giovedì 31 dicembre 2015

Il vero salva-banche

Il tanto discusso decreto non è in realtà nulla di nuovo; che i governi intervengano in soccorso delle banche accade da un pezzo, e quantomeno dalla crisi americana la cosa è più che manifesta. Dopo la crisi del 2008 infatti tanto la Bce quanto la Fed hanno immesso nel sistema creditizio migliaia di miliardi di dollari per parare quella parte degli istituti che si trova sotto il coccige. I pagatori di ultima istanza di quel malloppo furono ovviamente gli Stati e dunque i cittadini, per quello strano e famigerato fenomeno secondo cui gli istituti di credito privatizzano gli utili ma socializzano le perdite. Più tardi Mario Draghi avrebbe ripetuto la procedura, chiamandola Quantitative Easing; è cambiato il nome ma il risultato è rimasto lo stesso: a pagare sono i cittadini. A questo punto è evidente allora che anche il “bail in” è semplicemente un modo diverso per permettere la stessa cosa: che le banche possano speculare per proprio porco comodo con il denaro dei depositanti, chiedendo anche a quest’ultimi (oltre che ad azionisti e obbligazionisti) di pagare il conto (salato) in caso di fallimento.
Queste mosse ad ogni modo non servono neppure a salvare le banche, ma una loro depravazione, il “lato oscuro”. Difatti a questi “salvadanai” comunitari è stato affidato da generazioni e secoli un importante compito imprenditoriale, quello ossia di finanziare le imprese (dunque il lavoro e l’economia) con il risparmio delle famiglie. Quest’ultimo non è un compito ma una delicata missione, della quale tuttavia le banche sembrano essersi dimenticate. La salvezza infatti non serve tanto a mantenere intatta questa funzione, per la quale in realtà difficilmente un istituto può fallire, bensì per permettere a pochi farabutti di perseguire nei loro perversi giochi d’azzardo, nel trading borsistico, con obbligazioni e derivati. Ecco allora, cittadini e risparmiatori messi al muro per far continuare un gioco di fuffa, bolle speculative ed oniriche illusioni finanziarie.
Eppure le soluzioni ci sarebbero, e facili da applicare. Prima di tutto ridurre le dimensioni delle banche, dividerle in un esteso arcipelago di banche popolari e di microcredito, le uniche che finora non hanno mai chiuso i rubinetti per le aziende o per giovani dalle nuove idee e progetti imprenditoriali; le banche piccole hanno poi un grande vantaggio, che quandanche dovessero fallire i danni sarebbero circoscritti e limitati. Secondo poi nazionalizzare la banca centrale e farla tornare davvero ad essere “d’Italia”, non si può infatti credere che soggetti privati possano perseguire il bene pubblico, per questo è necessario che finalità comunitarie siano ricercate dallo Stato e non da investitori. Avere una banca nazionale e dunque la sovranità della propria moneta ci permetterebbe oltretutto di liberarci dal giogo della Bce, la quale al momento ci relega ad una condizione simile ad un Paese del terzo mondo; l’euro infatti non è di nostra proprietà, pertanto il denaro che circola sui nostri conti e nelle nostre tasche ci viene letteralmente prestato, e i prestiti, si sà, hanno un costo, una spesa stupida che potremmo (e dovremmo) non pagare. Infine bisognerebbe vietare a banche ed istituti di credito la possibilità di fare operazioni di investimento, dunque diverse dalla natura imprenditoriale che sarebbe propria di queste strutture; anche qui non si sta inventando nulla di nuovo, se si pensa anche soltanto al glass steagal act, una legge nata in seguito alla crisi del ’29 e che fino al 1999, anno in cui è stata abrogata, ha impedito alle banche l’attività speculativa. Se invece, come purtroppo probabilmente, questi stravolgimenti non rivoluzionari ma reazionari non dovessero esser presi in considerazione nè attuati, le soluzioni restano due: o il buon vecchio materasso, od il baratto.

mercoledì 30 dicembre 2015

Leggi speciali: pessima idea, ma i francesi ora le accettano

Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere dei governi. “Salus populi suprema lex est”, oppure “necessitas legem non habent”: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da uno stato normale, in cui il potere è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Lo stato di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il 18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio Ifop erano pronti ad “accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di limitazione della propria libertà”. Si assiste dunque a una curiosa forma di accettazione democratica della restrizione della libertà democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti. Primo elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni.
Questo non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più possibile la nostra emotività e riportare un’analisi fredda e razionale della realtà della situazione. In simili François Saint-Bonnetfrangenti il potere cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per riuscire ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero inaccettabili. George Bush è stato il campione dell’abuso di questo meccanismo. Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio di salvaguardia dello Stato o della società di fronte al pericolo con una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi speciali è giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con velocità, da quel riflesso istintivo che è la legittima difesa. È così che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste leggi non hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una minaccia che non è da meno. Passato il momento di estremo pericolo, bisogna tornare alla legalità “normale”, a costo di adottare misure inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra sicurezza e libertà.
Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere erode le libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare le minacce come anche per difendere i propri spazi di libertà. Questa tendenza a dare al potere una delega in bianco è stata molto forte nel 1961 in Francia, quando Charles De Gaulle venne accolto come un “salvatore”, ma oggi sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte relativa al controllo delle radio e dei giornali. Se la legislazione d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di urgenza? Il presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul momento ha invocato la proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la “ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto una revisione della Costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità allo Stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra». La proroga di tre mesi non significa che lo stato di urgenza sarà mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il presidente porre fine a questa misura. Controlli di polizia a ParigiAddirittura è anche possibile che sia un giudice a imporre la fine allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che le condizioni per la sua dichiarazione non sussistessero più e il presidente non accennasse a voler sopprimere la misura.
La ripulitura della legge del 1955 è un’altra cosa: non è mai molto saggio legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio assolutamente necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e alle perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito sull’argomento? Era davvero imperativo, come è successo, offrire in cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo pubblico sui media? Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla legge in un secondo momento. Come può il diritto assumersi il compito di risolvere la questione del terrorismo senza passare per leggi speciali? Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici del terrorismo jihadista. Questi soggetti non son né delinquenti né “classici” combattenti armati. Non sono delinquenti perché non temono la morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i loro fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte: il ladro vuole godere del bene che ha rubato, il violentatore intende continuare violentare. Questi sono i crimini che la società combatte, e ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o l’ergastolo per i crimini più gravi.
L’intero sistema penale della modernità riposa sulla logica secondo la quale la pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la morte, e che addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora tutto il sistema repressivo moderno ad andare in crisi, e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere alla tentazione di costituire una sorta di super diritto penale, che Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del nemico. D’altra parte i terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici. Quest’ultima categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul diritto di guerra che, pur riconoscendo ad alcuni soggetti il diritto di uccidere limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono comunque tali soggetti a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà: non prendersela con persone François Hollandedisarmate, ricorrere all’uso della forza in maniera proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e trattarli degnamente.
Il terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal momento che spara sulla gente disarmata, che giustizia persone in ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa vigliaccamente esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto. Inutile quindi provare a usare il modello del combattente per capire il terrorismo jihadista, come fa chi ricorre alla categoria di “combattente illegale” inventata dai vari Patriot Act del 2001. In poche parole, non serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con la sua gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra (anch’esso limitato da norme molto precise) che la modernità ha lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le democrazie contemporanee. Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della costruzione “ex nihilo” di una tipologia specifica di diritto applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale dall’altra. Ciò presuppone tuttavia la necessità di identificare con i criteri il più precisi possibile quei jihadisti che nutrono odio per la modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande, catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo, com’è capitato negli Stati Uniti dopo il 2001.
Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere: una vigilanza da parte della magistratura sulle amministrazioni e una società civile attenta, attraverso la stampa, le associazioni di difesa dei diritti fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così via. Ai terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano le garanzie procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si mettono tra parentesi le libertà fondamentali, infatti, e maggiore controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in prigione: anche se è difficile, dobbiamo continuare a pensarla così. Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla nazionalità. Privare un individuo del suo passaporto francese non avrà alcun impatto su una persona che odia già la Francia e Controlli di poliziache non si considera cittadino francese. Perché adottare la prospettiva dei “buoni” e dei “cattivi” francesi? È una scappatoia miope che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il proprio nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di “deradicalizzazione”.
In compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus, cioè dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se questi non ha commesso un reato. E con essa va posta di nuovo la questione della privacy, ovvero della possibilità di sorvegliare un individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria sensibile stabilita. Dal 1945 il livello di protezione delle nostre libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le minacce diminuivano sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione sarebbe rimasto immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la protezione giuridica delle libertà non potesse far altro che progredire con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà hanno un prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro. Il sistema giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di natura, descritto come condizione in cui l’insicurezza è insopportabile, e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la sicurezza degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso arbitrario della forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e libertà è necessariamente oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si eviti tanto il ricorso all’emotività che gli appelli all’autorità, rinnovando invece quelli alla razionalità.

