venerdì 30 gennaio 2015

Effetto liberalizzazioni: in dieci anni tariffe aumentate del 41%

Acqua, luce, gas, rifiuti. E ancora: pedaggi, trasporti ferroviari e urbani. Non v’è settore nel quale, nell’ultimo decennio, le tariffe dei servizi non siano cresciute in misura quasi esponenziale.
A rilevarlo è un’analisi condotta dal centro ricerche di Federconsumatori: “La crescita più marcata dal 2004 al 2014 è stata quella delle tariffe dell’acqua (+80,1%), dei rifiuti +70,3%), dell’energia elettrica (+48,4%), dei trasporti ferroviari (+46,2%), del pedaggi autostradali (+46,5%), del gas (+42,9%), dei trasporti urbani (+33,5%)”. Le stime dell’associazione non si discostano molto da quelle prodotte, non più tardi di quest’estate, anche dalla Cgia di Mestre.

L’aumento delle tariffe viene considerato causa del “grave impoverimento delle famiglie a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi anni”. Così come nella succitata analisi a firma Cgia, anche per Federconsumatori la motivazione di questi costanti e continui ritocchi all’insù è da ricercarsi nell’intervenuta liberalizzazione di molti servizi: “La concorrenza in alcuni servizi non ha funzionato o non è mai decollata, la mancata vigilanza, il peso sempre più forte della pressione fiscale e, in alcuni casi, vere e proprie speculazioni hanno portato ad un aumento insostenibile delle tariffe”.

mercoledì 28 gennaio 2015

Senza via d’uscita? La fine dell’Età dell’Oro

In diversi articoli che hanno trattato l’evoluzione dell’economia capitalistica, a partire dal dopoguerra, è risuonata spesso la famosa frase “Quando è iniziato il declino della classe media?”. Alcuni accademici e studiosi hanno individuato il grande cambiamento a cavallo degli anni 70 e 80, quando l’economia neoliberista si impose in Occidente, irradiandosi poi nel resto del mondo, attraverso una serie di “riforme” promosse a più livelli, dalla singola nazione fino ai grandi accordi internazionali per la liberalizzazione degli scambi.
Il trentennio precedente aveva rappresentato per la classe media dei paesi sviluppati un’epoca d’oro, grazie alle politiche keynesiane e alla ricostruzione post seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti al termine del grande conflitto si ritrovavano nel ruolo di superpotenza e con il controllo di quasi il 50% del Pil globale. Grazie all’intelligenza dei leader di allora (per esempio il piano proposto da George Marshall), seppero dar vita ad un sistema stabile in grado di rilanciare in breve tempo l’Europa e il Giappone, nonostante le immani distruzioni e i milioni di morti. Le particolari condizioni geopolitiche, economiche, sociali e culturali favorirono l’avvento della società del benessere e l’estensione del sistema industriale-tecnologico su scala planetaria. Ma ovviamente la ricchezza del primo mondo fu in parte “pagata” dalla spoliazione dei paesi arretrati in Asia, Africa e Sud America, dove venne sperimentato tutto il feroce potere del Sistema, attraverso i saccheggi delle risorse, ma soprattutto attraverso la pervasiva colonizzazione economica (decisamente differente a livello di impatto rispetto al vecchio colonialismo imperialista ottocentesco), che finì per distruggere i delicati equilibri di quelle società.
Nonostante il continuo estendersi del potere occidentale e lo scarico delle tensioni intrinseche del modello capitalistico sulle popolazioni più povere, lentamente si fecero largo in numerosi settori della società occidentale dei cambiamenti decisivi, i quali avrebbero decretato la fine del metodo keynesiano. L’avvento della scuola monetarista di Milton Friedman e altri studiosi (sperimentata per la prima volta in Cile sotto la dittatura di Pinochet), insieme alla progressiva liberalizzazione dei commerci tramite gli accordi Gatt, mutarono il quadro dell’economia globale e le sue politiche. Ma furono soprattutto l’innovazione tecnologica, come la progressiva finanziarizzazione dell’economia, le modifiche strutturali delle corporations, l’avvio della flessibilità nel mercato del lavoro e lo sviluppo della robotica, a modificare l’assetto economico.
Il vecchio sistema di Bretton Woods, di fronte all’accelerazione del sistema industriale-tecnologico, si rivelò sempre più inadeguato, andando incontro a molteplici crisi, tra cui quella fondamentale nel 1971, quando Nixon pose fine ai vecchi accordi dando il via al sistema del Fiat Money. Un cambiamento importatissimo che nel giro di pochi anni porterà, insieme ad altre variabili, all’ascesa delle forze neoliberiste culminate nell’epoca Reaganiana e Thatcheriana.
Le sicurezze del vecchio mondo (il welfare state, il posto fisso, lo sviluppo costante e il diffondersi del benessere materiale a più strati della popolazione) incominciarono ad essere lentamente incrinate. Ma al contrario di certe retoriche complottiste, non fu solo semplicemente il disegno delle élites occidentali, ma la conseguenza inevitabile di un cambiamento sistemico epocale a cui le nostre classi dirigenti non si opposero, ma anzi favorirono in nome dei loro interessi. Invece di riformare il modello socialdemocratico e i suoi pesanti difetti (tra cui le elevate inefficienze nei settori pubblici), preferirono mutarlo in favore di un parassitismo elitario, le cui gravi conseguenze giungono ora a maturazione. Ma molto probabilmente, anche con i migliori riformatori, sarebbe stato impossibile mantenere certi standards qualitativi per lo sviluppo della middle class, in un mondo dove sarebbero emerse nuove potenze, nuovi mercati e miliardi di nuovi consumatori.
Dopo anni di battaglie e “riforme” erano pronte e funzionanti le strutture del nostro turbo-capitalismo, le quali illusero milioni di baby boomers nei ruggenti e illusori anni 80 e 90.

martedì 27 gennaio 2015

La svalutazione dell’euro

Con qualche anno di ritardo e dopo tante resistenze interne (ed esterne) Mario Draghi ha annunciato il Quantitative Easing, ossia l’acquisto di titoli pubblici per mantenere la stabilità dei prezzi e combattere la deflazione nell’Eurozona. Il piano di acquisto complessivo vale 1.140 miliardi, e precisiamo che rispetto alle cifre di cui si parlava inizialmente (attorno ai 600 miliardi) il Presidente della BCE è riuscito a ottimizzare il massimo, compromessi permettendo. Un bazooka da 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 di pezzi di carta. Un aumento di liquidità di cui si era paventata l’ipotesi già dallo scorso anno e che in termini assoluti forse doveva essere ancora più espansiva. Il compromesso maggiore rispetto ad un aumento di liquidità è stato però che da una parte l’80 % del rischio dei nuovi acquisti di bond sarà assunto dalle banche centrali dei singoli stati (la BCE se ne farà carico solo per il restante 20%) ma poi ci sono sul piatto come contropartita, le famose “riforme”
Alcuni economisti non vedono di buon occhio la mossa di Mario Draghi: in effetti se partiamo dal fatto che la recessione dell’euro-zona è ormai un problema di economia reale, e se presupponiamo da un punto di vista neoclassico che variabili monetarie- come appunto politiche monetarie non convenzionali- non influiscono sulle variabili reali, l’attuale bazooka non partorirà nulla se non qualche percentuale in più di inflazione. Può darsi, sebbene vi siano studi che stimano aumenti del Pil di quasi il 2% tra quest’anno e il 2016. Va anche detto che l’attuale manovra espansiva, se consideriamo il mandato della Banca Centrale Europea, è legittimata dal fatto che la stabilità dei prezzi in questo momento non è mantenuta: non tocca a Draghi promuovere il quarto parametro della formula del Pil, cioè la spesa pubblica: quello che tocca a Draghi è svalutare. In realtà si potrebbe obiettare che il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro era già iniziato lo scorso giugno, ma l’attuale Quantitative Easing potrà creare le condizioni affinché le banche centrali si possano liberare molto presto dei titoli di stato con rendimenti negativi. Per quanto riguarda la concessione del credito- fermo restando che alle attuali condizioni buona parte di questa liquidità rimarrà nelle banche- è abbastanza utopistico pensare che quei soldi verranno rivestiti o, grazie alle aspettative, vi sarà un aumento dei consumi
E qui veniamo al problema principale: se infatti come contropartita, i singoli Stati velocizzeranno le riforme imposte dalla Troika, la politica monetaria messa in campo da Draghi potrebbe anche peggiorare la situazione; la Federal Reserve ha si attuato -muovendosi in anticipo- questo tipo di manovra, ma ribadiamo per l’ennesima volta che se l’economia americana si è risollevata è perché ha liberato i cordoni della spesa pubblica. Eh sì, appunto: ha ragione Draghi nel dire che ora la palla passa ai governi, ma questi ultimi dovrebbero adottare ricette diametralmente opposte alle attuali. Non si può basare l’intera crescita di un paese (o di una macro-regione) ricorrendo ad una Banca Centrale che indebolisce la valuta e che rende più competitive le imprese dell’euro-zona. In altre parole non ci si può affidare solo alle esportazioni, come impone l’attuale modello tedesco (che qualcuno sta maldestramente tentando di copiare). Le riforme dei singoli stati se perseguissero, potrebbero compensare in senso recessivo il Quantitative Easing. Serve un ulteriore iniezione di fiducia che solo un abbassamento delle tasse e un aumento di spesa in conto capitale possono dare

