Se invece consegno la mia frontiera ad uno straniero, ad esempio alla odiata Merkel, pacificamente cedo la mia sovranità volando la Costituzione e sospendendo la democrazia.
La politica monetaria europea è svolta esclusivamente dalla BCE che ha il potere esclusivo di emettere moneta nella zona UEM. Tuttavia può creare moneta solo a favore delle banche commerciali e non degli Stati dai quali è indipendente non potendo accettare neppure consigli o suggerimenti. Abbiamo ceduto dunque la sovranità monetaria sottraendo alla democrazia il potere di emissione monetaria. Un Paese in cui la moneta è sottratta al popolo non si può più definire democratico. Chi ha il controllo della moneta detiene il più importante potere d’imperio di una Nazione ed è in grado di imporre alla stessa le proprie scelte.
La crisi è legata al fatto che lo Stato non dispone di moneta in quantità sufficiente a sostenere economia ed occupazione. Il popolo non è libero di decidere democraticamente se immettere più moneta nel sistema economico, non è libero di scegliere la direzione economica del Paese. Non è libero, ad esempio, di preferire alla stabilità dei prezzi una sana inflazione atta a riassorbire la disoccupazione. Non è libero di stoppare alcune storture fisiologiche del libero mercato al fine di tutelare un preminente interesse pubblico.
Senza sovranità su ogni aspetto della politica nazionale non possiamo in alcun modo definirci ancora una democrazia. Non lo siamo tecnicamente.
Nulla può essere considerato più grave di questo. Tenetelo ben a mente quando considerate irrilevante per le vostre vite il tema della sovranità.

sabato 20 giugno 2015

Il vialetto del tramonto davanti a Renzi

Tre notizie nella stessa mattinata ci danno un quadro molto indicativo del clima politico. All'indomani delle elezioni regionali, prima ancora dei ballottaggi alle comunali che hanno segnato un trionfo grillino, titolammo sulla "spinta propulsiva di Renzi" come ormai esaurita. Stamattina le tabelle di Ilvo Diamanti, sul bollettino renziano per antonomasia - Repubblica - ci danno ragione, usando peraltro le stesse parole.
Lasciamo perdere la sterile soddisfazione di chi "l'avevo detto prima io" e approfondiamo un attimo. La seconda notizia è che Fabrizio Barca, incaricato della "mappatura" del Pd romano, ha completato la sua ricerca dichiarando che un quarto dei circoli territoriali è "dannoso", da chiudere, "feudi" senza controllo, gruppetti clientelari e presumibilmente fabbriche di tessere o di voti alle "primarie" a disposizione di gente poco affidabile. Un quadro da "clan dei casalesi", ma in piena capitale, che illustra bene come sia "evoluto", sul territorio", quello che una volra era il corpacccione del Pci-Pds-Pd: un vuoto in cui infilarsi per dare la scalata a posizioni istituzionali locali (per quelle nazionali, dopo l'arrivo di Renzi, si procede per cooptazione individuale nei circoli finanziari, industriali e professionali). Basta scorrere le pagine delle ordinanze per Mafia Capitale per sapere chi sono (o erano) i capicordata alla testa delle clientele peggiori.
Questa roba non è un partito. Non lo è più, seppure lo è stato (venticinque anni di "partito leggero" non passano invano). Non è più, insomma, un "corpo intermedio" che collega interessi sociali struttura intorno a un grumo di idee politiche, a degli orientamenti ideali e programmatici che possono essere trasformati in azione di governo o amministrativa più o meno coerente. Ma il Pd, si diceva fino alle elezioni del 2013, era "l'ultimo partito rimasto". Gli altri - Forza Italia e gli altri cespugli di centrodestra, per esempio - erano già delle strutture di raccolta delle clientele intorno a un padre-padrone; oppure (M5S) un reticolo virtuale di indignazioni temporanee (comunque capace di partorire gruppi parlamentari che hanno retto alla prova empirica, sia pure con perdite rilevanti).
Fa parzialmente eccezione la Lega Nord, più legata al radicamento territoriale localizzato vecchio stile, vanamente proiettata verso una dimensione nazionale di fatto irraggiungibile per come ha costruito la sua identità storica: "contro i meridionali e i romani". Ora cerca di sostituirli con i migranti, naturalmente usando gli stessi mezzi e gli stessi insulti razzisti. Ma l'operazione appare complicata, nonostante il regime abbia deciso da qualche tempo che soltanto Salvini deve poter arrivare a competere con Renzi, ospitandolo in tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche adisposizione, dalla mattina alla tarda serata.
Su quello che resta della "sinistra" ex parlamentare sarà meglio standere una lapide senza epitaffi. E pensare al futuro.
La terza è che verrà riesumato il defunto "patto del Nazareno", con Berlusconi pronto a suportare un governo che non ha più una maggioranza certa in parlamento, specie al Senato. "Stranamente", Repubblica non ne parla... Ma il segno è ormai palese: centrodestra e Pd sono esattamente lo stesso "partito", lo stesso ceto incaricato di amministrare la provincia italiana. Quando poi ci saranno le elezioni, faranno finta di dividersi ("votate per noi, sennò torna Berlusconi", "votate per noi, sennò vince la sinistra") per tentare di limitare l'emersione di terze o quarte forze e formare comunque un governo con la benedizione della Troika.
Cosa ci dicono le tre notizie, messe assieme? Che Renzi non catalizza più interessi, speranze, illusioni, malintesi; il suo elettorato potenziale - tra i sempre meno intenzionati a frequentare i seggi - è in drastico e rapidissmo calo. Renzi è sul vialetto del tramonto e si è già aperto il "casting" per trovare un sostituto. Cotto un guitto, se ne troverà certamente un altro.
Ma il dato più importante, strutturale, è un altro. Lo spazio della "politica", in questo paese, è ormai inesistente sul piano decisionale (le politiche economiche e di bilancio vengono scritte tra Bruxelles, Berlino e Francoforte, come dimostra il "megoziato" tra la Troika e la Grecia) e deviante su quello sociale. Un paese con i nostri livelli di disoccupazione, con i salari più bassi d'Europa, dove i lavoratori possono essere licenziati in qualsiasi momento e vengono spiati con ogni tecnologia possibile, con le pensioni e la sanità perennemente sotto attacco, con la scuola a pezzi e via di rottamazione, senza prospettive serie per i futuro a medio termine... viene intrattenuto con "l'invasione dei migranti" (che è un problema da affrontare, ma non il problema), o in aternativa con "il degrado che portano i Rom".
In questa situazione gli unici gruppi sociali che hanno la possibilità di far valere i propri interessi sono le imprese e le società finanziarie (oltra al Vaticano, naturalmente). Per tutti gli altri - ceto medio professionale compreso - non c'è più alcun canale di comunicazione continuativa e collettiva (categoriale) con le "istituzioni". Ognuno è solo con la propria impotenza e "deviato" per quanto riguada l'individuazione delle cause del proprio malessere.
In questo quadro soffocante, dove gli interessi dominanti sono nascosti dietro chiacchiere da osteria, si rischia seriamente che il cosiddetto "senso comune", quello vigente "tra la gente", sia dominato da temi devianti (migranti, sicurezza, ecc). E non si può pensare di competere contro questo senso comune in costruzione senza neanche possedere strumenti di comunicazione altrettanto potenti (più che ovvio che in quelli esistenti non si ha più diritto di parola, se non per facilitare la propria criminalizzazione".
Qualcosa si sta muovendo, il conflitto sociale si esprime ancora, anche se fa molta fatica (specie quanto a "soggettività") a costruire spazi non occasionali di convergenza unitaria contro il nemico comune. Non basta - sembra ormai evidente - la banale "aggregazione di scopo" (per una campagna, una manifestazione nazionale e/o locale), effimera e limitata quanto l'obiettivo. Occorre l'unità degli esclusi dal gioco (lavoratori, precari, disoccupati, pensionati, migranti, ecc); unità non tanto "ideologica" o peggio "comportamentale", ma intorno a un nuclo forte di interessi comuni. Serve una soggettività forte, nazionale e internazionale, altrimenti nessuno ti si fila. Nemmeno se "sanzioni" un "simbolo del potere".