martedì 29 dicembre 2015

L'Italia di Renzi è in guerra

La decisione del governo Renzi di inviare 450 soldati in Iraq sulla diga di Mossul è un atto di guerra in violazione brutale dell'articolo 11 della Costituzione, aggravato dalle ragioni privatistiche che lo motivano.
La società Trevi ha vinto l'appalto per la ristrutturazione della grande diga sull'Eufrate. E qui c'è già la prima menzogna della propaganda governativa, simile a quelle che si usano per giustificare le grandi opere in Italia. La diga infatti non è sull'orlo del crollo; tale affermazione, fatta per dare più valore morale all'invio di truppe, è stata smentita dallo stesso direttore dell'impianto che ha dichiarato che l'impianto opera in assoluta normalità. L'investimento di miliardi di euro serve ad un potenziamento dell'opera e la vittoria all'asta dell'azienda di Cesena fa parte della normale giostra dei grandi affari. All'interno dei quali rientrano anche le spese sulla sicurezza.
Sappiamo infatti che da tempo in Iraq, in tutto il Medio Oriente e in Afghanistan una delle attività più diffuse e ben remunerate è quella dei "contractors". Con questo termine si definisce l'evoluzione tecnologica ed organizzativa dei vecchi mercenari del secolo scorso. In questi paesi in guerra permanente i governi occidentali a partire dagli USA , che quella guerra hanno scatenato 25 anni fa, hanno scoperto di non avere truppe sufficienti a coprire tutti i punti di intervento. Così una parte delle attività militari e di sicurezza è stata privatizzata e affidata a multinazionali della sicurezza che impiegano decine di migliaia di persone e realizzano profitti miliardari. Ora Trevi potrà risparmiare per quella quota di spese, cosa che forse ha influito anche nel suo successo nel conseguire l'appalto, visto che esse saranno a carico dello stato italiano che invierà le proprie truppe con la funzione di contractors.
Dopo la privatizzazione della guerra ora abbiamo l'uso privato delle truppe pubbliche, e i nostri soldati vengono inviati in Iraq per tutelare un grande affare. Avveniva così all'epoca delle imprese coloniali ottocentesche, le prime truppe italiane sbarcarono in Eritrea nell'800 a seguito degli affari della compagnia di navigazione Rubattino. Anche qui la modernità renziana ci riporta indietro di due secoli e la violazione della Costituzione avviene saltando anche la tradizionale ipocrita copertura della partecipazione ad una coalizione internazionale. Dopo 25 anni di interventi militari in spregio dell'articolo 11, evidentemente si pensa che l'opinione pubblica si sia assuefatta e non abbia più bisogno di alte motivazioni. Non ci sono Onu, coalizioni democratiche, scopi umanitari a giustificare l'intervento militare italiano. Qui siamo solo noi che mandiamo in guerra all'estero i nostri soldati, in accordo con gli USA e, forse, con il governo iracheno. E lo facciamo a sostegno del business di una impresa italiana che dopo questa decisione ha visto il suo titolo in Borsa guadagnare il 25% in un sola seduta.
Se c'è un intervento militare che mostra tutta la natura affaristica della guerra al terrorismo, è proprio quello deciso dal governo italiano in Iraq. Che probabilmente prepara analoghe e ancora più vaste operazioni in Libia e poi ovunque gli interessi economici lo richiedano.
Quando Renzi e i suoi ministri affermano che non siamo in guerra mentono sapendo di mentire, le nostre truppe sono e saranno sempre più coinvolte nella sporca guerra che dura da 25 anni e che continuerà a crescere su se stessa se non riprenderemo a lottare per fermarla.

lunedì 28 dicembre 2015

Washington sta spingendo il mondo verso l’Armageddon

Una delle lezioni della storia militare è che una volta che la mobilitazione bellica ha avuto inizio assume una dinamica propria ed incontrollabile, scrive Paul Craig Roberts sul suo sito. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi.
Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la [sua] guerra contro l’ISIS.
La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’ISIS e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’ISIS trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale presidente Erddogan
Washington è stata colta di sorpresa dalla fermezza della Russia. Temendo che il rapido successo di tale decisiva azione russa avrebbe scoraggiato i vassalli NATO di Washington dal continuare a sostenere la sua guerra contro Assad e dall’usare il suo governo fantoccio a Kiev per tenere sotto pressione la Russia, Washington ha organizzato con la Turchia l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, nonostante l’accordo tra Russia e NATO che non ci sarebbero stati incontri aria-aria nella zona delle operazioni aeree russe in Siria.
Anche se nega ogni responsabilità, Washington ha usato la bassa intensità della risposta Russia all’attacco, per il quale la Turchia non si è scusata, per rassicurare l’Europa che la Russia è una tigre di carta. I presstitute occidentali hanno strombazzato: La Russia è una tigre di carta.
La bassa intensità nella risposta del governo russo alla provocazione è stata usata da Washington per rassicurare l’Europa che non vi è alcun rischio nel continuare la pressione sulla Russia in Medio Oriente, Ucraina, Georgia, Montenegro ed altrove. L’attacco di Washington ai soldati di Assad viene utilizzato per rafforzare la convinzione che si sta inculcato nei governi europei che il comportamento responsabile della Russia per evitare la guerra è [invece] un segno di paura e di debolezza.
Non è chiaro fino a che punto i governi russo e cinese capiscano che le loro politiche indipendenti, ribadite dai presidenti di Russia e Cina il 28 settembre, siano considerate da Washington come “minacce esistenziali” per l’egemonia statunitense. La base della politica estera degli Stati Uniti è l’impegno ad evitare il sorgere di poteri in grado di condizionare l’azione unilaterale di Washington. La capacità di Russia e Cina di fare proprio questo li rende entrambi un obbiettivo.
Washington non si oppone al terrorismo. Washington ha creato appositamente il terrorismo per molti anni. Il terrorismo è un’arma che Washington intende utilizzare per destabilizzare la Russia e la Cina esportandolo alle popolazioni musulmane in Russia e Cina. Washington sta usando la Siria, come una volta l’Ucraina, per dimostrare l’impotenza della Russia all’Europa –ed anche alla Cina, essendo una Russia impotente un alleato meno attraente per la Cina.
Per la Russia, la risposta responsabile alle provocazioni è diventata una [forma di] passività, perché incoraggia ulteriori provocazioni. In altre parole, Washington e la credulità dei suoi vassalli europei hanno messo l’umanità in una situazione molto pericolosa, in quanto le uniche scelte rimaste a Russia e Cina sono quelle di accettare il vassallaggio americano o di prepararsi per la guerra.
Putin deve essere rispettato per aver riservato più valore alla vita umana di quanto non facciano Washington e i suoi vassalli europei e per aver evitato risposte militari alle provocazioni. Tuttavia, la Russia deve fare qualcosa per rendere i paesi della NATO consapevoli che ci sono gravi costi nel loro essere così accomodanti verso l’aggressione di Washington contro la Russia. Ad esempio, il governo russo potrebbe decidere che non ha senso vendere energia ai paesi europei che si trovano di fatto in uno stato di una guerra contro la Russia. Con l’inverno alle porte, il governo russo potrebbe annunciare che la Russia non vende energia ai paesi membri della NATO. La Russia avrebbe perso i suoi soldi, ma è più conveniente che perdere la propria sovranità o una guerra.
Per porre fine al conflitto in Ucraina, o [per aumentarne l’intensità] a un livello oltre la volontà dell’Europa a parteciparvi, la Russia potrebbe accettare le richieste delle province separatiste di ricongiungersi con la Russia. Per Kiev continuare il conflitto, [significherebbe] che l’Ucraina dovrebbe attaccare la stessa Russia.
Il governo russo ha fatto affidamento su risposte responsabili e non provocatorie. La Russia ha adottato un approccio diplomatico, confidando su governi europei realisti, [capaci di] rendersi conto che i loro interessi nazionali divergono da quelli di Washington e [capaci di] cessare di consentire la politica egemonica di Washington. La politica della Russia non ha avuto successo. Per ripetere, le risposte responsabili della Russia sono state utilizzate da Washington per dipingere la Russia come una tigre di carta che nessuno deve temere.
Ci ritroviamo con il paradosso che la determinazione della Russia ad evitare la guerra ci sta portando direttamente in guerra.
Che i media russi, il popolo russo e la totalità del governo russo lo capiscano o meno, questo deve essere evidente per i militari russi. Tutto ciò che i capi militari russi devono fare è guardare la composizione delle forze inviate dalla NATO per “combattere ISIS”. Come fa notare George Abert, gli aerei americani, francesi ed inglesi che sono stati dispiegati sono aerei da combattimento il cui scopo è il combattimento aereo, non l’attacco al suolo. I caccia non sono stati dispiegati per attaccare l’ISIS a terra, ma per minacciare i caccia-bombardieri russi che stanno attaccando i bersagli dell’ISIS al suolo.
Non vi è dubbio che Washington stia spingendo il mondo verso l’Armageddon e l’Europa ne sia l’attivatore. [I pupazzi] acquistati-e-pagati-come-marionette di Washington in Germania, Francia e Regno Unito sono stupidi, indifferenti o impotenti a sfuggire alla morsa di Washington.
A meno che la Russia non svegli l’Europa, la guerra è inevitabile.

domenica 27 dicembre 2015

Ottimismo: ecco come influenza la nostra salute

L’ottimismo può aiutare ad affrontare i cambiamenti e ridurre il rischio di ricadere vittima di un disturbo cardiovascolare. È quanto emerge da uno studio condotto dal professor Jeff C. Huffman del Massachusetts General Hospital che ha analizzato i dati di 164 pazienti con un’età media di 62 anni, ospedalizzati per sindrome coronarica acuta tra il 2012 e il 2014, metà dei quali al primo episodio.
Ai pazienti, due settimane dopo il ricovero, è stato chiesto di compilare un questionario per misurarne il livello di gratitudine, di ottimismo e di sedentarietà sperimentati nel periodo precedente. I ricercatori, a distanza di sei mesi, hanno quindi misurato quante volte i pazienti erano stati nuovamente ricoverati e li hanno sottoposti all'analisi del sangue alla ricerca di biomarcatori di infiammazione, indice di un maggior rischio di episodi cardiaci futuri.
I pazienti riammessi in ospedale sono stati 35, quindi il 21% del totale, e 28 hanno avuto gravi problemi di cuore; gli ottimisti avevano un 8% in meno di probabilità di ospedalizzazione e il 6% in meno di rientrare in ospedale per altri problemi.
Anche rispetto all’attività fisica svolta dai pazienti, in media una distanza di 4 chilometri al giorno, gli ottimisti si sono dimostrati più attivi dei loro coetanei 'pessimisti'.
L'ottimismo, sottolineano gli autori, è uno stato mentale che “si concentra sulle aspettative future” ed è “più orientato all’azione, dando la sensazione che si può fare qualcosa per raggiungere un obiettivo, cosa che può promuovere cambiamenti positivi nei comportamenti legati alla salute”.
“Stress e depressione nei pazienti cardiaci sono stati indagati a lungo in cardiologia, ma... aumentare l’ottimismo può essere altrettanto importante che scacciare la depressione”.