venerdì 23 gennaio 2015

Il Fiscal Compact? Provano a nasconderlo ipotecando l’oro

Cancelliamo il Fiscal Compact? Forse, ma in compenso ipotechiamo gli Stati, dalle aziende leader alla riserva aurea, facendo persino riscuotere le tasse a un soggetto esterno, non più nazionale, in cambio dell’emissione di eurobond garantiti dall’Ue. «L’idea base di questo progetto è italiana, in quanto i primi a lanciarla, nell’agosto 2011, sono stati Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio». L’ipotesi è poi piaciuta anche agli economisti tedeschi che affiancano il governo di Berlino, i quali hanno anche suggerito alcune clausole sugli aspetti patrimoniali, pur manifestando il consueto scetticismo sugli eurobond. Tutto questo, a quanto pare, sarebbe stato architettato per tenere in piedi l’euro. A questo accordo, spiega Tino Oldani su “Italia Oggi”, starebbero lavorando in segreto economisti e politici di diversi paesi. «La novità centrale sarebbe l’istituzione di un nuovo fondo, l’European Redemption Fund (Fondo per il rimborso del debito), le cui caratteristiche sono illustrate in un “paper” dell’economista Luca Boscolo, discusso il 22 novembre scorso alla London School of Economics».
Il punto di partenza sarebbe l’archiviazione del Fiscal Compact, maxi-tagliola approvata con perfetto autolesionismo dai paesi dell’Eurozona per volere dal “partito dell’austerità”? In breve, ricorda il blog “Senza Soste”, si tratta dello sciagurato accordo che Romano Prodiimpegna gli Stati a tagliare la spesa pubblica per comprimere il debito fino al 60% del Pil. In Italia si tratterebbe di 50 miliardi all’anno, per vent’anni. «Approvato quasi in segreto dal Parlamento, con il voto entusiasta del centrosinistra, il Fiscal Compact è velocemente sparito dalla scena», data la paura provocata da un’amputazione così abnorme del bilancio statale. Così, cominciano a circolare strane ipotesi: il debito considerato “in eccesso”, gravato dagli interessi passivi e divenuto “tossico” in quanto denominato in moneta non sovrana, finiebbe in una sorta di “bad bank” che lo governerebbe, usando come garanzia l’emissione di eurobond e le riserve auree dei vari paesi. Ma attenzione alle clausole-capestro: se un paese non paga, la “bad bank del debito” dovrebbe riscuotere direttamente le tasse, al posto dello Stato.
Impossibile, ovviamente, tornare alla moneta nazionale. Per contro, ogni paese dell’Eurozona dovrebbe ipotecare il proprio oro e le principali aziende statali, oltre a dare l’ok a un soggetto esterno per la riscossione coercitiva delle tasse. A monte, l’obiettivo sarebbe completamente fuorviante: contenere il debito pubblico, che in realtà è proprio il motore dello sviluppo. Un lettore del “Corriere della Sera”, Mario Bocci, in una lettera al quotidiano milanese osserva: «Il debito è aumentato in ottobre di 23,5 miliardi e ha raggiunto quota 2.157,5 miliardi. Come faremo a pagare il Fiscal Compact?». Nonostante le manovre e le tasse, il debito cresce ogni anno. Attualmente rappresenta il 135,6% del Pil italiano. «In Europa – scrive “Italia Oggi” – ci supera soltanto la Grecia (174,1%), mentre la media dell’Eurozona è del 93,9%, con la Germania al 77,3%». Rispondere a Bocci non è facile, ammette Oldani, e il “Corriere” non ci ha neppure provato. Renzi ha proposto ai partner europei più flessibilità? Angela Merkel e ProdiMerkel ha avuto gioco facile a bocciarlo, ribadendo le solite false verità neoliberiste, secondo cui non si può fare crescita aumentando la spesa e il debito pubblico.
A smentire la Merkel è la storia: l’intero boom economico del dopoguerra, negli Usa e in Europa (e in particolare in Germania) è stato innescato esattamente dagli enormi investimenti statali, spesa pubblica a deficit, quindi debito pubblico. Ma visto che la verità è stata bandita dall’Eurozona, tiene banco il bullismo politico della cancelliera, longa manus delle banche tedesche. Solo che oggi il giocattolo degli speculatori si sta incrinando: «Tra gli economisti, c’è chi considera ormai fallita la moneta unica europea, e ne prevede sempre più vicina la “ropture”», annota Oldani. «Altri prevedono invece che l’euro sarà tenuto in vita grazie a un nuovo accordo europeo, destinato a superare il Fiscal Compact. E qui sta la vera novità, di cui non c’è ancora traccia nel dibattito politico». Così com’è, sostiene Luca Boscolo, l’euro ha troppi difetti per poter durare. E gli interventi della Troika per far rispettare il Fiscal Compact hanno peggiorato dovunque la situazione, invece di migliorarla. Inoltre, l’euro ha provocato pesanti squilibri nell’Eurozona, che lo stesso Fmi ha riconosciuto in un rapporto del luglio 2014: è una moneta sottovalutata in Germania (del 15%), mentre è sopravvalutata (10-14%) nei paesi periferici. Questo ha creato le condizioni per il surplus commerciale dell’export tedesco, superiore al 6% da tre anni, dunque passibile di sanzioni Ue, come lo è lo sforamento del 3% nel rapporto deficit-Pil.
«Una situazione esplosiva, che mette in conflitto i paesi più forti con quelli più deboli, dalla quale si può uscire soltanto superando il Fiscal Compact». Come? Tra le soluzioni all’esame della Commissione Europea, rivela Boscolo, vi è appunto l’European Redemption Fund (Erf), in cui mettere tutte le eccedenze del debito dei paesi che sforano il limite del 60%. Dalle prime bozze, il Fondo Erf, da istituire con un nuovo trattato europeo, avrebbe le precise caratteristiche. La prima: il Fondo potrà emettere eurobond sui mercati, dando in garanzia i beni dello Stato interessato, oltre alle riserve valutarie e a quelle auree. Poi: in caso di mancato pagamento dei bond da parte degli Stati interessati, il Fondo potrà incassarne direttamente le tasse. Terza mossa: gli Stati aderenti non avranno più giurisdizione sul loro debito pubblico e non potranno più tornare alla moneta nazionale. Nel caso dell’Italia, spiega Boscolo, la parte del debito che eccede il 60% è pari a 1.182 miliardi: questa sarà la quota che dovrebbe andare nell’Erf. A garanzia dei bond, il nostro paese dovrebbe impegnare i propri asset di valore, cioé beni dello Luca BoscoloStato come Eni, Enel e Finmeccanica, oltre alle riserve valutarie e auree.
Vantaggi dell’operazione? Riduzione dell’eccesso di debito, medesimi tassi d’interesse nel mercato europeo dei bond, stabilizzazione sui mercati del debito pubblico, con tassi d’interesse più bassi. In definitiva, sparirebbe il rischio di bail-out (salvataggio): niente più prestiti di denaro agli Stati indebitati. Risultato: lunga vita per l’euro. Nemmeno per sogno, dice Boscolo, che ne descrive i rischi: «Sarà l’inizio della fine degli Stati così come li abbiamo conosciuti. Finiranno nelle mani dei grandi capitalisti, i quali hanno voluto l’euro e la globalizzazione per acquistare a prezzi stracciati gli asset dei paesi con moneta debole, per poi rivederli con ottimi guadagni, distruggendo così l’economia locale e impoverendone i cittadini». Va inoltre ricordato che ogni possibile soluzione – se si resta nell’euro – è votata al fallimento dello Stato democratico, premiando esclusivamente l’élite finanziaria. Solo grazie all’euro, infatti, il debito pubblico è diventato un problema esplosivo: non essendo più denominato in moneta sovrana (l’euro non è di nessuno, nemmeno della Bce), il debito in Eurozona va “garantito”, a spese dell’economia reale. Se lo Stato tornasse libero di fare il suo “mestiere”, e cioè realizzare la piena occupazione, secondo gli economisti della Mmt non avrebbe più neppure bisogno di emettere bond, gli basterebbe disporre liberamente di moneta. E il nostro debito farebbe la fine di quello del Giappone, che è enorme (quasi il doppio di quello italiano) ma non costituisce un problema, perché è sovrano e dunque sempre ripagabile, in qualsiasi momento.

giovedì 22 gennaio 2015

La ragione politica dietro la decisione della BNS di creare il caos nei mercati finanziari

La decisione della Banca centrale svizzera di abbandonare il tetto (peg) del valore del franco con l'euro della scorsa settimana ha gettato i mercati nel caos. Sono state avanzate molte teorie, scrive Tomas Hirst su Business Insider, per provare a dare una spiegazione su una decisione che ha lasciato il mondo della finanza nello stupore. Ma una è stata sottovalutata nei media: la pressione svolta dai governi locali svizzeri nel mancato pagamento dei dividendi da parte della BNS.
A differenza di altre Banche centrali svizzere, la BNS non è controllata direttamente dal governo, ma tra i suoi vari azionisti ci sono le amministrative regionali svizzere (cantoni), oltre ad organi pubblici e privati. Come ha ricordato Cullen Roche: “Alla fine del 2013, il 52,5% delle azioni erano in mano ai cantoni, banche dei cantoni e altre autorità pubbliche ed istituzioni. Le azioni rimanenti in possesso degli individui privati e entità legali in Svizzera ed estere”.
La BNS ha un “compito di protezione” verso i suoi azionisti – una responsabilità di agire nei loro migliori interessi. E qui, prosegue Hirst, possiamo iniziare a comprendere le pressioni cui è stata sottoposta la banca. La BNS paga un dividendo ai suoi azionisti con un tetto massimo del 6% del profitto netto, oltre che una tariffa fissa ai governi locali. L'accordo prevede un fondo (cool) di un miliardo di franchi (1,15 miliardi di dollari) all'anno diviso tra i 26 cantoni in proporzione alla loro popolazione e, ancora più importante, viene considerato un introito fisso e sicuro dalle amministrazioni. Secondo la Banca centrale svizzera, il dividendo era stato pagato ogni anno negli ultimi 100 anni. Fino al 2013, quando il collasso del prezzo dell'oro ha colpito le riserve auree della BNS. Il crollo del 30% dei prezzi dell'oro dal 2014 hanno determinato una diminuzione di 9 miliardi di franchi. Questo significa che la Banca centrale non è stata in grado di rispettare l'art.31 dell'Atto nazionale bancario svizzero e tale fallimento è stato uno shock per le finanze locali.