venerdì 19 giugno 2015

Jobs Act. Il “Grande Fratello” sarà legale

Avete presente il “Grande Fratello”? Orwell lo scrisse pensando all’Urss ma in pieno 2015 ci sembra che sia il capitalismo a collimare con la visione del grande scrittore. Con le nuove norme del Jobs Act voluto da Renzi le aziende potranno infatti controllare pc e cellulari aziendali dei dipendenti senza il via libera dei sindacati.
Il confine tra pubblico e privato si fa sempre più labile e nell’era della tecnologia digitale anche gli spettri evocati da Orwell sul “Grande Fratello” diventano realtà. lo scrittore britannico lo aveva scritto pensando forse alla degenerazione dell’Urss ma si sbagliava, ora che lo spettro del comunismo non c’è più il capitalismo senza freni si mostra in tutta la sua rapacità, andando ad assomigliare proprio al mondo spettrale e controllato da lui immaginato. Esageriamo? Purtroppo no, con il Jobs Act fortemente voluto da Renzi infatti, le aziende potranno controllare computer, smartphone e telefoni cellulari assegnati per ragioni di lavoro ai dipendenti senza il via libera delle organizzazioni sindacali. Un pericolo serio anche se qualcuno ci tiene a precisare che le norme sulla privacy non verranno violate, questo vuol dire che le imprese dovranno informare i propri dipendenti sulle caratteristiche dei vari apparecchi aziendali loro forniti, informandoli della possibilità di effettuare controlli anche a distanza, con tanto di geolocalizzazione. Nel caso i dipendenti dovessero violare le norme fissate andrebbero incontro a sanzioni disciplinari di vario genere. Non solo, i dati immagazzinati potranno essere utilizzati per “ogni fine connesso al rapporto di lavoro, purché sia data al lavoratore adeguata informazione“. Certo, i benpensanti potranno obiettare che i lavoratori non saranno obbligati ad accettare queste condizioni, eppure di fronte alla scelta se lavorare o meno appare improbabile che qualcuno si rifiuterà per tutelare la propria libertà. Eppure lo Statuto dei lavoratori vieta i controlli a distanza dei lavoratori all’articolo 4, e anche le indagini sulle opinioni dei dipendenti (art.8), ma ora che il Jobs Act è entrato in vigore ecco che alcune di queste norme di tutela verranno probabilmente riviste, come ammesso anche da “La Stampa”. Insomma una stretta ulteriore a detrimento delle libertà dei lavoratori, sempre e comunque a favore della parte più forte, dell’imprenditore, che progressivamente sta ottenendo sempre maggior potere contrattuale nei confronti del lavoratore, costretto pur di lavorare ad accettare anche di venire geolocalizzato o spiato sui telefoni aziendali, col rischio che i datori di lavoro possano venire a conoscenza delle sue opinioni e delle sue abitudini.
E se pensate che esageriamo anche Susanna Camusso, segretario della Cgil, ha attaccato il ministero del Lavoro: ”E’ uno spionaggio nei confronti dei lavoratori. Se uno viene autorizzato a entrare nei mezzi di comunicazione che usano le persone, è difficile non definirlo Grande Fratello”. Eppure il governo fa finta di nulla dicendo che si tratta semplicemente dell’adeguamento delle norme dello Statuto dei Lavoratori del 1970 alle “ innovazioni tecnologiche nel frattempo intervenute”. Sarà..intanto il dubbio resta.