sabato 26 dicembre 2015

Stati Uniti. Il passaggio da democrazia a plutocrazia è compiuto

Da tempo si parla di democrazia in pericolo nel mondo occidentale. Alla luce di uno studio chiamato “Billionaire Bonanza” dell’Institute for Policy Studies per quanto riguarda gli Usa sarebbe possibile parlare compiutamente di “plutocrazia”, ovvero governo dei ricchi. Secondo il rapporto infatti le 20 persone più ricche degli Stati Uniti possiede più ricchezza del 50% della popolazione totale americana.
Proporre la società americana come un modello sta diventando sempre più difficile per più di un aspetto, a cominciare dalla brutalità della polizia fino al crescente numero di Homeless o al proliferare di armi. Uno studio pubblicato dall’ Institute for Policy Studies infatti parla esattamente della disuguaglianza di ricchezza ormai fuori controllo nella società americana. Studio alla mano le venti persone più ricche degli Usa possiedono più ricchezze della metà della popolazione americana pari a circa 152 milioni di persone e a 57 milioni di famiglie. Nel rapporto gli autori sostengono che finora si sia abbondantemente sottostimato il livello di concentrazione della ricchezza in poche mani. Inoltre la crescita dell’uso di paradisi fiscali all’estero ha reso ancora più difficile monitorare la concentrazione di ricchezza, rendendo quindi difficile operare contro la diseguaglianza. I più ricchi, potendolo fare, tendono infatti a portare le loro ricchezze nei paradisi fiscali evitando in questo modo di pagare le tasse.
Solo negli ultimi dieci anni i 400 individui più ricchi degli Usa si sono arricchiti a dismisura- Forbes ha cominciato sin dal 1982 a pubblicare la lista dei 400 più ricchi d’America, e attualmente il peso totale della ricchezza dei 400 più ricchi supererebbe di 2.34 trilioni di dollari e avrebbe goduto di grandi esenzioni fiscali. Come annunciò l’economista francese Thomas Piketty infatti, l’economia americana starebbe diventando una aristocrazia ereditaria per quanto riguarda ricchezza e potere. Il rapporto avrebbe inoltre messo in evidenza come esistano gruppi di interesse e lobbisti a rappresentare imprese commerciali o professionisti mentre ce ne siano pochissimi quando non nessuno a difendere i poveri e i lavoratori comuni. Insomma gli Usa sono ormai compiutamente una Repubblica per ricchi, o forse è meglio definirla plutocrazia. Del resto gli stessi rappresentanti eletti negli Usa in realtà rappresentano la popolazione molto di meno rispetto a coloro che finanziano le campagne di questo o quel candidato imposto dall’alto. Chi ha i soldi nella sostanza comanda e detta le regole mentre agli altri non resta che adeguarsi. Senza l’appoggio da parte di super miliardari in sostanza sarebbe molto difficile per chiunque riuscire a farsi eleggere, o anche solo portare avanti una candidatura.

venerdì 25 dicembre 2015

Le 300 Hiroshima dell’Italia

Mentre la parola «sicurezza» ci rintrona gli orecchi amplificata dai megafoni politico-mediatici, le parole del ministro della difesa russo Shoigu sul sempre più pericoloso confronto nucleare in Europa sono cadute nel silenzio. Nessun allarme, nessuna reazione governativa in Italia riguardo a ciò che ha detto: «Circa 200 bombe nucleari Usa sono schierate in Italia, Belgio, Olanda, Germania e Turchia, e questo arsenale nucleare è soggetto a un programma di rinnovamento».
Per tale ragione, «le forze missilistiche strategiche russe mantengono oltre il 95% dei lanciatori pronto in ogni momento al combattimento». E mentre un sottomarino russo lancia dal Mediterraneo contro obiettivi Isis in Siria missili cruise Kalibr (che percorrono circa 3mila km a bassa quota accelerando nella fase finale a tre volte la velocità del suono), il presidente Putin avverte che «i missili Kalibr possono essere armati sia con testate convenzionali sia con testate nucleari», aggiungendo che «certamente ciò non è necessario nella lotta ai terroristi, e spero non sarà mai necessario». Questo chiaro messaggio diretto in realtà alla Nato, in particolare ai paesi europei in cui sono schierate le armi nucleari Usa, viene presentato dai media come la «battuta» di un Putin che «mostra i muscoli». Non si allarma così la popolazione, lasciandola all’oscuro del pericolo cui è esposta.
Le circa 70 bombe nucleari Usa B-61, pronte all’uso nelle basi di Aviano e Ghedi-Torre, stanno per essere sostituite dalle B61-12. A tale scopo — documenta la Federazione degli scienziati americani (Fas) con foto satellitari — è stato effettuato l’upgrade delle due basi, dove nel 2013 e 2014 si è svolta la Steadfast Noon, l’esercitazione Nato di guerra nucleare con la partecipazione anche di caccia F-16 della Polonia, che si è offerta di ospitare le nuove bombe nucleari Usa.
La B61-12 è una nuova arma nucleare che, sganciata a circa 100 km dall’obiettivo, è progettata per «decapitare» il paese nemico in un first strike nucleare. Si cancella così la differenza tra armi nucleari strategiche a lungo raggio e armi tattiche a corto raggio.
Non si sa quante B61-12 saranno schierate in Italia ma, con una stima per difetto, si calcola che la loro potenza distruttiva equivarrà a quella di circa 300 bombe di Hiroshima. Secondo le regole del Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, di cui fa parte l’Italia, i paesi che ospitano le armi nucleari Usa «mettono a disposizione aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari e personale addestrato a tale scopo», ma «gli Stati uniti mantengono l’assoluto controllo e la custodia di tali armi nucleari». La Fas conferma che a Ghedi sono stoccate le bombe nucleari Usa «per i Tornado italiani» e che piloti italiani vengono addestrati al loro uso.
Poiché si prevede di sostituire i Tornado con gli F-35, i primi piloti italiani, che hanno completato in novembre l’addestramento sugli F-35 nella base Luke della U.S. Air Force in Arizona, vengono addestrati anche all’uso delle B61-12.
L’Italia viola così il Trattato di non-proliferazione ratificato nel 1975, che la «impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente» (Art. 2). È divenuta di conseguenza base avanzata della strategia nucleare Usa/Nato e, quindi, bersaglio di rappresaglia nucleare. Vitale è la battaglia per la denuclearizzazione dell’Italia, senza di cui la generica richiesta dell’abolizione delle armi nucleari diventa copertura demagogica per chi non vuole affrontare la questione nodale. A dimostrazione che l’assopimento delle coscienze ha portato anche alla perdita dell’istinto di sopravvivenza.

giovedì 24 dicembre 2015

La crisi dove meno te l’aspetti: professionisti sempre più poveri

La crisi dove meno te l’aspetti: nel ceto medio del lavoro professionale. Avvocati, geometri, giornalisti, architetti e ingegneri, e poi medici e psicologi, tutti lavoratori autonomi iscritti a un ordine professionale che versano i contributi in una delle 19 casse previdenziali private. Il quinto rapporto sulla previdenza privata, presentato ieri a Roma dall’Associazione degli Enti di previdenza privati (Adepp), descrive un lavoro dove crescono drammatiche differenze generazionali tra gli under 40 e gli over 50, geografiche tra Nord e Sud e di genere tra uomini e donne.
L’Adepp attesta l’emersione della nuova questione sociale anche nel lavoro autonomo ordinistico quando parla di «professionisti sempre più poveri». Il loro reddito medio è «crollato», con una perdita in termini reali del 18,35% tra 2007, prima del deflagrare della crisi, e il 2014, anno per cui è disponibile l’ultimo aggiornamento. Tra il 2005 e il 2014 il valore medio reale del reddito è passato da 34 mila e 551 euro l’anno a 28 mila 960 lordi l’anno. Se si considera il reddito per fasce di età, emerge la realtà materiale in cui si trova oggi in Italia chi svolge un’attività professionale.
Come altri settori del lavoro indipendente, anche in quello professionale chi ha tra i 25 e i 30 anni guadagna in media 12.469 euro lordi all’anno. Chi ne ha oltre 50 guadagna 47.524 lordi all’anno. Da queste cifre bisogna sottrarre tasse e contributi. Per i giovani, e meno giovani, si può parlare di lavoro povero. Il rapporto lascia inoltre intendere che la progressione del reddito, come della carriera, non è lineare. Anzi, chi ha la fortuna di iniziare a lavorare relativamente presto può attestarsi su livelli di reddito talmente modesti da non potere onorare i versamenti previdenziali richiesti dalle casse di appartenenza. Le testimonianze e, sempre più spesso, le rivendicazioni che emergono dal mondo del lavoro autonomo – tra gli avvocati, i giornalisti o gli architetti, ad esempio – raccontano questa realtà.
Il presidente dell’Adepp Andrea Camporese, nella sua introduzione al rapporto tenuta davanti al ministro dell’economia Pier Carlo Padoan e al presidente della commissione lavoro del Senato Maurizio Sacconi, ha rilevato «l’impossibilità di esercitare la professione da parte dei giovani» in un paese dove è avvenuta una drastica perdita del reddito a causa della crisi. È avvenuto lo schiacciamento verso l’alto dei redditi e una loro redistribuzione diseguale.
Cresce anche il divario tra i guadagni delle donne e quelli degli uomini. Le prime guadagnano circa la metà: in Campania, Lazio, Liguria hanno incassato tra il 51,6% e il 55% del reddito dichiarato dai maschi. In ogni caso il tetto massimo per le donne si ferma al 70% dei guadagni degli uomini. In questa cornice si affermano gigantesche disparità territoriali. Un professionista in Calabria guadagna fino al 65% in meno rispetto a un collega che lavora in Lombardia.
Questo dato va tuttavia considerato con quello che attesta un aumento degli iscritti agli ordini nel Sud: +2,36% nel 2014, mentre al Nord c’è una flessione del 2,18%. Si diventa «professionisti», anche se si guadagna infinitamente meno. Un comportamento che può spiegarsi solo con la necessità di entrare in un perimetro riconoscibile del lavoro, anche se poi questo lavoro è misero e non è in grado di sostenere le spese per il Welfare di categoria.
In tutte le professioni si assiste anche a un aumento delle iscrizioni agli ordini, in particolare dei giovani e delle donne, cioè dei soggetti più sfavoriti dalle diseguaglianze di reddito e sociali. Nell’ultimo decennio sono aumentati del 20%. Nel 2014 i «liberi professionisti» erano quasi 1,5 milioni. Solo nell’ultimo anno si è registrato un aumento di 50 mila iscritti. L’aumento ha portato a un incremento dei contributi pensionistici del 2,87%.
Tra il 2005 e il 2014, il decennio della crisi, l’aumento è stato del 24,18%, anche se tra il 2012 e il 2014 c’è stata una flessione del 2%. La crescita maggiore è avvenuta nelle professioni tecniche (in particolare ingegneri e architetti), quelle giuridiche hanno registrato un aumento record: poco più del 110% tra il 2005 e il 2013. Stesso discorso per i giornalisti.
Una spiegazione la danno i numeri dell’Adepp: tra il 2005 e il 2014 l’erogazione delle prestazioni è aumentata del 58%, il 5% solo tra il 2013 e il 2014. La spesa per ammortizzatori sociali è aumentata del 251%, quelle per la maternità del 30%, le agevolazioni per i giovani del 50%, il «long term care» per gli anziani del 30%. Lì dove ci sono le risorse, le casse vengono usate per il Welfare che non si trova nel paese.
Il Welfare o la sanità pubblica sono sempre più in crisi, mentre la precarietà non dà tregua ai redditi. Le Casse private sono considerate un rifugio. Ma a che prezzo.