I cantoni hanno iniziato a protestare e all'inizio del mese la BNS ha dichiarato di attendersi un profitto contabile di 38 miliardi di franchi per il 2014, tale da permettere la ripresa del pagamento del miliardo di franchi di dividendi per il 2015. Ma questo, prosegue Hirst, una settimana prima di abbandonare il tetto con l'euro - una decisione che ha determinato un apprezzamento enorme del franco ed un caos nei mercati finanziari con perdite stimate in circa il 13% del Pil nella giornata di giovedì. Permettendo al franco di apprezzarsi contro l'euro, la Bns ha visto i suoi asset in euro presenti nella sua balance sheet crollare rispetto al franco svizzero.
E allora perché ha agito in un modo?
Una risposta semplice (ma incompleta) è il timing sbagliato. Dato che il presidente della BNS Thomas Jordan riteneva il franco sopravvalutato a quel livello, è possibile (ma poco probabile) che potesse pensare ad un deprezzamento dopo l'abbandono del peg. Anche con la prospettiva di un QE prossimo della BCE che avrebbe svalutato l'euro, il consiglio BNS può aver pensato che avendo appena affrontato il pagamento del dividendo per il 2014 e con il resto del 2015 per cercare di annullare le eventuali perdite che potrebbe incorrere dopo aprile, poteva cogliere il momento di abbandonare un peg che era chiaramente diventato scomodo. E' passato un intero anno a trovare i soldi per pagare il dividendo per il 2015, anche se ora viene colpita per gli asset in valuta estera che si deprezzano.
Naturalmente, una tale mossa è una scommessa nell'ambito della crisi della zona euro: la Bce è attesa con un QE, il cui maggior impatto del quale potrebbe essere quella di indebolire l'euro rispetto al livello attuale e quindi spingere ancora più sul franco nel breve periodo. Se avrà un impatto positivo nella regione, la crescita della zona euro potrebbe apprezzare la valuta. Se non funziona, comunque, la Svizzera potrebbe vedere affluire nuovi capitali europei come valvola di protezione per paarcheggiare i propri capitali. Si può quindi dire che la decisione dellla BNS di far diminuire i suoi tassi d'interese sui depositi a - 0.75% — “in pratica la banca si tiene parte dei tuoi soldi e non paga un interesse” – è uno sforzo proprio per limitare questo effetto. Gli investitori sembrano ancora vederla una protezione dalla perdite, anche al prezzo di 0,75%

martedì 20 gennaio 2015

Crisi Economica, i dati della Banca Mondiale per 2015 e 2016 sono in ribasso: prepararsi al peggio?

Il grafico della Banca Mondiale parla chiaro: le previsioni di crescita per il 2015 e il 2016 sono in ribasso, nonostante le parole al vento dei vari Renzi, Hollande, Obama e compagnia cantando. Dobbiamo prepararci al peggio?
Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters, la Banca Mondiale ha abbassato le sue previsioni di crescita globale per il 2015 e il 2016 a causa di prospettive economiche deludenti nella zona euro, in Giappone e in alcune delle principali economie emergenti, che hanno compensato il beneficio di prezzi del petrolio più bassi.
L'economia globale crescerebbe del 3% nel 2015, a fronte di una previsione del 3,4% realizzata nel mese di giugno. La crescita del PIL mondiale raggiungerà il 3,3% nel 2016, contrariamente alla previsione di giugno, che segnava un +3,5% per il 2016.
"L'economia globale è in un momento sconcertante," ha detto ai giornalisti il capo economista della Banca mondiale Kaushik Basu, aggiungendo che “la ripresa è stata molto più lenta del previsto dopo la crisi finanziaria globale 2007-2009”.
La Banca Mondiale ha detto che le prospettive di forte crescita negli Stati Uniti e Gran Bretagna differenziano questi paesi da altre nazioni ricche, tra cui alcuni membri della zona euro e lo stesso Giappone, che invece continuano a soffrire di anemia economia e deflazione.
"Attualmente l'economia globale viaggia su un singolo motore, quello americano" ha sottolineato Basu, "e questo non permette di fare prospettive rosee per il resto del mondo."

Le condizioni critiche di Brasile e Russia in particolare e il rallentamento della Cina hanno pesato sulle previsioni al ribasso di crescita globale realizzate dalla Banca Mondiale.
Che cosa significa tutto questo per l’Italia? Il Premier Renzi conosce questi dati? Oppure continua a raccontare frottole a destra e manca, parlando di una ripresa che non c’è?
La realtà dei fatti è che nei prossimi due anni almeno ci sarà ancora da soffrire e in un Paese come il nostro - già in sofferenza, senza nessuna prospettiva di crescita, soffocato dalle angherie tedesche, governato da corruzione e mafie - la cinghia sarà più stretta che nel resto del mondo.

La soluzione?
Nessuno ha la bacchetta magica, questo è chiaro, ma continuare a seguire il pifferaio magico che stordisce il popolo con la musica delle sue chiacchiere è quantomeno deleterio.

lunedì 19 gennaio 2015

L’occidente, i jihadisti “buoni” e quelli “cattivi”

Quella di Parigi è una storia sbagliata, una storia di periferia con tre giovani che hanno ucciso e si sono fatti uccidere con un biglietto di andata e ritorno dalle banlieue ai campi di addestramento mediorientali della Jihad. Sui loro cadaveri oggi si disputano le rivendicazioni del massacro. Al Qaeda e lo Stato islamico appaiono come litigiosi azionisti di una multinazionale del terrore: sembra volerla spuntare Ayaman al Zawahiri, il successore di Osama bin Laden, concorrente e rivale del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi. Ma la trama della vicenda c'è già e forse anche il finale, che potrà essere sorprendente ma forse non più di tanto.
Storia di un’ipocrisia dell’Occidente e dei suoi alleati musulmani
Questa è la storia di un'ipocrisia francese e occidentale con la complicità degli stessi alleati musulmani che ora fanno finta di risentirsi per quanto accaduto e imputano all'islamofobia europea di essere la responsabile degli attacchi, come fa il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, sostenitore al pari di Hollande e di Sarkozy, di Obama e di Cameron, della guerra in Siria, dei bombardamenti in Libia, di un gioco pericoloso sfuggito di mano, esattamente come sfuggì di mano negli anni '80 l'Afghanistan dei mujaheddin, lanciati a combattere l'Impero Rosso e poi diventati talebani e qaedisti. Ma qualcuno si ricorda ancora della passeggiata a Bengasi e Tripoli di Sarkozy, Cameron ed Erdogan, per raccogliere gli applausi di un trionfo effimero, salvo poi voltare le spalle al disastro che avevano combinato?
Quando il governo turco richiamò i jihadisti da inviare in Siria
Proprio Erdogan fece arrivare in Turchia migliaia di combattenti libici da inviare in Siria, accompagnati da tunisini, algerini, marocchini, ex reduci afghani, ceceni e yemeniti: l'internazionale dei jihadisti doveva servire ad annientare il regime alauita di Damasco.
Sarebbero bastati pochi mesi, raccontavano, per far fuori l'allampanato figlio di Hafez, alleato da 40 anni di Mosca e Teheran: ma le storie sbagliate, come si vede, nascono anche da calcoli sbagliati.
Perchè c'è una jihad “buona”, che serve i nostri interessi, e una “cattiva” che fa di testa sua e obbedisce soltanto in parte ai suoi sponsor arabi, il cui obiettivo è tenere lontano gli islamisti da casa loro e mantenere in piedi monarchie assolute, anti-democratiche, gestite in genere da una sola famiglia ed élite ristrette che si fanno scudo dell'Islam con l'applicazione rigida delle leggi coraniche, punendo sistematicamente ogni parvenza di opposizione e di libera espressione del pensiero.
La jihad buona, i finanziamenti puliti ad Al Qaeda
Questa jihad “buona” ha imbastito una guerra per procura in Siria - nata dai devastanti errori del regime di Assad - con l'illusione di manovrare gruppi come Jabat al Nusra, il Fronte islamico, sponsorizzati da Al Qaeda, dal Qatar, dai sauditi, dai turchi. Qualche esempio. In settembre Jabat al Nusra sequestra sul Golan siriano, ai confini con Israele, una quarantina di caschi blu delle Fiji: nessuno ci fa caso ma il Qatar paga 40 milioni di dollari di riscatto, per liberarli. Un bel modo, veloce e pulito, per finanziare Al Qaeda alla luce del sole e con qualche ringraziamento dell'Onu