giovedì 18 giugno 2015

Il paese delle emergenze

“Emergenza nazionale”, “emergenza sicurezza”, “emergenza criminalità”, “emergenza immigrazione”, “emergenza rom”, “emergenza ambientale”, “emergenza idrogeologica”, “emergenza omofobia”, “emergenza economica”, “emergenza lavoro”,“emergenza sanitaria” e non può mancare, per quanto riguarda soprattutto il contesto internazionale, “l’emergenza umanitaria”. Tutti “allarmi” lanciati dai media che richiedono “governi di emergenza”. L’emergenza è ormai diventata una categoria della cultura nazionale alla cui lente deformante vengono osservate tutte le questioni. Praticamente non esiste settore della vita pubblica che non abbia la sua emergenza. Ma che cos’è che la rende l’ottica privilegiata attraverso la quale filtrare tutti i fenomeni sociali?
La parola “emergenza” deriva dal latino “e-mergere” che vuol dire “venire alla superficie dell’acqua”, quindi anche “innalzarsi”, “risaltare”, dunque “emergenza” è ogni fatto, avvenimento o fenomeno che era precedentemente nascosto, sommerso, e che, per qualche circostanza, viene all’attenzione di tutti. L’emergenza infatti non indica soltanto una condizione oggettiva del fatto osservato, ma anche soggettiva, dipendente dal punto di vista dell’osservatore. Può trattarsi di fenomeni sottaciuti, ignorati, considerati con sufficienza, e che, per un evento particolarmente traumatico, emergono all’attenzione del pubblico che prima li relegava all’ignoranza o all’incoscienza. La stampa e i media giocano un ruolo decisivo nel determinare il momento e l’evento che costituiscono un insieme di fatti come emergenza. Di conseguenza, a renderla tale più che l’oggetto in sé, è l’impressione che esso, attraverso il filtro dell’informatore, ha sull’informato.
Bisogna dire che il vocabolo è usato spesso sul modello dell’inglese “emergency” che indica una condizione particolarmente critica, la quale esige un’azione decisa che possa portare se non alla sua risoluzione alla normalizzazione, quindi ricondurlo a una condizione precedente a quella d’emergenza.
È chiaro che la dimensione attraverso cui essa è percepita come tale è il tempo. Un fatto immediato, la degenerazione improvvisa di un fenomeno di disagio, perché poco conosciuto o trascurato, costituiscono un’emergenza, la quale richiede un intervento rapido, senza fronzoli, che trascuri anche le normali procedure o la prassi corrente pur di intervenire tempestivamente. La parola “emergenza” fa appello alla rapidità di esecuzione, più che alla sua qualità, mette i sensi in allerta, perché si sia pronti a intervenire da un momento all’altro. Quando l’emergenza compare sui principali quotidiani, l’attenzione dei cronisti è sempre rivolta ai particolari tecnici dell’intervento richiesto. L’azione ha la priorità assoluta e la riflessione deve fare un passo indietro, eccetto in ciò che è indispensabile per la messa appunto rapida dell’intervento. La dialettica politica diventa un orpello non solo inutile, ma che potrebbe danneggiare la riuscita dell’intervento, il cui merito principale deve essere quello della tempestività. In effetti la procedura emergenziale è la negazione stessa della politica. Essa richiede l’attivazione di un sapere tecnico e operazionale, ma non dialettico. La politica necessita infatti di tempo; il tempo della riflessione, del dibattimento e infine della decisione come esito della mediazione di tutte le istanze e ciò vale in particolare per la politica dello stato rappresentativo e non autocratico, che assicura il diritto di parola a tutte le parti. L’emergenza non dà tempo. In stato di emergenza la mediazione, il diritto di rappresentanza, la politica in generale, sono lussi che non ci si può concedere. Tutta quella che sarebbe la normale procedura articolata nella dialettica e nella sintesi delle diverse parti riconosciute viene condensata nella decretazione di un’unica autorità il cui unico obbligo può essere solo quello di comunicare a giochi fatti ciò che si è deciso in altre sedi. Mai come in questo caso vale il detto popolare il tempo è tiranno.
Una delle definizioni che dà il vocabolario Treccani, per ciò che concerne il gergo giornalistico, del lemma “emergenza” è “situazione di estrema pericolosità pubblica, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali” nella quale compare non solo lo stato di allerta, la percezione del pericolo portata al massimo e quindi la tensione emotiva, che già di per sé è d’ostacolo alla riflessione e al dibattito, ma l’eccezionalità dell’intervento. L’intervento deve essere eccezionale non solo perché costituisce una deviazione rispetto alla procedura ufficiale, o comunque alla prammatica o a ciò che viene inteso di solito, ma anche per quanto riguarda il merito dello stesso intervento, al quale si richiede oltre che una rapidità fuori dal comune, come è stato detto, un’efficacia sicura, anche a costo di andare a scapito della precisione. La retorica dell’emergenza intima di lasciare il bisturi e di impugnare la sega. Un arto dovrà essere amputato per salvare l’intero corpo. La caratteristica saliente dei discorsi emergenziali è quella di riconoscere come inutili tutte le procedure “di diritto”, cioè quelle che riconoscono le diverse istanze e mirano alla mediazione. Per la retorica emergenziale esse diventano all’improvviso inutili per il semplice fatto che esiste un’unica istanza valida per tutta la durata dell’emergenza, ovvero la risoluzione dell’emergenza stessa. Finché questa non cessa, nessun’altra istanza può ottenere riconoscimento, perché non potrebbe essere applicata.
Non solo il pericolo a cui si è esposti a causa dell’emergenza viene descritto come superiore al pericolo del mancato riconoscimento di una, di più o di tutte le altre istanze, ma ogni altra istanza viene misconosciuta, in quanto può essere applicata soltanto l’unica procedura tecnica possibile che intervenga efficacemente sull’emergenza. Ecco perché le ragioni dell’autorità rappresentativa, come quella che viene descritta come “governo democratico-liberale”, vengono invalidate nella premessa. Venendo meno la pluralità delle istanze, viene meno la necessità di rappresentarle. TINA era lo slogan del Primo Ministro inglese Margaret Thatcher, l’acronimo di There Is No Alternative, riadattato per la campagna di privatizzazioni delle aziende pubbliche della Germania dell’est dopo il crollo del Muro di Berlino; non c’è alternativa all’azione immediata e alla sua preparazione meramente tecnica. Essa non sarà indolore, ovviamente. Ma l’emergenza ha la priorità rispetto a qualsiasi istanza. In questo modo i “governi d’emergenza” sedano quell’opposizione che in altre circostanze, entro una cornice “di diritto”, avrebbero dovuto riconoscere. In tempi recenti l’emergenza del debito pubblico ha invalidato la dialettica parlamentare. Bisognava “fare sacrifici”, amputare la parte in cancrena, intervenire pesantemente anche a costo di danneggiare una delle parti riconosciute. La sovranità stessa dello Stato rappresentativo viene messa in discussione dalla procedura emergenziale. Viene ceduta a istituzioni più rapide e più adatte ad applicare le procedure, sacrificando ad esse tutto il resto. La politica, nel suo significato originario, come autogoverno della polis, è annullata. Il governo deve essere demandato ad autorità esterne alla città, o alla nazione.
Non è certo la prima volta nella storia che fa la sua comparsa lo stato di emergenza. Procedure emergenziali esistevano già nella antica Roma repubblicana, come nel caso del dictator, che poteva essere incaricato dal Senato in caso di guerra. Ma era codificata con precisione, aveva dei limiti e una durata circoscritta. L’emergenza attuale invece trascende qualsiasi vincolo, comprese le leggi e le costituzioni. Non ha una durata precisa. Non esiste un limite temporale oltre il quale l’emergenza non possa protrarsi. Né un contenimento della frequenza con la quale si ricorra alle procedure emergenziali. Questo aspetto entra in contraddizione con la ragione stessa di simili procedure, perché ciò che le giustifica non solo agli occhi dei governi, ma persino delle opposizioni che le accettano, seppure a malincuore, come male necessario, è la rapidità. Il problema deve essere risolto in fretta, altrimenti rischia di diventare irrisolvibile. Eppure, le procedure di emergenza si protraggono sempre più nel tempo, ampliano sempre più la loro sfera di influenza, il numero di settori della società che avocano a sé, esse si normalizzano, realizzando uno strano paradosso: la costituzione di procedure e autorità di emergenza che però diventano la norma di fatto accettata e vigente in contrapposizione al diritto formale