mercoledì 23 dicembre 2015

Strage di Bologna, la rabbia dei famigliari: "Il Governo ha mentito su risarcimento, depistaggi e desecretazione"

Depistaggio, risarcimenti e declassificazione degli atti. Su terrorismo e stragi, "il Governo continua a non mantenere le promesse e a prendere in giro i familiari delle vittime”. Paolo Bolognesi, deputato del Pd e presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime della strage di Bologna, si scaglia contro la legge di Stabilità. Nel testo che sta per essere approvato dal Senato, infatti, non c’è traccia di norme e poste di bilancio su questi argomenti. “Nessun emendamento per risolvere definitivamente le criticita' per la completa attuazione della legge 206 del 2004, quella sui risarcimenti", dice. "Nonostante gli impegni presi a Bologna, nell'anniversario della strage, le riunioni fatte con il sottosegretario Claudio De Vincenti, i vertici dell'Inps e del ministero degli Interni ai quali abbiamo illustrato i problemi e le possibili soluzioni per rendere completamente attuabile la legge sui risarcimenti alle vittime, niente e' stato fatto, neppure un provvedimento amministrativo", tuona Bolognesi. E cosi' ora, "se non seguiranno dei fatti da parte del Governo, che deve solo produrre dei fatti e non dei tavoli, vorra' dire che faremo delle cause legali su ogni aspetto che ci viene negato", annuncia Bolognesi. Leggi e norme per i benefici delle vittime di strage e terrorismo ci sono, "e chi dovrebbe farle funzionare invece crea ostacoli; ci sono funzionari che non vogliono assumersi le loro responsabilità, che chiedono pareri all'Avvocatura di Stato... con questo sistema, prima di venire a capo di alcune questione ci abbiamo messo anche 11 anni di tempo", sbotta Bolognesi. Ora pero' basta. Si meditano le cause dato che ci si aspettava che il Governo "presentasse un emendamento per risolvere definitivamente questa vergognosa situazione e, invece, nella legge di stabilita' non e' stato inserito neanche un rigo in favore delle vittime. E questa e' una delle tre promesse mancate che denunciamo da mesi", attacca Bolognesi. E per le quali su web e' stata lanciata una petizione che ha ottenuto oltre 2.300 firme. Allo stesso modo, "attendiamo ancora l'approvazione della legge sul reato di depistaggio, definita dal Governo, il 2 agosto, una priorita', ma ancora bloccata al Senato". Al palo, continua Bolognesi, e' pure "la soluzione delle criticita' relative alla declassificazione degli atti sulle stragi, di cui abbiamo parlato inutilmente in piu' riunioni". Di fronte alle giustificazioni prodotte nei giorni scorsi dal ministro Boschi, Bolognesi torna alla carica. "Probabilmente a Boschi hanno riferito 'altro' rispetto alla realta' scoordinata e omissiva del versamento dei documenti, conosciuta e segnalata al Governo, da quasi due anni, da tutti i familiari delle vittime di terrorismo e stragi". Recentemente, con una lettera, le associazioni 2 agosto, Ustica, piazza della Loggia e Rete degli archivi hanno denunciato "il rifiuto di alcuni Enti di versare le copie digitali dei documenti" e il mancato deposito di "fascicoli intestati ad esecutori e depistatori delle stragi perche' 'la direttiva e' per episodi e non nominativa'". E allora, domanda, a che serve "essere disponibili a dialogo e confronto, se manca il rispetto dei familiari delle vittime e dei loro diritti? Vedremo se il 9 maggio, giornata nazionale della memoria, e il 2 agosto, il Governo verra' a parlarci di cio' che ha fatto o a raccontarci altre balle".

martedì 22 dicembre 2015

La soluzione Ue alla crisi bancaria? Sequestrate i conti correnti

L'unione Europea è entrata in un vortice di problemi che apre la necessità di rivedere alcuni trattati, o di immaginarne altri.
Nulla di “progressivo” naturalmente, anzi di più reazionario. Ma un percorso disegnato a Maastricht, un quarto di secolo fa, sembra ormai arrivato al capolinea. Fin quando a porre problemi è stato un paese solo, per di più piccolo e debole come la Grecia (e prima ancora Cipro) la risposta è stata violenta: obbedite e basta.
Ora c'è invece da affrontare le bizze inglesi (paese fuori dall'euro e tentato di staccare la spina completamente anche dagli altri, minori, vincoli europei), mentre esplode la questione dell'”unità bancaria”.
Sul primo fronte, che ha visto gli inglesi porre un ricatto sociale brutale – “non forniremo più welfare agli immigrati comunitari, almeno per alcuni anni, se non ci date quello che vogliamo” - i margini di mediazione sono stretti ma abbastanza comodi. I tedeschi hanno detto che se ne può discutere, quindi si è cominciato a discutere.
L'altro fronte è invece semplicemente devastante, perché lì di margini non ce ne sono. Di visibili, almeno. L'”unione bancaria” tra i paesi che adottano la moneta unica prevedeva fin dall'inizio “tre pilastri”, da costruire progressivamente perché l'intero edificio potesse stare in piedi.
Il primo pilastro – Meccanismo di Vigilanza Unico (SSM), entrato in vigore nel 2013 ma operativo da novembre 2014; ovvero la vigilanza bancaria, da trasferire integralmente dalle banche centrali nazionali alla Bce – è a metà del guado. La Bce ha preso la sorveglianza sulle banche “sistemiche”, quelle di grandi dimensioni il cui eventuale fallimento potrebbe avere conseguenze disastrose. Per quelle piccole, invece, la vigilanza è rimasta per ora in mano alle autorità nazionali, perché soprattutto la Germania non ha voluto che qualcu altro ficcasse il naso nel sistema diffuso delle Landesbanken, istituti regionali quasi sempre controllati da un mix politici-imprenditori locali, che quasi mai presentano bilanci trasparenti e tanto meno in ordine. Ma anche a livello macro, come per esempio Deutsche Bank, gli istituti tedeschi possono esibire il minimo assoluto di credibilità globale (Deutsche è stata salvata più volte con soldi pubblici, negli ultimi anni, ed è stata alcentro di quasi tutti i crack finanziari del nuovo millennio).
Il secondo pilastro, il Meccanismo Unico di Risoluzione delle Crisi (SRM), che entrerà in vigore nel 2016, quindi ormai vigente. E infine il Fondo Unico di Risoluzione (SRF) che sarebbe dovuto andare a regime dal 2025.
Quest'ultimo è il vero nodo del contendere perché implica necessariamente un fondo unico di assicurazione sui depositi, ovvero la “mutualizzazione” tra tutti i paesi europei dei costi di eventuali fallimenti bancari, per garantire ai correntisti la disposibilità integrale dei soldi versati, fino a 100.000 euro. Valgono qui le parole con cui Angela Merkel, venerdì, ha annientato l'alzata di ingegno di tal Matteo Renzi sul tema: “La mutualizzazione dell'assicurazione dei depositi bancari farebbe l'opposto che ridurre i rischi nel sistema finanziario. Per questo pensiamo sia sbaglaita e a respingiamo”.
Come si vede, non è uno stop tattico, momentaneo, ossia il solito “prima mettete a posto i vostri conti e poi andiamo avanti insieme”. No. Qui c'è una rimessa in discussione del sistema, della sua struttura. Insomma, di un trattato (com'è stato costretto a ricordare Mario Draghi: «L'unione bancaria va completata. Su questo c'è stato un accordo, sia sulla costituzione di un sistema di assicurazione dei depositi, sia su un Single Resolution Fund (per finanziare gli interventi sulle banche in crisi ndr). Queste cose vanno fatte, anche perché in questo modo uno dei problemi che ha caratterizzato la crisi, il nesso bidirezionale tra banche e Stati sovrani, viene attenuato»).
Non è sorprendente che la questione sia esplosa a livello europeo dopo la vicenda del “salvabanche” italiano, con la scelta del governo Renzi di mettere in moto un bail in – anziché il Fondo interbancario, ancora esistente e operativo – che ha scaricato su obbligazionisti ingenui e correntisti di provincia i costi di una gestione oltre il limite del crimine organizzato. Si pensi che soltanto in Banca Etruria sono stati scoperti 25.000 conti correnti senza un titolare rintracciabile, facendo subito parlare di riciclaggio (e non certo di denaro pulito).
Non ci sono certo soltanto le piccole banche italiane in condizioni precarie, quindi la domanda “chi paga?” va posta a livello continentale. E la Germania del duo Merkel-Schaeuble risponde: “noi mai”.
E allora? La direzione di marcia è indicata con raro cinismo da Lars Feld, consigliere del governo tedesco e vicino al ministro Wolfgang Schaeuble, intervistato ieri da Federico Fubini sul Corriere della Sera: “I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100 mila euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi delle banche da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi”.
Una traduzione non sarebbe necessaria, ma la facciamo lo stesso: “Voi italiani dovrete tosare i vostri correntisti – e tutti lo siamo, perché è ormai obbligatorio avere un conto per versarvi stipendio o pensione – per salvare le vostre banche. Perché lo diciamo noi, Punto e basta”. Se non ce la fate nemmeno così, c'è sempre “Il fondo salvataggi è lì per gestire il rischio sistemico che va aldilà della capacità di un Paese”. Un meccanismo che inchioda ancora di più le possibilità di manovra di un governo nazionale e spinge, in casi neanche estremi, a vendere a prezzi stracciati aziende e/o banche; con tedeschi o francesi pronti a comprare. “Comunque – chiude Feld - dobbiamo impedire a qualunque governo di sussidiare le banche”.
Se i tedeschi non avessero usato 300 miliardi di fondi pubblici per salvare le loro, durante il momento peggiore della crisi finanziaria, il ragionamento sarebbe inaccettabile ma almeno “onesto”. Così è soltanto una rivendicazione del “diritto del capitale con base in Germania” a spadroneggiare dovunque, nel Vecchio Continente.
Sta di fatto, a questo punto, che la costruzione dell'Unione Europea si trova ad affrontare scogli inaggirabili. E se verrà comunque trovata una soluzione, questa sarà terribile per le popolazioni. Non più solo per lavoratori, pensionati, giovani, studenti. Ma anche per quel “ceto medio” che fin qui si era sentito tranquillo avendo “qualche risparmio in banca”.
Ma bisogna capire bene il discorso. Un lavoratore precario o stabile, o un pensionato che è obbligato ad avere un conto corrente, potrebbe pensare: "non sono un azionista, non ho mai voluto sottoscrivere obbligazioni della banca, ho molto meno di 100.000 euro, quindi posso stare tranquillo". Non è proprio così. La garanzia fino a 100.000 euro - per somme inferiori, dunque - è ancora a carico dello stato nazionale di appartenenza. Se i fondi disponibili per questo scopo non dovessero bastare, quello stato nazionale non potrà agire in deficit; quindi viene a saltare la garanzia anche per le piccole cifre, non solo per gli over 100.000.
Non a caso, il saggio Wofgang Munchau, sempre ieri e sempre dalle colonne del Corriere della Sera, in traduzione dal Financial Times, spiegava perché “L'unione bancaria è tanto necessaria quanto impossibile”.