venerdì 16 gennaio 2015

L'EREDITA' DI NAPOLITANO

Quale eredità lascia il mandato di Giorgio Napolitano. Anni difficili, dal crollo delle coalizioni alla fine del bipolarismo, dalle leggi ad personam di Berlusconi allo statista di Rignano. Dopo di lui il parlamentarismo è più debole. E le larghe intese non hanno aiutato il paese
Per un bilan­cio storico-critico dei nove anni di pre­si­denza Napo­li­tano occorre appu­rare quanto, nel suo modo di inter­pre­tare il ruolo, ci sia di occa­sio­nale e quanto invece segni un muta­mento per­ma­nente nella col­lo­ca­zione del Qui­ri­nale negli equi­li­bri dina­mici del sistema costi­tu­zio­nale. La cate­go­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto, uti­liz­zata di solito per descri­vere una avve­nuta sovrae­spo­si­zione del Colle nelle vicende isti­tu­zio­nali più deli­cate, non è ade­guata per cogliere la reale por­tata, e dun­que le con­se­guenze di più lungo periodo, dell’interventismo qui­ri­na­li­zio, che è parso sicu­ra­mente accen­tuato in taluni momenti.
Mal­grado una cre­scita visi­bile dell’influenza, e talora anche della respon­sa­bi­lità pre­si­den­ziale diretta in opzioni di più stretta marca poli­tica, la repub­blica non si è tra­sfor­mata in una variante incom­pleta di regime pre­si­den­ziale. Cioè, dopo Napo­li­tano, il pro­blema sul tap­peto non è certo quello di por­tare final­mente a com­pi­mento for­male quel muta­mento qua­li­ta­tivo delle attri­bu­zioni del capo dello stato avve­nuto già sul piano della con­sue­tu­dine, con l’espropriazione defi­ni­tiva di com­pe­tenze un tempo parlamentari.
L’eccezionale cumulo di poteri di con­di­zio­na­mento avu­tosi nella per­sona di Napo­li­tano (di cui la rie­le­zione, sia pure a tempo e non sol­le­ci­tata, è una con­ferma) resta all’interno di un par­la­men­ta­ri­smo che, nelle giun­ture cri­ti­che del mec­ca­ni­smo poli­tico incep­pato, trova pro­prio nell’attivismo di altri poteri costi­tu­zio­nali (la Con­sulta o il Qui­ri­nale) una val­vola di sfogo, non priva di ele­menti di fri­zione e di ela­stica indeterminazione.
Il regime par­la­men­tare al bivio
La que­stione cru­ciale è quindi di accer­tare se, dopo il sur­ri­scal­da­mento ele­vato delle fun­zioni e delle pre­ro­ga­tive del Colle, que­sti poteri d’eccezione, riat­ti­vati in rispo­sta alla con­cla­mata situa­zione di emer­genza e gestiti secondo moda­lità suscet­ti­bili di discorde valu­ta­zione, tor­ne­ranno ad essere dor­mienti (come è già acca­duto con Scal­faro, dopo il varo della “tri­nità isti­tu­zio­nale” impe­gnata nel governo dell’eccezione e la gesta­zione di governi del pre­si­dente) o invece deter­mi­ne­ranno una sla­vina che con­durrà alla fuo­riu­scita dagli ingra­naggi pecu­liari della forma di un regime parlamentare.
Ogni pre­si­dente, get­tato in con­di­zioni cri­ti­che, come sono quelle della seconda lunga crisi dei vent’anni, che ha deter­mi­nato due crolli del sistema dei par­titi in tempi rav­vi­ci­nati e subìto l’irruzione di un potente vin­colo esterno euro­peo che ha limato l’autonomia poli­tica di una demo­cra­zia sovrana, con­duce una sua poli­tica isti­tu­zio­nale. Ed è pro­prio que­sta poli­tica delle isti­tu­zioni, cali­brata per gover­nare una fase di forte fol­lia siste­mica, che occorre ana­liz­zare, alla luce di un cri­te­rio prin­cipe che carat­te­rizza la poli­tica: l’efficacia. La domanda quindi è: Napo­li­tano, con la sua poli­tica delle isti­tu­zioni, ha arre­stato le dina­mi­che dege­ne­ra­tive che inve­sti­vano la repub­blica o ha con­tri­buito anch’egli con la sua con­dotta, che aveva delle pos­si­bili opzioni alter­na­tive, ad appro­fon­dire la crisi?
L’efficacia nella crisi
È den­tro i tempi storico-politici che ha dovuto gestire che va inqua­drato il com­por­ta­mento del capo dello stato. E quelli toc­cati a Napo­li­tano non sono stati anni banali. Come ogni pre­si­dente della seconda repub­blica, è stato eletto da una mag­gio­ranza di sini­stra. Per for­tuna, almeno per il Qui­ri­nale, l’alternanza non si è veri­fi­cata. E al Colle sono saliti per­so­na­lità nel com­plesso fedeli all’impianto par­la­men­tare della Repubblica.
Ad ognuno di loro è toc­cato di con­vi­vere con la sco­moda pre­senza di Ber­lu­sconi a Palazzo Chigi. Come è capi­tato per ogni inqui­lino del Qui­ri­nale, anche a Napo­li­tano sono pio­vute addosso le cri­ti­che per non aver rifiu­tato la firma a leggi discu­ti­bili varate dalla destra.
Ma qui, a parte Scal­faro che ha inter­pre­tato sino in fondo il ruolo di un espli­cito con­tro­po­tere, il Colle non può in maniera strut­tu­rale sur­ro­gare le fun­zioni dell’opposizione.
Per i decreti che pos­sono essere cor­retti o non con­ver­titi nel nor­male iter isti­tu­zio­nale o inva­li­dati in un’opera di con­trollo di lega­lità che si estende sino alle supreme magi­stra­ture dello Stato, la vigi­lanza pre­ven­tiva del Qui­ri­nale può essere a maglie più lar­ghe. Quando però un atto nor­ma­tivo ha effetti distor­sivi imme­diati, e la sua costi­tu­zio­na­lità è assai dub­bia (è il caso della legge elet­to­rale Cal­de­roli non cen­su­rata da Ciampi e poi irri­tual­mente demo­lita dalla Con­sulta), il capo dello Stato deve rifiu­tare la firma per­ché l’abuso di mag­gio­ranza non è facil­mente rime­dia­bile con nor­mali procedure.
Il crollo del bipolarismo
La prima fase della lunga espe­rienza di Napo­li­tano ha dovuto veder­sela con la fra­gi­lità del mag­gio­ri­ta­rio di coa­li­zione. Dap­prima il cen­tro sini­stra che, con la esplo­siva diar­chia Prodi-Veltroni creata a colpi di pri­ma­rie, non ha tenuto in aula e poi la disin­te­gra­zione della coa­li­zione di cen­tro destra hanno sve­lato l’inconsistenza degli assi por­tanti del nuovo sistema poli­tico. Il teo­rema della coa­li­zione mas­sima vin­cente con­sen­tiva di aggiu­di­carsi il pre­mio in seggi ma non di sor­reg­gere un coe­rente indi­rizzo poli­tico di mag­gio­ranza. La neces­sa­ria opera di media­zione, entro alleanze mul­ti­formi, urtava con­tro i sim­boli della per­so­na­liz­za­zione del comando (nome del pre­mier stam­pato sulla scheda elet­to­rale) e ogni blocco di potere sal­tava in aria dinanzi all’affiorare di ine­vi­ta­bili spinte centrifughe.
Al crollo del bipo­la­ri­smo mec­ca­nico ha forse con­tri­buito una certa sin­to­nia isti­tu­zio­nale sta­bi­li­tasi tra il Qui­ri­nale e Mon­te­ci­to­rio che ha indotto Fini ad assu­mere i tratti di una destra in cerca di un cor­redo libe­rale e quindi costretta alla rot­tura netta con il popu­li­smo ber­lu­sco­niano. Ma il ritardo con cui la mozione di sfi­du­cia è stata votata in aula nel 2010, ha favo­rito delle ope­ra­zioni di tra­sfor­mi­smo che hanno pro­lun­gato arti­fi­cial­mente la vita di un governo poli­ti­ca­mente morto. Quello che non ha pro­dotto per via poli­tica, la espli­cita cen­sura par­la­men­tare del governo Ber­lu­sconi, il sistema lo ha dovuto com­piere per il soprag­giun­gere di un com­plesso di inter­venti esterni e per adem­piere a degli inviti inter­na­zio­nali dive­nuti pres­santi a ridosso dell’emergenza della crisi finan­zia­ria. Abile nella depo­si­zione del Cava­liere che ha accet­tato la defe­ne­stra­zione senza andare in escan­de­scenza, la stra­te­gia del Qui­ri­nale ha mostrato una dub­bia effi­ca­cia nel governo della tran­si­zione aper­tasi nel novem­bre del 2011.
Sta­bi­lità, la regia delle lar­ghe intese
Due erano gli imperativi-cardine delle poli­ti­che isti­tu­zio­nali con­fe­zio­nate dal Colle: la sta­bi­lità di governo, come valore asso­luto in tempi di crisi, e l’emergenza eco­no­mica e isti­tu­zio­nale da affron­tare con lo spi­rito delle lar­ghe intese e secondo gli impe­ra­tivi del risa­na­mento e delle con­nesse riforme strut­tu­rali. È indub­bio che nelle fasi più gravi dell’emergenza finan­zia­ria, pro­prio Napo­li­tano sia diven­tato un inter­lo­cu­tore fon­da­men­tale che, con cre­di­bi­lità e pre­sti­gio, ha par­lato con le più influenti can­cel­le­rie (non solo) euro­pee. Però la solu­zione di una guida tec­nica dell’esecutivo pro­spet­tata dal Colle (e accet­tata dagli attori poli­tici, che quindi ne assu­mono la respon­sa­bi­lità piena) dopo la caduta del ber­lu­sco­ni­smo non si è rive­lata un fat­tore effi­cace nel con­te­ni­mento della cata­strofe in atto.
L’operazione Monti non era una rie­di­zione del governo Dini, per­ché men­tre quest’ultimo era pur sem­pre un pro­dotto dell’attivismo dei par­titi che ave­vano pro­get­tato “il ribal­tone”, e rima­ne­vano pronti a san­cire con il voto una alter­na­tiva di governo, il dica­stero Monti nasceva come un espli­cito allon­ta­na­mento della poli­tica dalle stanze del potere e come l’espropriazione di un ruolo del ricam­bio poli­tico nella fase dell’emergenza.
Per que­sto l’esperimento Monti, pro­trat­tosi così a lungo anche per la mio­pia del Pd che non per­ce­piva l’usura celere della for­mula e la rab­bia sociale che mon­tava, ha com­presso le spinte al rin­no­va­mento, sof­fo­cato domande di inno­va­zione e ope­rato come l’agente pato­geno che ha deter­mi­nato un ulte­riore aggra­va­mento del males­sere sfo­ciato nella ribel­lione dal basso con­tro il sistema al motto di “tutti a casa”. La paren­tesi tec­nica ha piaz­zato i bot e i titoli di stato ma ha spiaz­zato il sistema poli­tico indu­cen­dolo al col­lasso. Bloc­cate le vie di una alter­na­tiva den­tro il sistema, le ener­gie com­presse non pote­vano che assu­mere i con­torni della ribel­lione esterna con­tro il sistema.
Monti apre la strada a Grillo
Grillo non ci sarebbe mai stato senza Monti, con la sua strana mag­gio­ranza e la sua ino­pi­nata discesa in campo. Dalla crisi del ber­lu­sco­ni­smo, non si è usciti con lo stru­men­ta­rio dell’alternanza ma con la crisi di regime, la seconda nel giro di un ven­ten­nio. Non solo l’interprete (Monti e le sue meschine ambi­zioni di potere) ma pro­prio il rime­dio, quello tec­nico appunto, era sba­gliato come illu­so­rio neutralizzazione.
Non inco­sti­tu­zio­nale ma inef­fi­cace, alla luce del soprag­giunto crollo del sistema, è risul­tata la poli­tica isti­tu­zio­nale del Colle. Anche dopo il voto del 2013, e a caduta di sistema poli­tico ormai con­su­mata, la rilut­tanza a con­fe­rire un man­dato pieno al “non vin­ci­tore” Ber­sani ha accen­tuato i momenti di incer­tezza e di crisi. Ciò ha favo­rito l’ascesa dell’altro ele­mento di destrut­tu­ra­zione cieca, che è il ren­zi­smo (il Qui­ri­nale pro­tegge lo sta­ti­sta di Rignano, arri­vando per­sino a stig­ma­tiz­zare ogni ipo­tesi scis­sio­ni­stica nel Pd).
In fondo, quel governo di mino­ranza, che solo in aula avrebbe dovuto tro­vare i con­sensi, e che è stato negato a Ber­sani come una for­mula insulsa, costi­tui­sce il pila­stro su cui pog­gia il deci­sio­ni­smo simu­lato di Renzi. Il suo è pro­prio un mono­co­lore di fatto, che raci­mola spez­zoni par­la­men­tari ete­ro­ge­nei dopo che il gover­nis­simo era durato solo per le poche set­ti­mane che divi­de­vano il Cava­liere dalla con­danna defi­ni­tiva in cas­sa­zione. Il pro­blema è che una mag­gio­ranza Bersani-Vendola era per­ce­pita come la resur­re­zione di una sini­stra tra­di­zio­nale, ten­den­zial­mente ostile agli impe­ra­tivi domi­nanti nella vec­chia Europa, men­tre Renzi, mal­grado le prove di popu­li­smo e anti­po­li­tica, è pur sem­pre una fedele sen­ti­nella del rigore, dei con­doni fiscali e della pre­ca­rietà del lavoro. Pro­prio sui temi del lavoro, dopo una ini­ziale insi­stenza sui nuovi diritti civili e sul fine vita, sul regime car­ce­ra­rio e sugli infor­tuni nelle fab­bri­che, il capo dello Stato ha con­di­viso la reto­rica con­tro il con­ser­va­to­ri­smo della Cgil, con l’invito rivolto al movi­mento sin­da­cale a non distur­bare le pre­ro­ga­tive della mag­gio­ranza intenta nel varo delle cosid­dette riforme strutturali.
Se la repub­blica avrà, a breve o a medio rag­gio, una svolta in senso pre­si­den­zia­li­sta, non sarà però per­ché Napo­li­tano si è tra­mu­tato in “re Gior­gio”, e quindi dopo di lui occorre sol­tanto rati­fi­care gli spo­sta­menti avve­nuti nella prassi. La car­rozza del com­mis­sa­rio avan­zerà per­ché le grandi cul­ture costi­tu­zio­nali della repub­blica sono state tra­volte dal virus della sem­pli­fi­ca­zione che sug­ge­ri­sce l’illusoria solu­zione della ele­zione diretta della carica mono­cra­tica impo­sta attra­verso una ano­mala legge elettorale.
Le riforme isti­tu­zio­nali ad ogni costo, e l’Italicum impo­sto con i suoi ritoc­chi solo cosme­tici alla vec­chia legge Cal­de­roli, sono dei fasulli rimedi dati in pasto (con le norme sul o meglio con­tro il lavoro) ai cen­sori europei.
Su que­sto rifor­mi­smo improv­vi­sato dell’asse Boschi-Verdini, con­tro cui si sono accesi momenti di ostru­zio­ni­smo in aula, un minore coin­vol­gi­mento del Qui­ri­nale, a difesa della velo­cità delle mosse del governo, forse sarebbe stato più oppor­tuno, quale che sia il livello di pre­oc­cu­pa­zione sulla tenuta del sistema e sulla pre­senza o meno di valide alter­na­tive al con­dot­tiero di Rignano.