mercoledì 17 giugno 2015

Le isole del tesoro. I paradisi fiscali e i tesori della globalizzazione

“Le isole del tesoro” è un saggio di Nicholas Shaxson, un giornalista inglese perseverante e coraggioso che racconta come è riuscito a rintracciare i soldi incassati dalle multinazionali, dai miliardari, dai banchieri e dai grandi operatori finanziari (Feltrinelli, 350 pagine, euro 19, 2012).
In questo libro accuratamente evitato dai giornalisti carrieristi, emerge un quadro angosciante: ai ricchi e alle multinazionali tutto è permesso, anche far credere che “un chilogrammo di carta igienica proveniente dalla Cina è stato venduto a 4121 dollari” (si chiamano prezzi di trasferimento), pur di aggirare le leggi e detassare quasi tutto. Nel mondo anglosassone esistono i trust di origine medievale e alla fine dei conti “solo il popolino paga le tasse” (Leona Helmsley, milionaria newyorkese che non è sfuggita alla giustizia americana).
In realtà il sistema offshore riguarda quasi tutte le multinazionali, più della metà del commercio mondiale, circa l’85 per cento delle emissioni bancarie e obbligazionarie internazionali, e “oltre la metà di tutti gli attivi bancari e un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese multinazionali vengono dirottati offshore”. I trust (anche quelli revocabili), consentono di evadere o eludere il fisco, mantenendo la segretezza e aggirando le normative di molti stati nazionali.
Però le Bermuda, Gibilterra, Malta, l’Isola di Man, le Isole Cayman o le Isole Vergini (britanniche e non), non sono i principali luoghi dei traffici più loschi. Con le deregolamentazioni degli ultimi anni anche in grandi stati europei come i Paesi Bassi e l’Inghilterra si ricicla denaro sporco o si realizzano grosse operazioni bancarie più o meno segrete. Londra è da molti decenni la capitale mondiale dei più grossi traffici finanziari defiscalizzati e gli Stati Uniti sono diventati il più vasto paradiso fiscale del pianeta (anche se all’interno dei vari stati ci sono leggi molto diverse).
Infatti, nonostante i numerosi giri di carte a Panama, Mauritius, Sark, Jersey o alle Isole Marshall e alle Isole Turks e Caicos, il vero malloppo è nascosto nei forzieri e nei conti correnti delle banche londinesi e newyorkesi. I buffi diversivi servono anche a far credere ai funzionari governativi di non poter mettere le mani sui soldi della casta finanziaria. Oramai l’uno per cento della popolazione mondiale detiene circa il 66 per cento della ricchezza e la vera isola del tesoro è Manhattan, una strana isola molto a portata di mano, bagnata da un banale fiume e da un piccolo braccio di mare.
Comunque Kennedy avviò delle indagini su alcuni sistemi finanziari nel 1961, che si conclusero il 22 novembre 1963, il giorno della sua misteriosa morte (anche nonostante la confessione di James Files, ex soldato e autista del mafioso Charles Nicoletti (potete cercare James Files su Wikipedia e YouTube). D’altra parte, l’assurdo attentato alle torri gemelle è forse servito a cancellare le pratiche finanziarie molto compromettenti di qualche criminale finanziario o di qualche servizio segreto. Infatti un moderno pirata finanziario può nascondere per sempre quasi tutti i crimini se riesce a fondere o a polverizzare le memorie di numerosi computer nei principali centri di supervisione, centri economici e centri di spionaggio (tutti presenti nei tre edifici crollati).
In molti casi “l’offshore è un covo di falsari dediti a truccare i conti delle società” (Jack Blum), e nel regno della finanza selvaggia “Gli effetti ideologici più stabili sono quelli che, per agire, non hanno bisogno di parola, ma del lasciar fare e del silenzio complice”