domenica 20 dicembre 2015

Salvataggi bancari: l’Italia salva le banche degli altri ma non può salvare le sue.

Torniamo ancora sul caso delle quattro banche “salvate”, per gli ultimi aggiornamenti. Come si sa, il Governo ha presentato un emendamento alla Legge di Stabilità, ancora in discussione, che istituisce un fondo di solidarietà per una cifra pari a 100 milioni per rimborsare i risparmiatori che hanno perso tutti i loro soldi per il salvataggio di CariFerrara, CariChieti, Banca Marche e Banca Etruria. Il fondo sarà finanziato dal Fondo interbancario per la tutela dei depositi. Ovviamente questi 100 milioni non saranno sufficienti a rimborsare tutti gli obbligazionisti delle banche in questione, ma verrà valutato caso per caso di chi presenterà istanza di rimborso, le cui modalità saranno specificate con una nota del Ministero delle Finanze e saranno rimborsati solo coloro cui si rivelerà con certezza che sono stati truffati (siccome la truffa l’hanno subita tutti, aggiungiamo noi, i rimborsi verranno fatti per arbitrio). Inoltre, apprendiamo che non sarà la Consob, l’Autorità di vigilanza dei mercati, a giudicare i vari casi bensì gli arbitrati saranno dall’Anac, l’Autorità Nazionale Anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. Com’era prevedibile, il nostro Presidente del Consiglio, ha subito sfruttato l’occasione per presentarsi come il “salvatore dei risparmiatori”, elargendo i rimborsi come se fossero il suo regalo di natale dato alle persone gabbate dal decreto “salva banche” emanato dallo stesso suo Governo. Ecco le sue dichiarazioni fatte oggi al TG5:
“Non è il momento delle polemiche: meno male che abbiamo fatto il decreto […]. Le critiche al governo sono davvero incomprensibili perché abbiamo salvato un milione di persone e purtroppo le regole che ci sono, sono state fatte in passato. […]Faremo tutto il possibile perché chi è stato davvero truffato possa riavere i soldi.”
Sulla polemica che in questi giorni è in voga, e cioè sul caso Banca Etruria e i rapporti tra la banca e il padre del Ministro Boschi e sull’eventuale conflitto di interessi con l’operato del Governo, non abbiamo né intenzione e né voglia di dilungarci: carta stampata, TG e trasmissioni di approfondimento politico sono tutti impegnati a parlare di questo. In questa sede, noi ci limiteremo solamente a diffondere alcune notizie: sembra che, citiamo da Libero, nel decreto “salva-banche” non è prevista la “decadenza o la sospensione dei requisiti di onorabilità” per gli organi amministrativi e di controllo delle banche in risoluzione, dal momento che la disciplina vigente sull’onorabilità degli amministratori contenuta nel Decreto del Ministro del Tesoro 161 del 1988 (artt. 5 e 6) non contempla la procedura di risoluzione. Così, si lamentano i deputati di “Alternativa Libera-Possibile” Marco Baldassarre e Luca Pastorino, “qualsiasi amministratore o sindaco di Banca Marche, Banca Etruria, Carife e Carichieti può andare a ricoprire ruoli di vertice in altri istituti”. Leggiamo ancora nello stesso articolo di Libero che sempre il governo ha pensato bene di regalare agli ex amministratori, seppur fallimentari, uno scudo legale contro eventuali azioni di rivalsa al loro danni. “Non sono previsti meccanismi che consentano effettivamente a soci e creditori l’esercizio dell’azione di responsabilità”. E per le banche commissariate qualsiasi azione di rivalsa deve essere approvata dai commissari, dal comitato di sorveglianza e da Bankitalia. E senza questo placet non si può “esercitare l’azione di responsabilità”, sostengono i deputati. Infine, come svela il Fatto Quotidiano, il procuratore capo di Arezzo, quello della Procura che indaga sul presunto conflitto d’interessi degli ex vertici dell’istituto, sarebbe un consulente del governo a Palazzo Chigi. Nel numero 81 dell’elenco di consulenti e collaboratori della presidenza del Consiglio ecco materializzarsi il nome di Roberto Rossi, con tanto di curriculum. E nel cv si legge, tra le altre, che l’uomo è “attualmente Procuratore della Repubblica facente funzioni presso la Procura della Repubblica di Arezzo”.
Date queste informazioni, cerchiamo ora di volare un po’ più in alto. Il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nei giorni scorsi aveva dichiarato che “Il salvataggio delle quattro banche ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della scarsa educazione finanziaria della popolazione italiana”. Il che potrebbe essere anche vero, ma se si pensa che la maggior parte degli obbligazionisti truffati erano degli anziani, allora bisognerebbe anche domandarsi perché i consulenti delle varie banche hanno proposto a queste persone questo tipo di investimento.
In realtà, le obbligazioni bancarie, ordinarie o subordinate che siano, non sono mai state un investimento così rischioso come si vuol far passare. Come tutti sappiamo, a differenza delle azioni, che sono quote di capitale, le obbligazioni sono titoli di debito: non vengono ripagate solamente quando non si hanno i soldi per ripagarle. Nella storia recente italiana, i casi più famosi in cui gli obbligazionisti hanno perso il loro investimento sono stati il crac Parmalat e il crac Cirio. Ma in quel caso si trattava di aziende, seppur di grandi dimensioni. Nel caso delle banche, difficilmente dovrebbe accadere qualcosa di simile: innanzitutto perché è difficile che una banca si trovi in una situazione di insolvenza, come può trovarsi un’azienda, e pertanto l’insolvenza bancaria si verifica solo quando la banca fallisce. Ma le banche non falliscono quasi mai: i governi preferiscono sempre salvarle, per tutelare i propri cittadini e i loro risparmi. Nel nostro caso, infatti, le banche non sono ufficialmente fallite, ma sono state “salvate”, coi soldi degli obbligazionisti! Pertanto, a rendere rischiose le obbligazioni sono le nuove regole europee dei salvataggi, che come abbiamo visto nelle precedenti puntate, chiamano a concorrere nel salvataggio azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100mila euro.
Ma aggiungiamo dell’altro: i vertici delle quattro banche, dopo il commissariamento, sapevano certamente benissimo con quali modalità sarebbero state “salvate” le banche: l’attuazione del bail-in era già prevista per il 1 gennaio 2016. Il Governo avrebbe potuto evitare l’attuazione, ma siccome non poteva usare denaro pubblico, avrebbe dovuto usare le stesse regole su cui si basa il bail-in: poteva quindi soltanto escludere dal provvedimento alcune categorie di risparmiatori (correntisti e obbligazionisti ordinari). Ecco perché molti risparmiatori sono stati “truffati”: alcuni, come il pensionato suicida di Civitavecchia, si sono visti mutare i termini del loro investimento, passando da obbligazioni ordinarie a subordinate, altri sono stati “invitati” a sottoscrivere ex novo bond rischiosi. Come apprendiamo dalle indiscrezioni che trapelano sui giornali in questi giorni, i consulenti ricavavano ingenti provvigioni ogni volta che vendevano questo tipo di prodotto finanziario. È impensabile che questi consulenti non avessero ricevuto ordini precisi a riguardo. Intanto, il blog Voci dall’Estero ha pubblicato un documento dell’EBA, l’Autorità Bancaria Europea, datato 31 luglio 2014, in cui si rende evidente come le autorità UE sapessero benissimo che le nuove regole sul bail-in avrebbero costretto le banche a reperire capitale dai propri clienti per far fronte alle proprie sofferenze.
Il risvolto positivo di tutta questa vicenda è che fortunatamente sembra che, nel mondo bancario, qualcuno si stia svegliando. L’ABI, l’Associazione Bancari Italiani, ha inviato una comunicazione a tutti i propri associati, invitandoli a informare i propri clienti su cosa prevedono le nuove regole europee sui salvataggi. Ma ancora più clamorose sono state le dichiarazioni del Direttore Generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, che alla trasmissione “In mezzora” di RAI3 ha detto: “fiumi di denaro pubblico sono stati versati per banche di altri paesi europei ma non in Italia e nelle banche italiane”. Queste dichiarazioni sono state ufficializzate con un tweet dell’ufficio stampa di Bankitalia.
Il Direttore Generale Rossi ha pienamente ragione: l’Italia ha sottoscritto più di 125 miliardi di Euro di capitale (il 17,9% del totale) per il Meccanismo europeo di stabilità (MES), conosciuto anche come Fondo salva-Stati. Il MES è un fondo permanente con cui gli Stati dell’Eurozona possono gestire le crisi finanziarie dei Paesi. Nasce a sostituzione del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF), nati a loro volta per salvare dall’insolvenza Portogallo e Irlanda. A fronte di specifiche condizioni, il MES può concedere prestiti e linee di credito precauzionali, comprare titoli di Stato sul mercato primario e secondario, ricapitalizzare direttamente le banche. Il MES ha un capitale autorizzato di 700 miliardi di € di cui solo 80 versati dagli stati membri: i rimanenti 620 miliardi saranno raccolti attraverso apposite emissioni di obbligazioni sul mercato. Il nostro paese ha versato già 14,33 miliardi di capitale paid-in, cifra già contabilizzata nel debito pubblico nazionale, mentre il resto anche se non ancora versato è comunque messo a disposizione. Senza farla troppo lunga, ricordiamo semplicemente che attraverso il Fondo Salva Stati, noi abbiamo contribuito con soldi pubblici a salvare le banche di Grecia e Spagna!
La stessa Unione Europea, non ha posto nessun veto quando la Germania, ad esempio, ha salvato le proprie banche utilizzando denaro pubblico. Innanzitutto, come ormai sanno pure i muri, la crisi del 2008 è nata come crisi di debito privato e non di debito pubblico: con il salvataggio della Grecia attraverso i fondi salva stati nel 2011 e nel 2015, i soldi dei fondi sono andati a ripagare i debiti con i creditori esteri, che in gran parte erano le grandi banche tedesche, che nel periodo precedente, avevano prestato con troppa facilità soldi alla Grecia. Più recentemente, scopriamo che il 19 ottobre scorso, la commissione europea ha approvato il piano di salvataggio della HSH Nordbank, banca di Amburgo specializzata nel credito navale, la quale riceverà dallo Stato tedesco la sonora cifra di 3 miliardi di Euro. La HSH Nordbank è detenuta in maggioranza dai governi regionali dello Schleswig Holstein e di Amburgo. Questo è solo il caso più recente. Dal Sole 24 Ore apprendiamo che le banche tedesche nel loro insieme dal 2007 al 2013 hanno ricevuto 240 miliardi di euro di aiuti di Stato. L’Unione Europea ha permesso tutto questo, giustificando il tutto dicendo che “è legittimo il salvataggio di una banca anche tramite aiuti di Stato a determinate condizioni”. Tuttavia, noi non abbiamo ancora ben compreso quali siano queste “condizioni”.
Quel che capiamo benissimo invece è che in Europa i rapporti di forza contano parecchio: per permettere ad altri di incassare, ci deve essere qualcuno che è obbligato a pagare. Noi italiani, purtroppo, siamo i soliti sfortunati.