giovedì 15 gennaio 2015

Pensioni, verso l’abolizione della riforma Fornero

La Corte Costituzionale deciderà sull'ammissibilità del referendum contro la riforma pensioni Fornero. Intanto dal 1 gennaio 2015 sono entrata in vigore una serie di novità: ecco quali sono Riforma pensioni Fornero del 2012, ma anche pensione anticipata, d’oro, rivalutazione automatica Inps, contributi per le gestione separata sono alcune delle novità in vigore nel settore previdenziale dal 1 gennaio 2015. Facciamo il punto
Riforma pensioni Fornero 2012: verso il referendum
La riforma pensioni Fornero del 2012 potrebbe essere modificata. E’ attesa per oggi infatti, mercoledì 14 gennaio 2015, la decisione della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega per l’abrogazione dell’intera riforma. Referendum che, se ammesso, avrebbe l’appoggio anche della CGIL come ha detto il segretario Susanna Camusso: “È urgente rimediare a questa follia del prolungamento infinito dell’età di pensionamento. Sarebbe utile che il governo aprisse un confronto con noi per cambiare la legge e se non lo farà neppure per evitare l’eventuale referendum – avverte – voteremo sì”.
Riforma pensioni 2015: le novità in sintesi
Intanto dal 1 gennaio 2015 sono entrata in vigore una serie di novità che riguardano le pensioni grazie alla Legge di Stabilità. Vediamole in sintesi:
pensione anticipata: introdotta una deroga alle penalità sugli assegni INPS per chi accede alla pensione in anticipo prima dei 62 anni. Per questi soggetti la penalità è cancellata, ma solo se maturano il requisito contributivo entro il 31 dicembre 2017. Quindi l’accesso alla pensione anticipata nel triennio 2016-2018 sarà subordinato al raggiungimento di 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, Dopo il 2017 tornano le penalità introdotte dalla riforma pensioni 2012 ( Si rinvia a
limite trattamenti pensionistici: cambia il calcolo dei trattamenti pensionistici per chi, al 31 dicembre 2011, rientrava nel sistema di calcolo retributivo. L’importo della pensione per questi soggetti non può eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione delle regole di calcolo valevoli prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero
pensioni d’oro: per le pensioni sopra i 300mila euro si applica un prelievo del 3% ma solo sugli assegni che già non subiscono il ticket
TFR busta paga: il trattamento di fine rapporto si potrà chiedere in anticipo nella busta paga da marzo altrimenti si sceglie di destinarlo ai fondi pensione o alle aziende.
Fondi pensione: l’imposta sostitutiva sul risultato di gestione dei fondi di previdenza integrativa passa dall’11,5 al 205
Tra le altre novità in tema previdenziale troviamo:
opzione donna: quest’anno ci potrebbe essere un allungamento del periodo utile alle donne per andare in pensione a 57 o 58 anni e 3 mesi, a condizione che l’assegno mensile sia calcolato con il sistema di calcolo contributivo, anziché misto.
Rivalutazione automatica Inps: l’adeguamento all’inflazione delle pensioni per il2 015 è dello 0,3% a cui si aggiunge il recupero negativo tra inflazione programmata e quella realmente calcolata a consuntivo dell’Istat. Il trattamento minimo delle pensioni dei lavoratori autonomi nel 2015 è di 502,39 euro, gli assegni vitalizi passano a 286,37 euro, le pensioni sociali a 369,63 euro e gli assegni sociali a 448,52 euro.
Contributi gestione separata 2015: in aumento le aliquote da versare alla gestione separata dal 28,72% (27,72% per i professionisti) al 30,72%. (Si rinvia Gestione separata INPS, contributi in aumento dal 1 gennaio 2015)

martedì 13 gennaio 2015

Grecia, il Governo prepara il dossier sui debiti di guerra della Germania: 11 miliardi

La Germania deve alla Grecia l'impressionante cifra di 11 miliardi di euro derivata esclusivamente dal finanziamento forzato imposto ad Atene dagli occupanti nazisti durante la seconda guerra mondiale e che sino ad oggi non è stata restituita. A rimettere al centro la questione dei debiti di guerra è stato ieri il quotidiano To Vima citando quanto rivelato da un rapporto ufficiale consegnato in questi giorni al ministero delle Finanze. Nonostante il rapporto, però, Berlino insiste a non riconoscere il debito. Il portavoce del ministro delle Finanze tedesco Martin Jaeger oggi rispondendo in conferenza stampa a una domanda sul dossier ha detto che Berlino ritiene che non vi sia ragione per la rivendicazione di altri 11 miliardi di euro, da parte della Grecia, come riparazioni di guerra. Le richieste sono già state “complessivamente regolate”. A 70 anni dalla fine della guerra, richieste ulteriori da parte di Atene non trovano giustificazione.
Secondo il giornale, il rapporto (redatto in segreto) è stato finalmente consegnato alla Ragioneria Generale dello Stato ed al vice ministro delle Finanze Christos Staikouras al termine di tre mesi di ricerche approfondite svolte da una speciale commissione presieduta dall'ex direttore generale del Tesoro, Panagiotis Karakousis.
Da quanto sostiene il rapporto, il debito della Germania nei confronti della Greciaè di almeno 11 miliardi di euro. Come sottolinea To Vima, la commissione inquirente ha preso in considerazione le stime più prudenti per quanto riguarda il debito tedesco, mentre da parte sua Karakousis ha dichiarato che tale cifra non ha nulla a che fare con le riparazioni di guerra per i danni subiti dalla Grecia durante l'occupazione tedesca dal 1941 al 1944 che potrebbero raggiungere le decine di miliardi di euro.
Staikouras, da parte sua, trasmetterà ora il rapporto al ministro degli Esteri Evangelos Venizelos il quale lo invierà all'Avvocatura di Stato. In base alla Costituzione ellenica, una speciale Commissione legale dovrà riunirsi per esaminare la questione e consigliare al governo il modo migliore per gestirla

domenica 11 gennaio 2015

Energia, i bonus non decollano. Solo un terzo delle famiglie chiede il sostegno per pagare acqua e luce.