martedì 16 giugno 2015

Affondare il barcone... del neoliberismo

Le migrazioni forzate sono una conseguenza della globalizzazione, si può invertire la tendenza solo con un grande “Piano Marshall” per il sud del mondo. Il numero di persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita continua a crescere: dai 76 milioni del 1965 siamo passati ai 132 milioni del 1998. Proviamo a descrivere i principali fattori degli attuali flussi migratori.
Alle origini della schiavitù del debito
L’aumento dei tassi d’interesse deciso dagli Stati Uniti a seguito della seconda crisi petrolifera (1979) mandò in rovina quasi tutti i paesi “in via di sviluppo”, che nei decenni precedenti avevano maturato un debito piuttosto ingente, come i paesi africani che subito dopo la conquista dell’indipendenza (anni ’50-’60) avevano chiesto prestiti per costruire infrastrutture e sistemi di welfare. Con l’aumento dei tassi gli importi da restituire ai creditori schizzarono alle stelle, mentre con l’affermarsi del neoliberismo si riducevano sensibilmente gli aiuti ufficiali allo sviluppo, considerati una deleteria forma di assistenzialismo. Per poter pagare gli interessi molti paesi ricorsero a nuovi prestiti, che le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) concessero in cambio dei famigerati “aggiustamenti strutturali”: privatizzazioni, liberalizzazioni, taglio della spesa pubblica. I già fragili sistemi di welfare furono rasi al suolo, con l’inevitabile conseguenza di una catastrofe umanitaria senza precedenti (in quegli anni esplodeva la pandemia di Aids). L’assenza dei servizi fondamentali, come l’acqua potabile, la sanità o l’istruzione, fa sì che oggi nei paesi poveri tre persone su quattro muoiano prima dei 50 anni. In Africa il 55% della popolazione femminile è analfabeta. Tra il 1970 e il 2012 l’ammontare complessivo del debito estero dei paesi africani e mediorientali si è moltiplicato per 73, ed è stata già pagata 145 volte la somma inizialmente dovuta. Nel 2012, i paesi poveri hanno pagato ai creditori 182 miliardi di dollari, a fronte dei 133 miliardi ricevuti come aiuto ufficiale allo sviluppo. Si calcola che dal 1980 in poi questi paesi abbiano versato nelle casse dei paesi ricchi una cifra non inferiore a 3.350 miliardi di dollari, il che equivale a circa 42 Piani Marshall. L’Italia nel 2009 ha contribuito agli Aiuti Ufficiali allo Sviluppo con appena 3 milioni di euro (lo 0,16% del Pil, penultimo posto tra i paesi dell’Ocse).
La distruzione delle attività produttive locali
A seguito della crisi finanziaria globale, tra il 2007 e il 2008 ci sono state diverse crisi alimentari, con un aumento di 40 milioni delle persone sottonutrite. La piccola agricoltura alimenta il 70% della popolazione mondiale e occupa molte più persone rispetto all’”agrobusiness”, ma i piccoli produttori locali vengono progressivamente espulsi dalle loro terre a vantaggio dei grandi proprietari o delle imprese multinazionali. I trattati di libero commercio favoriscono l’agricoltura protetta da sussidi dei paesi ricchi e mettono fuori mercato i produttori locali. In molte regioni la popolazione rurale viene scacciata con la violenza da paramilitari al servizio di latifondisti, stati stranieri o imprese multinazionali per appropriarsi delle loro terre e risorse naturali. Molte terre, spesso grazie alla corruzione di politici e amministratori locali, vengono acquistate da paesi ricchi (non solo Usa e Ue ma anche Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud) che temono una futura scarsità di cibo e acqua. Spesso si tratta di investimenti speculativi e le terre vengono lasciate incolte, oppure vengono utilizzate per la produzione di alimenti destinati all’esportazione o di biocarburanti. I metodi di coltura intensiva riducono fortemente la fertilità del suolo e avvelenano l’ambiente con sostanze chimiche. Nel settore della pesca, i giganteschi pescherecci dei paesi ricchi che operano nelle acque internazionali fanno man bassa delle risorse e il pesce che rimane ai piccoli pescatori che lavorano sottocosta è sempre più scarso (a questo si collega anche il fenomeno della pirateria in alcuni paesi tra cui la Somalia).
Cambiamenti climatici
Secondo le Nazioni Unite, oggi le persone esposte al rischio di disastri ambientali nel mondo sono circa un miliardo. Molte di queste persone dovranno abbandonare le proprie terre e la maggior parte non potrà più fare ritorno nel luogo di origine. Già nel 2007-2008 i “profughi ambientali“ sono stati 70-80 milioni, ma nel 2050 potrebbero arrivare a 200-250 milioni. I paesi meno sviluppati sono ovviamente i meno responsabili per le emissioni di gas serra, ma ad essi appartiene il 90% delle persone colpite da disastri climatici nell’ultimo decennio.
Guerre