sabato 19 dicembre 2015

La stampa italiana non è credibile nel ruolo di “cane da guardia del potere”

«Le domande a cui la Boschi deve rispondere». «Le domande a cui la Boschi non ha risposto». «La Boschi risponda». «I punti su cui la Boschi non può tacere»…
A leggere i giornali di questi giorni, sembra che il nostro sia improvvisamente diventato il paese con la stampa più libera e agguerrita del mondo. Opinionisti e direttori azzannano il potere come feroci mastini napoletani, e non lo mollano finchè non lo hanno depurato di tutte le sue nefandezze. Ne sono felice, perbacco! E come potrei non esserlo, io che mi sono innamorato del mestiere di giornalista dopo aver visto “Tutti gli uomini del presidente” (con Robert Redford e Dustin Hoffman nei panni dei due “cani da guardia” del Washington Post che smascherarono i maneggi di Richard Nixon nel Watergate) e che sono cresciuto con l’idea romantica del giornalismo d’assalto? Salvo poi sbattere il muso contro la realtà e accorgermi che il mondo dell’informazione è tutt’altro che illibato.
Ecco, è proprio questo il punto a cui volevo arrivare. E’ possibile che la Boschi sia la mente più diabolica della storia del crimine, e compito di giornali davvero liberi è quello di metterla sotto torchio. Ma il nostro sistema dell’informazione è credibile nel ruolo di “cane da guardia” del potere, dopo che per oltre un secolo è stato condizionato dalla macchina di propaganda occulta dei servizi segreti di una potenza straniera, che lo ha spesso usato in funzione dei propri interessi politico-economici, contro quelli dell’Italia? Dopo aver a lungo lavorato con Mario Josè Cereghino sui documenti d’archivio britannici (e averli pubblicati in un libro) la mia risposta è: NO! Ed è un no ancora più tondo se confronto il chiasso assordante su responsabilità al momento del tutto ipotetiche della ‪#‎Boschi‬ con il silenzio di direttori e opinionisti sull’inoppugnabile certezza dei documenti inglesi.

venerdì 18 dicembre 2015

I fatali Boschi d’Etruria

Passi che a risolvere i brogli della politica, siano i medesimi cortigiani che le riservano costantemente servigi e cortesie. Si sorvoli che la necessità di soluzioni cozzi con l’evidenza dell’inadeguatezza da cui queste nascono, perché marchingegnate da chi ha contribuito ad appiccare l’incendio delle problematiche. E si ometta pure che il tentativo di appianare determinate circostanze oscilli tra lo sconcerto e il ridicolo. Persino Ezra Pound sarebbe risultato petulante, nella generosa prosperità della sua letteratura. “I politicanti sono i camerieri dei banchieri”. Anche se, avessimo avuto il privilegio di nominarci suoi contemporanei, probabilmente l’affresco dell’Italia odierna non avrebbe avuto tonalità così politicamente imbarazzanti. E fatali, ripugnandosi all’olezzo delle cruente cronache. Nella ostinata difesa del padre Pierluigi, Maria Elena Boschi appare come un’assonnata vestale, piuttosto che rassomigliare ad una procace e serafica domestica.
Le speculazioni della Banca dell’Etruria vanno oltre la ponderabilità di un’analisi: si cristallizzano nel limbo della dis-etica, rimanendo succubi della loro scelleratezza. Prima ancora di tampinare il profitto, la finanza azzanna, strema, e sbrana, chiunque le si pari dinnanzi. Quando non riesce a sfinire, logora mente ed anima, abbandonando la vittima nella solitudine della disperazione. Il commissariamento di Visco e di Padoan della conglomerata ove Boschi pater ha cotto succulenti e redditizi intrallazzi economici, subisce lo smembramento della sua serietà slacciando il nodo scorsoio di Luigino D’Angelo. L’impiccagione del pensionato di Civitavecchia ha deliberato che le fatiche lavorative ed affettive di un uomo sopravvissuto alla turbolenza di quasi tre quarti di secolo, occorrano ad omaggiare l’altare del lucro. Il boia è il decreto “Salva banche”, camuffato dall’innocente e onirica bellezza di un Ministro – non ce ne voglia la Boldrini – forse istituzionalmente immaturo per comprendere la drastica portata di bislacche disposizioni.
Il macabro epilogo di un creditore tradito dalla smania di proventi, demarca il confine della vergogna, e traccia il limite dell’ammissibile. Il suicidio di D’Angelo cela molto più di quanto possano indignare un lurido conflitto d’interessi e una malandata manovra di Palazzo. L’ennesima manifestazione del tirannico potere bancario, non ha soltanto stroncato l’esistenza di un 68enne: ha palesato l’inadeguatezza di un sistema immutabile. È la sconfitta di una rappresentatività che si vanti d’essere democratica, che badi alla tutela della propria comunità, e si preoccupi delle vite di chi la compone. Non avventando l’efferatezza della sua avidità contro le ignare sorti dei cittadini.