I dati sul disagio sociale e la povertà in Italia parlano chiaro. Il 29.2 per cento della popolazione è, secondo l'Istat, a rischio di povertà ed esclusione sociale con un disagio rilevante per gli anziani soli, le famiglie monoreddito, e quelle con almeno tre minori. Per queste famiglie è difficile potersi assicurare un pasto adeguato ogni due giorni, riscaldare adeguatamente l'abitazione e pagare le bollette di energia e gas. Quasi due milioni di famiglie, per un totale di circa 5 milioni di persone, risultano in condizioni di povertà assoluta, e 3 milioni e mezzo di famiglie, pari a quasi 10 milioni di individui, in povertà relativa. Eppure in questo quadro allarmante qualcosa si muove, anche se lentamente e con contraddizioni: l'aiuto alle famiglie attraverso i bonus per l'energia elettrica e il gas ci sono, ma non decollano. E non per mancanza di fondi stanziati, ma per mancanza di richieste. Sarebbero difatti secondo l' Authority dell'energia e del gas quasi 5 milioni le famiglie bisognose che ne hanno diritto (2,9 milioni le famiglie potenzialmente interessate dal bonus l'elettricità e 2,3 milioni quelle che potrebbero ottenerlo per il gas). Tuttavia, questo diritto non è esercitato e solo un terzo delle famiglie riceve il bonus per l'elettricità e poco più di un quarto per il gas. Il mancato successo del bonus è determinato dai soliti problemi endemici delle nostre amministrazioni: una procedura di richiesta ed erogazione dei bonus estremamente farraginosa che vede operare insieme soggetti pubblici e privati, i Comuni, i Caf, le Asl, i distributori di energia elettrica e gas, i venditori, le Poste italiane e l'Inps. Da cui risulta un incidenza complessiva del costo di gestione pari al 7% del bonus complessivamente erogato sul periodo 2008-2012, e un valore dei bonus distribuiti alle famiglie di poco superiore al 50% del miliardo di euro accantonati (poco più di 376 milioni per l'elettricità e poco più di 178 milioni per il gas.)
Come superare questa en passe ? L'associazione Bruno Trentin, centro studi della CGIL, ha qualche idea in proposito e l'ha presentata in un dossier sulla Povertà Energetica: il primo passo è semplificare le procedure per rendere più snello il processo di richiesta dei bonus , ridurre i costi di gestione, semplificando l'iter amministrativo, e allargare la platea dei beneficiari. L'associazione Bruno Trentin condivide questo punto di vista con l' Authority la quale ha rilevato come il numero delle famiglie potenzialmente beneficiarie dei bonus è comunque inferiore a quello delle famiglie identificate dall'Istat come a rischio di povertà, e di poco inferiore a quello delle famiglie che nel 2013 versavano in condizioni di povertà assoluta.
Ma quali sono le azioni correttive proposte dal centro studi CGIL? Nel rapporto si chiede di semplificare la complessità della procedura di domanda, e di rivedere le fasce ISEE di reddito istituendo un'ulteriore fascia da 7.500 a 10.000 euro, con uno sconto differenziato rispetto alla prima fascia, e istituendo un meccanismo di rivalutazione automatica annuale delle soglie minime applicabili. E' ipotizzato il coordinamento accentrato delle procedure attribuendo la responsabilità all'Acquirente Unico, ossia all'organo pubblico che acquista all'ingrosso l'elettricità per chi ha contratti di maggior tutela. Si fa inoltre l'ipotesi di aumentare fino a 3 volte il costo del finanziamento in bolletta, senza eccessivo aggravio per l'utente medio, che dovrebbe sostenere sull'intero anno una spesa non superiore ai 2 euro per l'elettricità, e a 5 euro per il gas. Non ultimo, l'estensione del bonus anche alle utenze che impiegano gas diversi da quello naturale, distribuito sulle reti urbane e gli utenti del servizio di teleriscaldamento; e infine, supportata in ciò anche dall' Authority , il calcolo del bonus al lordo delle imposte, invece che al netto come accade ora, consentendo una rivalutazione dell’ammontare del bonus del + 15% per la bolletta elettrica e del + 30% per il bonus del gas. Insomma, una serie di interventi strutturali che consentirebbero di razionalizzare e accrescere l'efficienza del sistema bonus , aiutando milioni di famiglie in condizioni di crescente disagio economico e sociale.

venerdì 9 gennaio 2015

Il presidente Hollande riconosce che la Francia ha armato le milizie anti siriane che collaboravano strettamente con i terroristi dell’ISIS

Ripubblichiamo un nostro precedente articolo (pubblicato il 23 Agosto c.a.) che mette in risalto le complicità del governo francese con i gruppi terroristi takfiri che operano in Siria, gli stessi a cui appartengono i terroristi, quelli franco algerini che si sono resi protagonisti dell’ultimo attacco verificatosi a Parigi.
…Il leader francese Hollande ha rilasciato dichiarazioni lo scorso Giovedi (20 Agosto 2014), riconoscendo che il governo di Parigi aveva fornito le armi ai terroristi Takfiri in Siria “qualche mese fa,” ed ha inoltre sottolineato che, secondo lui, “Non dobbiamo smettere di sostenere i militanti anti-Damasco”.
Hollande , nel corso dell’intervista, ha anche invitato gli altri paesi, a partire da Stati Uniti ed Unione Europea ad aderire alla campagna e ha sostenuto che la Francia non può “fare da sola”.
In un’intervista con il giornale francese Le Monde dello stesso giorno, pubblicato successivamente, il presidente francese ha detto che la comunità internazionale deve assumersi una “grande responsabilità” per quanto riguarda le turbolenze in Siria, che si sono anche riversate nel vicino Iraq.
Egli ha anche detto che i militanti Takfiri dell’ISIL non sarebbero mai apparsi come un esercito se la crisi in Siria fosse stata messa a termine, aggiungendo che gli altri miliziani armati che operano nel paese “meritano tutto il nostro sostegno.”
La Francia è stata tra le maggiori potenze sostenitrici degli estremisti Takfiri operanti in Siria per rovesciare il governo del presidente siriano Bashar al-Assad dal marzo 2011.
Nel mese di gennaio, Hollande aveva dichiarato che circa 700 cittadini francesi risulta che abbiano preso parte alla guerra contro il governo di Damasco, aggiungendo che Parigi deve mettere in guardia i giovani contro l’arruolamento nella rete dei gruppi estremisti nel paese arabo.
Secondo alcune fonti, più di 180.000 persone sono state finora uccise e milioni di altre persone sfollate a causa della violenza alimentata da militanti occidentali-basati in Siria


Uno degli uomini chiave degli Stati Uniti in Siria, il “Syrian Army libero” (FSA) Col. Abdel Jabbar al-Okaidi, che operavano per lo più nella zona della Grande Aleppo, dichiara che era abituato ad una comunicazione quotidiana e alla collaborazione con i gruppi jihadisti estremisti dello “Stato islamico in Iraq e Levante “(ISIL) e il ramo ufficiale di al-Qaeda in Siria, Jabhat al-Nusra. Egli si riferisce a questi combattenti come” fratelli”. In un filmato dopo la cattura del ribelle Menagh, nella base aerea militare, lo stesso era anche apparso in piedi accanto a un jihadista egiziano dell’ ISIL, Abu Jandal, mentre lui e il suo gruppo lo ringraziavano per il suo contributo. E’ risaputo che gli Stati Uniti hanno inviato aiuti militare ad al-Okaidi ed agli altri del FSA durante l’ultimo paio di anni.
Nota:
Questi sono i leaders occidentali che adesso lanciano l’allarme circa l’aggressione e le atrocità commesse dagli estremisti islamici dell’ISIL in Iraq, sono gli stessi che da circa tre anni hanno armato e sostenuto i vari movimenti estremisti takfiri dei miliziani che combattevano in Siria per rovesciare il governo di Basahar al-Assad. Sono gli Hollande, i Cameron, assieme a Barak Obama, gli stessi che adesso si ergono a “paladini” nella lotta ai “barbari islamisti”. Qualcuno può dare ancora credibilità a simili personaggi?