Nel 2013 il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo è arrivato a 51,2 milioni di persone, ben sei milioni in più rispetto all’anno precedente. In Africa si è assistito a nuovi esodi forzati, in particolare nella Repubblica Centrafricana e nel Sudan del Sud, ma questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria, che alla fine del 2013 aveva già causato 2,5 milioni di rifugiati e 6,5 milioni di sfollati interni. Oltre la metà dei rifugiati a livello mondiale è costituita da siriani, afghani e somali. Come si vede, provengono da regioni interessate da interventi militari dell’Occidente (diretti o per procura) a fini di controllo delle risorse naturali. Alcuni di questi Stati sono stati trasformati in “failed states”, dominati dai signori della guerra e privi di qualsiasi capacità di provvedere ai più elementari bisogni dei loro cittadini.
Un dibattito insulso
Quanto sopra descritto non è certo una novità. Quello che sorprende è che, in questo incredibile paese, nell’attuale dibattito sull’immigrazione non ci sia traccia di queste considerazioni. Il dibattito si è incentrato sulla questione dei barconi come se fosse possibile impedire a centinaia di milioni di persone in lotta per la sopravvivenza di trasferirsi nei paesi ricchi solo rendendo difficoltoso il viaggio o arrestando chi si incarica di trasportarli. Chi dice “aiutiamoli a casa loro” dovrebbe considerare che il denaro inviato dai lavoratori emigrati ai familiari rimasti in patria oggi rappresenta un flusso finanziario imprescindibile per i paesi in via di sviluppo. Secondo i dati della Banca Mondiale, le rimesse ricevute nel 2013 ammontano a oltre 410 miliardi di dollari, circa tre volte il valore complessivo di aiuti concessi dagli stati occidentali. Vi sono paesi che dipendono in buona parte dalle rimesse: per il Tagikistan, ad esempio, rappresentano il 48% del Pil, per il Kirghizistan il 31%, per il Nepal e il Lesotho il 25%, per la Moldavia il 24%. Gli immigrati in Italia nel 2011 hanno inviato nei loro paesi 7 miliardi di euro, di cui dalla Toscana (2007) 868 milioni di euro. Sull’altro versante, solo degli ingenui possono pensare che la soluzione ai problemi dei paesi poveri possa essere l’apertura generalizzata delle frontiere, sostenendo di fatto la deportazione (più o meno coatta) di centinaia di milioni di persone sull’altro emisfero, una forma post-moderna di tratta degli schiavi che ha un impatto devastante sia sui paesi di provenienza che su quelli di accoglienza.
Quali soluzioni
C’è quindi una sola soluzione al problema delle migrazioni forzate ed è il capovolgimento delle politiche neoliberiste attuate negli ultimi trent’anni e un “piano Marshall” per il sud del mondo, a partire dalla cancellazione del debito. Questi investimenti creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro sia nei paesi poveri che per i giovani dei paesi ricchi (tecnici, operatori sanitari, insegnanti...) nel settore della cooperazione. Restituendo la terra ai contadini (anche in Europa dove decine di migliaia di piccole imprese chiudono ogni anno), verrebbe garantita la sovranità alimentare e difesi gli ecosistemi dalla devastazione provocata dall’agrobusiness e dall’estrattivismo. Inoltre, avviando la transizione alle energie rinnovabili e abbandonando i combustibili fossili - il cui controllo è anche il movente principale degli interventi militari occidentali - si fermerebbe il cambiamento climatico. In questo modo nascerebbero anche nuove relazioni basate sulla solidarietà internazionale anziché sullo “scontro di civiltà”, sconfiggendo in una grande battaglia culturale i fanatismi politico-religiosi che si nutrono della frustrazione e della miseria. Le classi popolari del nord e i potenziali emigranti nei paesi poveri sono dunque sulla stessa barca (anzi, sullo stesso barcone): il dominio del capitalismo finanziario produce crisi, instabilità e disuguaglianza ovunque. E va abbattuto.

lunedì 15 giugno 2015

La Francia si approfitta delle crisi nel Medio Oriente per vendere i suoi armamenti

Le autorità francesi, approfittando delle situazioni di crisi e di conflitti scatenati in Medio Oriente (dalla Siria all’Iraq, allo Yemen), di cui il governo francese è stato corresponsabile assieme alle altre potenze occidentali, stanno cercando attualmente di incrementare il loro commercio di armamenti di fabbricazione francese nei vari paesi della regione.
“La Francia ultimamente ha cercato di avvicinasi sempre di più ai paesi del Golfo Persico, alle monarchie del Golfo, come il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti (EAU). ed anche all’Egitto per convincere i governi di questi paesi ad acquistare decine di caccia bombardieri, elicotteri ed altri armamenti francesi”, lo afferma il portale di informazioni Emirates247.
Secondo questa fonte, la Francia, nel mezzo delle critiche situazioni di paesi come la Siria e l’Iraq, sconvolti dai conflitti e dal terrorismo, cerca di fregiarsi del titolo di principale esportatore europeo di armi nel Medio Oriente.