giovedì 17 dicembre 2015

Il fronte atlantista della troika contro il Front National

Come da me predetto il Front National francese non ha potuto conquistare neppure una delle tredici regioni d’oltralpe. Nel ballottaggio di oggi i meccanismi basati sulla paura e sulla menzogna, messi in atto dagli euroservi filo-atlantisti, hanno funzionato fin troppo bene. C’era da aspettarselo (e infatti almeno io me lo aspettavo).
Anche queste elezioni, come le precedenti dipartimentali, segnano il ritorno alla grande di Sarkozy, che quando era presidente ha avvicinato la Francia alla Nato e bombardato la Libia, aprendo la strada al caos e al califfato sunnita. I socialistoidi hanno abbassato le orecchie e votato per Sarkozy, che è molto peggio di Chirac, per il quale avevano votato in massa nelle presidenziali del 2002.
Questo perché i servi dell’occidente neocapitalista stanno tutti da una parte, senza distinzioni di colore politico che sono ormai fittizie e votano compatti, assieme agli idioti (non ce ne sono solo in Italia) che sono caduti nella trappola.
Ecco cos’è la sinistra oggi, in Francia come in Italia. Il prossimo passo sarà distruggere il Front National, o almeno l’immagine delle Le Pen, perché di voti ne hanno presi, non certo a sufficienza per vincere, ma un po’ troppi e potrebbero “disturbare il manovratore sopranazionale”. Dimostrazione lampante, queste elezioni, che dentro la liberaldemocrazia e giocando con le sue regole non si batte chiodo e nulla può cambiare.

mercoledì 16 dicembre 2015

GLI ITALIANI PREOCCUPATI CORRONO A VENDERE LE OBBLIGAZIONI BANCARIE

Venerdì gli italiani si sono affrettati a cercare di vendere le loro obbligazioni bancarie dopo essersi spaventati per le perdite inflitte agli investitori in quattro piccoli istituti di credito che hanno dovuto essere salvati il mese scorso.
L’Italia ha salvato Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFe alla fine di novembre utilizzando le nuove regole dell’Unione Europea che spostano le perdite sugli investitori quando una banca finisce nei guai, rimuovendo il peso dai contribuenti.
Circa 130.000 azionisti e i titolari di 790 milioni di euro di obbligazioni subordinate hanno visto il valore dei loro investimenti spazzato via. E’ la prima volta dal 1930 che gli obbligazionisti subiscono perdite in una crisi bancaria.
Il suicidio di un pensionato che ha perso soldi nel salvataggio ha fatto crescere l’l’indignazione.
La clientela retail ha tradizionalmente rappresentato una costante fonte di finanziamento per le banche italiane che vendevano le proprie obbligazioni attraverso la loro rete di filiali.
Venerdì alcuni intermediari hanno detto che molti di quei piccoli investitori stavano cercando freneticamente di scaricare le obbligazioni della banca ma non c’era alcun interesse da parte degli investitori istituzionali, quindi i prezzi continuavano a scendere.
“Gli italiani si stanno affrettando a vendere le obbligazioni bancarie subordinate,”, ha detto Giuseppe Sersale, un gestore di fondi presso Anthilia Capital.
“Gli investitori retail spaventati dalle proteste innescate dal salvataggio delle quattro banche stanno cercando di vendere, ma non c’è nessuno che vuole comprare.”
Le obbligazioni di banche come Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza, Monte dei Paschi e Banca Carige hanno sofferto più di tutti, secondo Alberto Gallo, capo della ricerca creditizia presso la Royal Bank scozzese.
“C’è stato anche un certo contagio verso alcune delle banche più robuste che sono probabilmente in mano alla clientela retail“, ha detto.
Un intermediario ha detto che molti volevano vendere il debito emesso da pesi massimi come Intesa Sanpaolo e UniCredit, anche se in questo caso la caduta dei prezzi ha offerto un’opportunità di acquisto per alcuni investitori istituzionali e per i fondi speculativi USA.
Nei prossimi mesi le banche non quotate in borsa Popolare di Vicenza e Veneto Banca dovranno raccogliere capitali freschi da parte degli investitori per soddisfare le richieste dalla Banca Centrale Europea.
Monte dei Paschi e Carige sono stati gli unici due istituti di credito italiani a dover raccogliere fondi sul mercato a seguito del controllo dello scorso anno agli istituti di credito effettuati dalla BCE.
I titoli bancari sono stati sotto pressione nelle ultime due settimane, Carige e Monte dei Paschi hanno toccato i minimi storici. Alle 15:00 Carige perdeva il 4,8% e Monte dei Paschi il 3,7%.
Un segno di preoccupazione degli investitori è che Veneto Banca ha dovuto pagare un rendimento di ben il 10,5% a fine novembre per vendere obbligazioni subordinate a 10 anni che quotavano il 97,63% del loro valore nominale.
La stessa obbligazione venerdì veniva scambiata a 88,29, in calo di circa 4 punti percentuali rispetto al giorno prima e con un rendimento del 12,7%.

martedì 15 dicembre 2015

LA MERKEL PERSONA DELL’ANNO? IL DISASTRO DELL’ANNO, PIUTTOSTO.

Angela Merkel è appena stata nominata “Cancelliera del Mondo Libero” e Persona dell’Anno dalla rivista Time. Ma la realtà è che non sta affatto volando in alto. Dopo oltre un decennio in carica, il capo del governo tedesco sta trascinando il suo partito verso il basso nei sondaggi, è criticata apertamente dal suo ministro delle finanze, non è in sintonia coi suoi partner europei, e ha riempito le strade di manifestanti arrabbiati.
Il suo rivale più potente, il ministro delle finanze Wolfgang Schauble, l’ha paragonata a una “sciatrice imprudente”, che fa precipitare le valanghe. La sua ribellione contro la politica migratoria delle “porte aperte” avviata dalla Merkel è largamente condivisa dai tedeschi, che ora sono decisamente allarmati al vedere un’afflusso di immigrati che non accenna a fermarsi. Le proteste contro le politiche della Merkel sono sempre crescenti, ma finora lei si è rifiutata di dargli ascolto.
Com’è possibile che sia andato tutto così storto per la donna più potente del mondo? Appena all’inizio di quest’anno la Merkel aveva celebrato l’anniversario dei suoi 10 anni in carica, ma subito dopo la sua fortuna è sembrata esaurirsi. Prima, riguardo la crisi dell’euro, c’è stata la decisione di imporre un duro regime di austerità alla Grecia, nonostante i greci avessero mostrato di voler rifiutare questa politica nelle elezioni – non una volta, ma ben due in un anno.
Lo spettacolo di una Germania che bullizzava i paesi più piccoli per mantenere una moneta unica di cui era la principale beneficiaria ha suscitato i ricordi di un passato nazista che la Merkel e i suoi predecessori avevano cercato di farsi perdonare.
Poi è arrivata la crisi migratoria, che si è dimostrata essere un test ancora più decisivo per la politica europea in generale e per la capacità politica della Merkel in particolare. La sua decisione di spalancare le porte ai profughi siriani è stata accolta inizialmente con grande plauso dai media, specialmente nel suo stesso paese, dove è stata soprannominata “Mutti” (“la mamma”). Il giornale tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung la ha salutata come “la madre d’Europa”. L’Economist l’ha definita “l’europea indispensabile”.
L’euforia però è durata poco. Perché il segnale della Merkel è giunto forte e chiaro non solo in Siria, ma in tutto il mondo musulmano, dalla Nigeria al Bangladesh, dall’Albania all’Afghanistan. Nel giro di poche settimane, c’erano milioni di persone in marcia. Non solo rifugiati, ma anche migranti economici. Per un uomo – e si trattava soprattutto di uomini giovani – quelli che non vogliono venire in Gran Bretagna hanno una destinazione ben precisa in mente: la Germania.
L’immigrazione è sempre una questione di numeri. La Merkel aveva già permesso ad oltre un milione di immigrati di ogni genere di insediarsi in Germania nel 2014, più di quanto avessero fatto gli Stati Uniti (un paese che però ha quattro volte la dimensione della Germania, e ha una lunga storia di immigrazione alle spalle).
All’inizio la stima era che sarebbero arrivati mezzo milione di rifugiati nel corso dell’anno, e altrettanti ogni anni per i prossimi anni. Ma i numeri sono stati rivisti costantemente al rialzo, ed è verosimile che almeno un milione di persone avranno cercato asilo in Germania entro la fine di quest’anno, escludendo gli altri tipi di immigrati.
Questo tsunami umano ha avuto effetti in tutta Europa. Prima c’è stato il tentativo di imporre le quote agli altri paesi UE, che ha sollevato solo astio e resistenza. Essendo arrivato così, subito dopo la crisi dell’euro, il ditino puntato della Merkel e (nel caso dell’Ungheria) anche la minaccia di sanzioni su un tema che va al cuore dell’identità nazionale, ha fatto un danno ancora più grande alla reputazione della Germania.
È stato anche controproducente. La Polonia, per esempio, è arrivata ad eleggere un partito che è fieramente anti-immigrazione, sostituendo un governo che aveva obbedito alla richiesta della Merkel, in realtà solo simbolica, di accettare 5.000 immigrati.
La Merkel ha dovuto volare ad Ankara poco prima delle elezioni turche dello scorso mese per implorare il presidente Erdogan di rallentare il flusso dei migranti verso il suo paese. In cambio, gli ha dato tutto ciò che voleva, perfino offrendo la possibilità di una corsia preferenziale per l’ingresso della Turchia nell’UE, o quantomeno della libertà per 80 milioni di cittadini turchi di viaggiare liberamente e lavorare in Europa.
Questo trionfo diplomatico ha permesso a Erdogan di ottenere la maggioranza decisiva, che lo aiuterà a raggiungere il suo obiettivo finale: instaurare una dittatura islamista.
In Germania, la popolarità della Merkel è crollata assieme a quella del suo partito. Anche se è troppo presto per suggerire che la grande coalizione tra Cristiano-Democratici e Social-Democratici si possa rompere, se le lotte intestine nel suo partito dovessero andare fuori controllo, la Merkel potrebbe essere costretta a rompere la coalizione, come fece Helmut Schmidt alla fine della sua carriera nel 1982.
Come per la Thatcher negli ultimi anni, anche alla Merkel sembra venire meno il giudizio. La sua mania di protagonismo sull’immigrazione è stata una caduta di rara gravità per una cauta pragmatista che preferisce seguire le opinioni dell’elettorato piuttosto che guidarlo. È stata punta dalle critiche anche per la sua vile decisione di tirarsi fuori dalla produzione di energia nucleare.
La sua gestione della crisi ucraina è sembrata altresì insensibile ai timori dei paesi più piccoli di fronte alle minaccie di Putin.
Anche se ha sempre saputo cavarsela, e ha solo 61 anni, sembra che il suo tempo si sia esaurito. Si trova improvvisamente sola al vertice. Anche suo marito e collega, il fisico Joachim Sauer ha detto a un gruppo di studenti tedeschi, in una recente visita a Oxford, di avere dei dubbi sulle politiche della moglie.
Konrad Adenauer, l’uomo che ha ricostruito la Germania ovest dopo il 1945, aveva per slogan “No esperimenti”. Angela Merkel ha dimenticato quello slogan quando si è imbarcata nel suo esperimento di accettare milioni di immigrati in un paese che non li vuole. Se non fa attenzione, la “Cancelliera del Mondo Libero” potrebbe molto presto non essere più nemmeno la Cancelliera della Germania.