mercoledì 7 gennaio 2015

Quasi un milione di italiani in difficoltà

Rispetto al terzo trimestre del 2013 il dato è aumentato del 5,3%. Disoccupati +5,8%.
mensa-poveriCresce di quasi mezzo milione il numero degli italiani che non ce la fa. Secondo i calcoli del Centro studi di Unimpresa sulla base dei dati Istat, il totale del’area di disagio sociale comprendeva 9,21 milioni di persone nel terzo trimestre del 2014. Rispetto al terzo trimestre del 2013, risulta un aumento del 5,3%.
Ai 3 milioni di persone disoccupate, Unimpresa somma i lavoratori con contratti a tempo determinato, sia quelli part time (677mila persone) sia quelli a orario pieno (1,74 milioni); quindi i lavoratori autonomi part time (813mila), i collaboratori (375mila) e quelli con contratti a tempo indeterminato part time (2,5 milioni). Questo gruppo di persone occupate – ma con prospettive incerte circa la stabilità dell’impiego o con retribuzioni contenute – ammonta complessivamente a 6,2 milioni di unità.
DISAGIO SOCIALE PER 466MILA PERSONE. Secondo Unimpresa, in un anno 466mila persone sono entrate nell’area di disagio sociale. Il deterioramento del mercato del lavoro non ha come conseguenza la sola espulsione degli occupati, ma anche la mancata stabilizzazione dei lavoratori precari e il crescere dei contratti atipici. Nel terzo trimestre dello scorso anno i disoccupati erano in totale 2,84 milioni: 1,48 milioni di ex occupati, 596mila ex inattivi e 763mila in cerca di prima occupazione.
DISOCCUPATI IN AUMENTO DEL 5,8% A settembre 2014 i disoccupati risultano in aumento del 5,8% rispetto all’anno precedente (+166mila persone). In calo gli inattivi: -19mila unita’ (-3,2%) da 596mila a 577mila. In aumento di 51mila unità gli ex occupati da 1,48 milioni a 1,53 milioni (+3,4%). Salgono anche le persone in cerca di prima occupazione, in aumento di 134mila unita’ da 763mila a 897mila (+17,6%).
In forte aumento anche il dato degli occupati in difficoltà: erano 5,9 milioni a settembre 2013 e sono risultati 6,2 milioni a settembre scorso.
AUMENTANO I CONTRATTI PART TIME. I contratti a temine part time sono aumentati di 60mila unità da 617mila a 677mila (+9,7%), i contratti a termine full time sono cresciuti di 92mila unità da 1,65 milioni a 1,74 milioni (+5,6%). Salgono anche i contratti di collaborazione (+18mila unità) da 357mila a 375mila (+5,0%).
Risultano in aumento anche i contratti a tempo indeterminato part time (+4,.%) da 2,49 milioni a 2,59 milioni (+99mila) e gli autonomi part time (+4,0%) da 782mila a 813mila (+31mila). «Il 2014 è stato durissimo e non possiamo permetterci un altro anno senza ripresa” commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. “Piu’ di 9 milioni di persone sono in difficolta’ e questo vuol dire che spenderanno meno, tireranno la cinghia per cercare di arrivare a fine mese. Tutto ciò con effetti negativi sui consumi, quindi sulla produzione e sui conti delle imprese». Secondo il presidente di Unimpresa “serve maggiore attenzione proprio alla famiglia da parte del governo».

lunedì 5 gennaio 2015

Fisco, stop alla norma salva-Berlusconi.

Il fuoco incrociato su Renzi per la norma, contenuta nella riforma fiscale, e approvata in Consiglio dei ministri che avrebbe salvato Silvio Berlusconi, ha prodotto il passo indietro. Così da Palazzo Chigi trapelano alcune voci che sottolineano che “Di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’ennesimo dibattito sul futuro di un cittadino, specie in un momento come questo dove qualcuno teorizza strampalate ipotesi di scambi politici-giudiziari, anche alla luce del delicato momento istituzionale che il Paese si appresta a vivere”. Proprio per queste ragioni il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha chiesto agli uffici di non procedere, almeno per ora, alla formale trasmissione alla Camera del testo approvato in Consiglio dei Ministri. La proposta tornerà prima in Consiglio dei Ministri, poi alle Commissioni, quindi di nuovo in Consiglio per l’approvazione definitiva entro i termini stabiliti dal Parlamento e cioè entro marzo 2015.
La norma, già ribattezzata salva Berlusconi, si racchiude in poche righe, relativa ai reati tributari con le novità introdotte nel decreto approvato alla vigilia di Natale dal Consiglio dei ministri; all’articolo 19 bis, prevede l’esclusione della punibilità “quando l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato o l’importo dell’imposta sul valore aggiunto evasa non è superiore al 3% dell’imposta sul valore aggiunto dichiarato”. Se nulla cambiasse a Berlusconi potrebbe essere cancellata la condanna a quattro anni nel processo Mediaset. E quindi la depenalizzazione gli consentirebbe di ricandidarsi. Berlusconi è stato condannato a quattro anni di reclusione (tre condonati) e a due anni di interdizione dai pubblici uffici per una frode fiscale di 7 milioni di euro, pari a meno del 2% dell’imponibile.

domenica 4 gennaio 2015

La polizia è stata creata per controllare i lavoratori e i poveri

Nella maggior parte delle discussioni liberali sulle recenti uccisioni di neri disarmati da parte della polizia c’è l’idea implicita che la polizia debba proteggere e servire la popolazione. Ciò è, dopotutto, ciò per cui è stata creata. Se soltanto si potessero ristabilire relazioni normali, oneste tra la polizia e la comunità, il problema potrebbe essere risolto. I poveri, in generale, sono più soggetti di ogni altro a essere vittime della criminalità, questo è il ragionamento, e perciò si trovano in una situazione di maggior bisogno, rispetto a chiunque altro, della protezione della polizia. Forse ci sono poche mele marce, ma se soltanto la polizia non fosse così razzista, o non attuasse politiche quali quella dei fermi e delle perquisizioni, o non avesse tanta paura dei neri o sparasse meno contro persone disarmate, potrebbe rendere l’utile servizio di cui tutti abbiamo bisogno.
Questo modo liberale di considerare il problema si basa su un malinteso a proposito delle origini della polizia e di quali siano i fini per cui è stata creata. La polizia non è stata creata per proteggere e servire la popolazione. Non è stata creata per impedire i crimini, almeno non nel senso inteso dalla maggior parte delle persone. E certamente non è stata creata per promuovere la giustizia. E’ stata creata per proteggere dalla minaccia posta dal frutto di tale sistema, la classe operaia, la nuova forma del capitalismo del lavoro salariato emersa dalla metà alla fine del diciannovesimo secolo.
Questo è un modo rude di affermare una verità piena di sfumature, ma a volte le sfumature servono solo a confondere.
Prima del diciannovesimo secolo non c’erano, in nessuna parte del mondo, forze di polizia che riconosceremmo per tali. Nel nord degli Stati Uniti c’era un sistema di poliziotti e sceriffi eletti, molto più responsabili, in modo molto diretto, nei confronti della popolazione di quanto lo sia la polizia odierna. Al sud la cosa più simile a una forza di polizia erano i guardiani di schiavi. Poi, col crescere delle città settentrionali e il loro riempirsi di lavoratori salariati immigrati, separati fisicamente e socialmente dalla classe dominante, l’élite ricca che gestiva le varie amministrazioni comunali assunse centinaia, e poi migliaia, di uomini armati per imporre l’ordine nei nuovi quartieri della classe operaia.
Conflitti di classe turbarono città statunitensi della fine del diciannovesimo secolo, come Chicago che visse grandi scioperi e rivolte nel 1867, 1877, 1886 e 1894. In ciascuna di queste sollevazioni la polizia attaccò i dimostranti con estrema violenza, anche se nel 1877 e nel 1894 fu l’esercito statunitense a svolgere un ruolo maggiore nel reprimere definitivamente la classe operaia. Sulla scia di questi movimenti la polizia si presentò sempre più come una sottile linea blu [thin blue line – espressione colloquiale per indicare le forze dell’ordine – n.d.t.] a protezione della civiltà, intesa come civiltà borghese, dal disordine della classe operaia. Questa ideologia dell’ordine, sviluppatasi alla fine del diciannovesimo secolo, echeggia sino ai giorni nostri, salvo che oggi la minaccia principale è costituita dai poveri neri e latinoamericani, anziché dai lavoratori immigrati.
Naturalmente la classe dominante non ottenne tutto ciò che voleva e dovette cedere su molti punti agli immigrati che cercava di controllare. E’ per questo, ad esempio, che le amministrazioni comunali abbandonarono il tentativo di vietare l’alcool la domenica e assunsero molti agenti di polizia immigrati, specialmente irlandesi. Ma nonostante queste concessioni, gli uomini d’affari si organizzarono per garantirsi che la polizia fosse sempre più isolata dal controllo democratico e crearono proprie gerarchie, sistemi di governo e regole di comportamento. La polizia si distinse sempre più dalla popolazione indossando uniformi, stabilendo regole proprie per le assunzioni, le promozioni e i licenziamenti e lavorando alla creazione di uno spirito unico di corpo, identificandosi con l’ordine. E nonostante le denunce di corruzione e inefficienza, ottenne un sostegno sempre maggiore dalla classe dominante, fino al punto che, per esempio, a Chicago gli uomini d’affari donarono di tasca propria fondi per acquistare fucili, artiglieria, mitragliatrici a canne rotanti, edifici e denaro per creare fondi pensione per la polizia.
Non c’è mai stato un periodo in cui la polizia delle grandi città abbia fatto valere neutralmente “la legge” o sia arrivata in prossimità di tale ideale (quanto a questo, la legge stessa non è mai stata neutrale). Per tutto il diciannovesimo secolo al nord arrestava prevalentemente le persone per “crimini” mal definiti, come comportamento molesto e vagabondaggio. Ciò significava che la polizia poteva arrestare chiunque considerasse una minaccia all’”ordine”. Nel sud post-bellico imponeva la supremazia bianca e in larga misura arrestava i neri su accuse inventate per alimentare i sistemi di lavoro coatto.
La violenza messa in atto dalla polizia e la sua separazione morale da quelli che sorvegliava non furono la conseguenza della brutalità di singoli agenti bensì la conseguenza di attente politiche intese a plasmare la polizia in una forza che poteva usare la violenza per gestire i problemi sociali che accompagnavano lo sviluppo dell’economia del lavoro salariato. Ad esempio nella breve e dura depressione della metà degli anni ’80 del 1800 Chicago era piena di prostitute che lavoravano in strada. Molti poliziotti riconoscevano che queste prostitute erano in generale donne impoverite che cercavano un modo per sopravvivere e agli inizi ne tollerarono il comportamento. Ma la gerarchia della polizia insisteva che gli uomini di pattuglia facessero il loro dovere, indipendentemente dai loro sentimenti, e arrestassero queste donne, infliggessero multe e le cacciassero dalle strade mandandole nei bordelli, dove potevano essere ignorate da alcuni membri dell’élite e controllate da altri. Analogamente, nel 1885, quando Chicago cominciò a sperimentare un’ondata di scioperi, alcuni poliziotti simpatizzarono con gli scioperanti. Ma una volta che la gerarchia poliziesca e il sindaco decisero di sconfiggere gli scioperi, i poliziotti che si rifiutarono di rispettare gli ordini furono licenziati. In questo e in un migliaio di modi simili la polizia fu plasmata in una forza che avrebbe imposto l’ordine alla classe operaia e ai poveri, quali che fossero i sentimenti singoli degli agenti coinvolti.
Anche se alcuni agenti di pattuglia cercavano di essere gentili e altri erano apertamente brutali, la violenza poliziesca degli anni ’80 del 1800 non fu una questione di poche mele marce, né lo è ora.
Molto è cambiato dalla creazione della polizia: in misura più importante, l’afflusso dei neri nelle città settentrionali, il movimento dei neri della metà del ventesimo secolo e la creazione dell’attuale sistema d’incarcerazione di massa, in parte come reazione a tale movimento. Ma questi cambiamenti non hanno determinato una svolta fondamentale nell’attività di controllo. Hanno condotto a nuove politiche mirate a preservare continuità fondamentali. La polizia è stata creata per usare la violenza per conciliare la democrazia elettorale con il capitalismo industriale. Oggi è solo una parte del sistema della “giustizia penale” che continua a svolgere lo stesso ruolo. Il suo compito fondamentale consiste nell’imporre l’ordine a quelli che hanno ragioni maggiori per non sopportare il sistema, quelli che nella nostra società sono in misura sproporzionata neri poveri.
E’ possibile immaginare un sistema democratico di polizia, un sistema in cui i poliziotti siano eletti da quelli che controllano e siano tenuti a rispondere loro. Ma non è questo il sistema che abbiamo. E non è per questo che il sistema attuale è stato creato.
Se c’è una lezione positiva da ricavare dalla storia delle origini della polizia è che quando i lavoratori si sono organizzati, quando hanno rifiutato di sottomettersi o di collaborare e hanno causato problemi alle amministrazioni cittadine, hanno potuto far retrocedere la polizia dalle sue attività più insopportabili. Uccidere singoli agenti di polizia, come successe a Chicago il 3 maggio 1886 e più recentemente a New York il 20 dicembre 2014, ha solo reso più forti quelli che sollecitano una repressione dura, una reazione che già stiamo cominciando a costatare. Ma la resistenza su grande scala potrebbe costringere la polizia a esitare. Questo successe a Chicago nei primi anni ’80 del 1800, quando la polizia si ritirò dal reprimere gli scioperi, assunse agenti immigrati e cercò di ripristinare una certa credibilità presso la classe operaia dopo il suo ruolo nella repressione della ribellione del 1877.
La polizia potrebbe essere respinta di nuovo se continuasse la reazione alle uccisioni di Eric Garner, Michael Brown, Tamir Rice e innumerevoli altri. Se così fosse, sarebbe una vittoria di quelli che oggi si mobilitano e salverebbe delle vite, anche se, fintanto che sopravvivrà questo sistema che necessita della violenza poliziesca per controllare una grande fetta della propria popolazione, qualsiasi cambiamento nella politica poliziesca sarà mirato a tenere più efficacemente al loro posto i poveri.
Non dovremmo attenderci che la polizia sia qualcosa che non è. Da storici dovremmo sapere che le origini contano e la polizia fu creata dalla classe dominante per controllare i lavoratori e i poveri, non per aiutarli. Da allora ha continuato a svolgere tale ruolo.