La Francia aspira a raggiungere gli USA per il livello del business della vendita delle armi. L’Eliseo vuole approfittare anche di alcune discrepanze sorte di recente tra Washington e paesi come l’Arabia Saudita e gli EAU per alcuni fattori politici e sostituirsi a Washington e guadagnare l’assoluta fiducia dei suoi alleati arabi.
Caccia Rafael
Questo spiega l’appoggio incondizionato e le forniture di armi che il governo Hollande offre alle milizie terroriste che combattono in Siria per rovesciare il governo di Bashar al-Assad, milizie sponsorizzate e finanziate dai sauditi e dal Qatar, nonostante che questi gruppi stiano commettendo massacri e crimini di guerra fin dall’inizio della crisi siriana.
Inoltre il governo di Parigi è uno dei principali alleati del Qatar con cui realizza ogni anni manovre militari.
Più di recente la Francia, nonostante le forti critiche sorte da parte dei gruppi a difesa dei diritti umani, ha firmato in Febbraio con l’Egitto in contratto per la vendita di equipaggiamenti bellici per un importo di 5,9 milioni di dollari.Il pacchetto venduto dalla Francia include 24 aerei da combattimento tipo Rafale ed una nave del tipo fregata lanciamissili.

sabato 13 giugno 2015

Jobs Act, lavoratori mitragliati a raffica

Una raffica di decreti, approvati dal consiglio dei ministri senza neanche leggerli (sono materia complessa e contorta, come stiamo per vedere), dà corpo e sostanza alla restaurazione del potere aziendale, riportando le condizioni dei lavoratori dipendenti alle condizioni del 1953.
Ogni singolo decreto, su ogni aspetto specifico della condizione di lavoro, è figlio di un'unica filosofia unitaria: l'impresa può fare ciò che vuole, con regole minime utili quasi solo al rilevamento fiscale, il lavoratore non può nulla. Tantomeno difendersi, resistere, contrattare da pari a pari. Basterebbe il decreto che autorizza la “sorveglianza a distanza” - estesa a smartphone, tablet, computer, telefoni, oltre che ovviamente alla libertà di installare telecamere fin dentro ai bagni – per far capire che il lavoratore d'ora in poi potrà essere trattato come un detenuto, ma con l'obbligo di lavorare. Velocemente e senza interruzioni né distrazioni.
Proviamo ad andare con ordine, premettendo che non abbiamo ancora davanti i testi denifitivi, ma solo sintesi giornalistiche più o meno estese e affidabili. Non mancherà occasione per compagni più esperi di noi in materia (sindacalisti, giuslavoristi, ecc) di definire un quadro ancora più dettagliato e preciso.
Saltiamo anche a piè pari il decreto che autorizza il “demansionamento” del lavoratore quando l'azienda si “riorganizza” (ovvero quando vuole, perché la produzione è sempre in via di riorganizzazione), rinviando al chiarissimo intervento di Giorgio Cremaschi su questo giornale.
Contratti a termine. I media vendono il contenuto di questo decreto come “una stretta” all'uso fittizio di questa forma contrattuale per nascondere un rapporto continuativo. Ma è esattamente il contrario. Non c'è infatti alcun obbligo per l'impresa di addurre delle “causali” per il ricorso a questa forma contrattuale invece che al contratto a tempo indeterminato. Resta anche il 20% come tetto massimo di contratti a termine (rispetto al totale dei dipendenti), ma il decreto si preoccupa soprattutto di rassicurare l'azienda che sforerà questo limite: il rapporto di lavoro non verrà comunque mai trasformato in contratto a tempo indeterminato. In ogni caso, se alcuni sindacati saranno d'accordo, a livello aziendale si potrà derogare da questo limite. Ma ci sono anche numerose possibilità di derogare senza contrattazione (es: le nuove imprese, ecc).
Altro regalo ai padroni: i lavoratori "over 50" non vengono conteggiati ai fini del raggiungimento della soglia limite; in pratica, un'azienda potrebbe avere soltanto lavoratori “a termine”, basta che rispetti la giusta proporzione tra over e under 50. A chi comunque dovesse violare anche questo confine larghissimo, verrà al massimo comminata – come prima - una multa, pari al 50% del salario corrisposto. Ma qui il governo ha voluto aggiungere alla beffa il danno: la normativa precedente prevedeva che i soldi versati come multa finissero al lavoratore, il decreto glieli leva di tasca per girarli al fisco!
Falsi co.co.co. Altra “stretta” inesistente. Anzi. Per esempio si può assumere “collaboratori” senza che sia più necessario presentare un “progetto” cui dovrebbero collaborare... La nuova norma promette, sì, di considerare “rapporto di subordinazione” ogni co.co.co. dove si verifichino “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e organizzate dal committente” (in effetti un “collaboratore” dovrebbe potersi “autorganizzare”, specie su tempi e luogo di lavoro). Ma viene stilata una lista di “eccezioni” così lunga da coprire di fatto qualsiasi fattispecie: si va dagli “accordi normati da contratti collettivi” ai professionisti, dalle società sportive agli organi di amministrazione, ecc. Significativa, rispetto alla prima stesura, la cancellazione della formula “prestazioni di contenuto ripetitivo”, che avrebbe potuto rendere illegale la collocazione di un co.co.co. alla catena di montaggio o simili. In ogni caso, i termini usati sono talmente generici che “questa normativa resta ampiamente soggetta a interpretazione”, dicono già alcuni giuslavoristi. E non è difficile immaginare in quale direzione si muoverà l'interpretazione delle aziende...
Apprendistato. SI introducono modifiche all'apprendistato “per qualifica e diploma”, olte che per “alta formazione e ricerca”, dando così vita a un “sistema duale” che lascia inalterate le “funzioni basse”. In pratica, si dà all'azienda la possibilità di far valere il periodo di “apprendistato” come se fosse un ciclo di studi. Una possibilità che chiarisce meglio di un faro quale sia la filosofia della “buona scuola”. Di fatto, si apre al lavoro minorile come “professionalizzante”, facendo entrare in produzione dei quindicenni che risulteranno “diplomati” allo scattare della maggiore età o a conclusione del periodo di apprendistato.
Somministrazione. Una sola innovazione: la cancellazione delle “causali” che l'azienda doveva addurre per ricorrere a questa tipologia contrattuale. Anche qui viene fissato un “limite del 20%” rispetto al totale degli addetti, naturalmente “derogabile” con accordi aziendali peggiorativi.
Part time. Vengono ammessi ancora gli straordinari, ma solo nella misura del 15% rispetto all'orario settimanale concordato; la retribuzione dovrebbe anch'essa salire del 15% rispetto alle ore normali. Ma si può sempre e comunque “derogare”...
Voucher. Sarà utilizzabile fino a 7.000 euro per le “prestazioni occasionali”. In pratica, si allunga il periodo di lavoro considerabile “occasionale”, fino a coprire – a seconda del salario corrisposto – anche più di sei mesi.
Conciliazione vita-lavoro. Si allungano i tempi utilizzabili per il congedo parentale nel caso di cura dei bambini, ma bisogna anche considerare che il livello salariale è appena del 30% per chi deve accudire bambini fino ai sei anni, e addirittura zero fino ai dodici anni. In ogni modo, il periodo utilizzabile dal lavoratore è comunque di soli sei mesi. In alternativa, potrà passare in part time al 50%.