giovedì 1 gennaio 2015

IL 2015, UN ANNO CRITICO E TURBOLENTO

Il 2014 termina con la decisione di Barack Obama di ristabilire le relazioni con Cuba, dopo di mezzo secolo di blocco economico e di attacchi contro la sovranità dell’isola. L’allegria che suscita la notizia deve però presto sfumare. L’avvicinamento si produce nel momento in cui gli Stati Uniti dimostrano una netta tendenza nel provocare conflitti e guerre, come parte della loro strategia di creare il caos sistematico per continuare il loro dominio.
L’anno che volge al termine è stato uno dei più intensi, già che la Casa Bianca ha dispiegato un insieme di iniziative che possono portare alla guerra tra i paesi che possiedono le armi atomiche. Il caso più critico è quello dell’Ucraina. Washington ha predisposto un colpo di Stato alle frontiere con la Russia, con l’intenzione di trasformare l’Ucraina in una piattaforma per la destabilizzazione e, eventualmente, per l’aggressione militare contro la Russia. La strategia statunitense è orientata a stabilire un accerchiamento militare, economico e politico alla Federazione Russa, per impedire ogni avvicinamento di questa con l’Unione Europea.
Tra i fatti più gravi del 2014, dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti non hanno mosso un dito per impedire i bombardamenti indiscriminati di Israele sulla Striscia di Gaza. La politica della Casa Bianca in Medio Oriente è di una ipocrisia allarmante. Gli USA hanno avallato delle elezioni più che dubbie in Egitto, dopo un colpo di Stato contro il primo governo democratico, che hanno portato al loro incondizionato alleato, Albdelfatah Al-Sisi, al potere.
La situazione caotica di conflitti ,che attraversano attualmente la Siria, il Sudan, l’Iraq e la Libia, è una chiara dimostrazione che si è progettata una strategia del caos, come vengono denunciando vari analisti internazionali, come sistema per ridisegnare le relazioni di potere a proprio favore. Continua ad essere un mistero di come le poderose forze militari occidentali non possano abbattere lo Stato Islamico, facendo crescere molti sospetti che l’organizzazione terrorista lavori in realtà sulla stessa strategia che muove il Pentagono e sia quindi una loro creatura.
In America Latina, richiama l’attenzione il silenzio della Amministrazione Obama circa i massacri che avvengono in Messico. Per molto meno, i funzionari del governo del Venezuela vengono adesso denunciati e messi sotto sanzioni dalla Casa Bianca.
Non smette di suscitare attenzione il fatto che la nuova escalation di misure contro il Governo di Nicolas Maduro risulti simultanea con l’avvicinamento a Cuba. Sembra d’obbligo domandarsi: quali vere intenzioni si annidano negli USA per questa nuova politica verso l’Isola?
Sembra evidente che non c’è una politica statunitense verso il Venezuela ed un altra verso Cuba, o verso il Messico. L’obiettivo è il medesimo: continuare a dominare l’area del Caribe, in Centro America, in Messico ed in tutto il Nord del Sud America, l’area dove gli Stati Uniti non ammettono sfide al loro dominio.
Per evitarlo tutto può andare bene. La guerra conto i settori popolari in Messico (con la scusa dei Narco) fu progettata per impedire una sollevazione popolare, che era possibile nei primi anni del nuovo secolo.
Per quello in Messico, gli Stati Uniti possono contare contare con una classe politica finanziata e formata da loro stessi, una classe di politici fedeli, corrotti e sottomessi. Qualche cosa con cui non possono contare in Venezuela, dove l’opposizione non ha ne’ la coesione sociale ne’ la capacità per dirigere il paese (sebbene con i dollari possano comprare molti), molto meno a Cuba, dove i quadri tecnici e politici non sono manipolabili secondo i programma dell’Impero USA.
In Venezuela si sta puntando fortemente sul caos, come si capisce dal tipo di azioni portate a compimento nei primi mesi di quest’anno dai settori più radicalizzati dell’opposizione. E’ probabile che cerchino di portare questa strategia del caos anche a Cuba, con tutto quello che implica: dalla introduzione della cultura capitalista (in particolare consumismo e droga) fino alla forma venale e clientelare della democrazia come è abituale in Occidente.
Come sembra, visto che ancora è presto per capire se la Casa Bianca stia promuovendo un cambiamento nella sua politica estera, esiste l’intenzione di creare una scala di priorità sul ruolo dell’America Latina. L’analisi del “Diario del Pueblo”, è orientata verso questa interpretazione.
La strategia degli USA di esercitare la loro influenza nella zona dell’Asia Pacifico è stata una decisione presa all’improvviso e già si sono resi conto di quella. Adesso gli Stati Uniti muovono le loro pedine verso altre strade. La normalizzazione delle relazioni con Cuba tende ad eliminare un grande ostacolo per la loro attiva partecipazione nelle questioni dell’America Latina, e si cala in un discreto adeguamento della loro fallita strategia di ritorno verso l’Asia -Pacifico.
E’ sicuro che Obama nella sua allocuzione ha fatto riferimento al fatto che la politica verso Cuba abbia distanziato gli USA dalla regione ed ha limitato le possibilità di spingere i cambiamenti nell’isola. Attraverso Cuba, simbolicamente gli USA enfatizzano il loro interesse per la comunità latino americana, conclusione a cui arrivano alcuni analisti.
Se è sicuro che la potenza USA stia puntando le sue batterie verso l’America Latina, ci troveremmo davanti ad una svolta di grandi proporzioni, alla volta che si starebbe rendendo evidente la scarsa consistenza della loro politica estera che, dal 1945 era stata focalizzata sul Medio Oriente e negli ultimi anni si è proposta di pendere verso l’Asia-Pacifico. In ogni caso, i latinoamericani si trovano di fronte a nuovi problemi. Negli ultimi anni il potere morbido degli USA ha provocato due colpi di Stato riusciti (Honduras e Paraguay ), una guerra di alta intensità contro un popolo (Messico), ha messo in scacco la governabilità in vari paesi (Venezuela e, in misura minore, Argentina) ed adesso affronta la maggiore società del Continente (la Petrobas del Brasile). Vedi: El Universal
Di sicuro l’incompetenza di alcuni governi gli facilita il compito.
Tutto fa pensare che il 2015 sarà un anno difficile, in cui le tendenze verso la guerra, la destabilizzazione ed il caos sistemico, probabilmente si accresceranno in forma esponenziale. Questo riguarderà tanto i governo conservatori quanto quelli progressisti, tra i quali ci sono sempre meno differenze.
Per i movimenti che cercano l’indipendenza e la sovranità ci continueremo ad impegnare nel seguirli, con la necessità di imparare a vivere ed a resistere negli scenari di acute tempeste. In quelle dove si temprano i veri naviganti.