Fin qui i decreti approvati in via definitiva e quindi operativi non appena firmati dal presidente della Repubblica.
Poi ce ne sono quattro “approvati in prima lettura” che sono destinati a stravolgere sia gli ammortizzatori sociali che l'attività ispettiva, senza dimenticare la “semplificazione” - la libertà, per l'azienda – dei controlli a distanza su ogni singolo lavoratore.
Il più rilevante nell'immediato riguarda però gli ammortizzatori.
La logica è sempre la stessa: meno diritti per tutti. Come si fa a nascondere questo scempio? Semplice: si concede qualcosa a chi non aveva quasi nulla e si toglie sostanziosamente a chi aveva una protezione più robusta.
L'esempio è immediato. La cassa integrazione viene estesa anche alle aziende da 6 a 15 dipendenti. Bisogna però sapere che a) la cig è un istituto finanziato con contributi delle aziende e dei lavoratori, non dallo Stato; b) la cig viene chiesta dalle aziende, perché permette loro di non pagare gi stipendi per un certo periodo; c) la cig di questo tipo di imprese era fin qui solo “in deroga”, e questa veniva invece pagata dallo Stato; d) i lavoratori licenziati usufruivano soltanto dell'assegno di disoccupazione.
Il cambiamento consiste in pratica in questo: ora aziende e lavoratori (da 6 a 15) verseranno un'aliqota mensile che servità a finanziare la cig (alleggerendo i conti dello Stato).
Dov'è la perdita? Per i lavoratori di questo tipo di imprese (salvo smentite da analisi più approfondite) forse non c'è, ma è sostanziosa per tutti gli altri.
Scompare infatti la cig “straordinaria” resta solo quella "ordinaria". In pratica, solo per le aziende colpite da crisi congiunturali (alluvioni, terremoti, ecc).
Soprattutto viene ridotta a soli 24 mesi (anziché 48!). E se, giustamente, viene estesa anche agli “apprendisti”, non sarà però più utilizzabile in caso di chiusura dell'azienda. Che era poi il campo di applicazione della cig “straordinaria”. Quindi: periodo di tutela dimezzato, leggera estensione della platea, esclusione definitiva di una tipologia di cig tra le più frequenti in periodi di crisi e di chiusura di un gran numero di stabilimenti.
L'unico ombrello universale resta perciò il Naspi – nuovo nome dell'assegno di disoccupazione, che sostituisce anche la “mobilità”. Anche qui si toglie molto fingendo di concedere qualcosa: il periodo coperto dal Naspi passa da 18 a 24 mesi (una buona notizia per chi aveva solo questa possibilità; non sono molti, però), ma scompare la “mobilità” che durava tre anni (e di cui usufruiscono la maggior parte dei lavoratori licenziati).
Con in più la licenziabilità ad libitum, dopo la cancellazione dell'art. 18... Non c'è angolo del rapporto di lavoro in cui un "dipendente" non possa essere raggiunto da questa raffica. Benvenuti negli anni '50!