lunedì 14 dicembre 2015

Europa, record di case sfitte e una su tre è abitata da single

La fotografia di Eurostat. Nei 28 Paesi dell’Unione il 17% degli alloggi è vuoto A Copenaghen i palazzi più vecchi, a Bucarest i più giovani. E il 3% è senza bagni». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Londra. L’Europa vive in una casa di proprietà, costruita prima della seconda guerra mondiale, con uno o nessun inquilino dentro e in qualche caso senza gabinetto. È la fotografia, non troppo rassicurante, scattata da Eurostat, l’agenzia di statistiche della Ue, sulle abitazioni nel vecchio continente, basata su un sondaggio del 2011. Un’immagine che non dice necessariamente come” viviamo”, ma illustra “dove” e già questo fornisce dati su cui riflettere. La maggior parte dei cittadini dell’Unione sono proprietari della residenza in cui abitano, e questo è un segnale positivo. Ma molti alloggi sono disabitati, molti europei vivono soli, la maggioranza delle case ha più di settant’anni e forse bisogno di un restauro - per non parlare della necessità dei servizi igienici per la minoranza, esigua ma pur sempre allarmante, che non li ha.
Un’abitazione su sei, in Europa, è disabitata. Il record va al Sud: spesso sono alloggi per le vacanze, dunque “seconde case”. L’emergenza abitativa, verrebbe da dire, si potrebbe risolvere più in fretta se le case non occupate venissero date a chi non ne ha. E in tema di alloggi sfitti l’Italia è sul podio. Secondo gli ultimi dati Istat, basate sul censimento del 2011, le case vuote sono oltre 7 milioni, il 22,7%, con picchi del 40% in Calabria e del 50 in Val d’Aosta. Di queste, più di metà sono case vacanza; le altre (2,7 milioni, stima l’Istituto di statistica) sono semplicemente disabitate.
Complessivamente, lo stivale è diviso a metà tra chi abita in appartamento (il 50%, contro una media europea del 41,1%) e chi ha scelto una soluzione indipendente o semi-indipendente. Ma non mancano le ombre: il 27,3% degli italiani vive in alloggi sovraffollati, e quasi una persona su 10 sperimenta il disagio abitativo.
Guardando ai 28 Paesi dell’Unione, il 70% dei cittadini è proprietario della casa in cui vive, percentuale che sale al 90% o quasi in Romania, Ungheria, Lituania e Slovacchia. L’Italia si colloca poco sopra la media, al 73%. La nazione con più case in affitto è invece la Germania, motore economico della Ue, con il 47 %, seguita dall’Austria (43%). Altro dato illuminante: più di 4 europei su dieci vivono in una casa di proprietà senza mutuo da pagare, cioè l’hanno comprata già tutta (o l’hanno ereditata). Il quinto Paese europeo per numero di case di proprietà è la Gran Bretagna: non a caso qui si dice che «la casa di un inglese è il suo castello».
Altro fenomeno di rilievo: quasi un terzo delle case dell’Unione ha un solo inquilino, una fenomeno che cresce al ritmo del 2% all’anno. La capitale della Norvegia, Oslo, è anche la capitale europea di chi vive solo: il 53% degli abitanti. E in Danimarca la percentuale è appena più bassa, il 47%, per scendere al 40 nel resto della Scandinavia e in Germania. La maggioranza di questi europei che abitano in solitudine sono donne. D’altra parte, Londra è la città europea con più case in coabitazione (per forza, con quello che costano); ed è anche la città dove convivono più coppie dello stesso sesso, il 13 per cento.
Il primato delle case più vecchie spetta a Copenhagen: il 68 per cento è stato costruito prima del 1946. Risale a prima della guerra anche un terzo delle abitazioni in Danimarca, Belgio e Regno Unito, mentre in Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Cipro il 43 per cento è stato eretto dopo il 1980. I più nuovi in assoluto sono i sobborghi di Bucarest, dove il 37% degli alloggi è venuto su dopo il 2000. Ma la Romania ha anche un record meno confortante: il 38% delle abitazioni non ha il bagno. E la toilette manca, in tutta la Ue, in 3 case su cento, una minoranza neanche tanto piccola per il mondo del 2015.

domenica 13 dicembre 2015

Assad: Gli USA e la Francia non sono seri nella lotta al terrorismo

Il presidente siriano Bashar al-Assad ha dichiarato che il primo passo per sradicare le reti terroristiche in Siria sta nel fermare il flusso di terroristi attraverso le frontiere, in particolare quella della Turchia.
In un'intervista con l'agenzia di stampa spagnola "EFE" Assad ha affermato che la Turchia è l'unica arteria della rete terroristica Isis, "Daech" in arabo, assicurando che l'Arabia Saudita, Turchia e Qatar sono le parti principalmente coinvolte nella atrocità commesse da questo gruppo terrorista.
"Siamo pronti a condurre negoziati con l'opposizione, ma dobbiamo prima definire questa opposizione che non significa lotta armata", ha dichiarato al-Assad, che ha assicurato che c'è una grande differenza tra uomini armati e terroristi da una parte e l'opposizione dall'altra.
Alla domanda se la delegazione siriana sarà presente alla conferenza, che si terrà a New York, il presidente al-Assad ha spiegato che la conferenza non era stata ancora confermata,aggiungendo: "I russi preferiscono tenere la conferenza a Vienna, hanno indicato che non è opportuna tenerla prima della definizione dei gruppi terroristi e coloro che non sono terroristi. Per noi in Siria, si considera "un terrorista" chiunque impugni le armi. Quindi è illogico tenere la riunione a New York o in qualsiasi parte del mondo senza la definizione di questo termine."
Per quanto riguarda lo sradicamento di Daech, al-Assad ha ribadito che deve prima essere definito un accordo a lungo termine con le istituzioni per vietare l'ideologia wahhabita-saudita e si devono bloccare i fondi a quelle istituzioni in giro il mondo che diffondono il terrorismo.
Facendo riferimento alla lotta contro il terrorismo da parte dell'esercito siriano e di tutte le parti che sostengono il presidente al-Assad ha sottolineato la necessità di affrontare, nel breve periodo, questo fenomeno attraverso la cessazione di tutte le forme di sostegno fornito da Arabia Saudita, Qatar e Turchia ai terroristi.
A proposito di coloro che acquistano petrolio da Daech il presidente al-Assad ha parlato delle sequenze video diffuse dai russi sulle navi cisterna cariche di petrolio e che attraversano il confine -turco-siriano, che indicano come la Turchia, sia l'unica via per i terroristi Daech per vendere questo petrolio a prezzi "economici" in altri paesi.
In merito alla questione su quando la guerra finirà in Siria, secondo il Presidente siriano, nel momento in cui, alcuni paesi, come la Turchia, l'Arabia Saudita e Qatar, finiranno di sostenere il terrorismo, il conflitto finirà in meno di un anno.
Inoltre, al-Assad ha notato che non c'è assolutamente alcun coordinamento militare tra l'esercito siriano e la coalizione guidata dagli Stati Uniti, evidenziando a tal fine la diffusione di Daech nonostante i raid guidati dalla Coalizione da oltre un anno. "Al contrario, i due eserciti, russi e siriani, hanno ottenuto dopo alcune settimane di attacchi delle vittorie più importanti di quelle condotte dalla Coalizione per oltre un anno" ha affermato.
"Gli Stati Uniti non sono seri nella lotta contro il terrorismo e vogliono debellare Daech o l'estremismo o il terrorismo", ha spiegato al-Assad.
Inoltre, ha aggiunto che anche la Francia non è seria nella lotta contro il terrorismo, dichiarando guerra all'Isis solo dopo gli attacchi che si sono verificati lo scorso mese a Parigi.
Assad ha anche assicurato che l'Europa può lottare contro il terrorismo ed ha, come la Siria l'interesse a farlo, sottolineando che "tutti hanno l'interesse nella lotta contro il terrorismo, ma c'è bisogno di forza di volontà e io non sono attualmente ottimista circa l'esistenza di una tale volontà ".
Alla domanda su cosa il presidente Vladimir Putin gli abbia chiesto in cambio dell'aiuto militare russa, Assad ha assicurato che la Russia vuole la stabilità della Siria, dell'Iraq e nella regione, evidenziando che la Russia è a difesa diretta dell'Europa, che non è lontano dalla Siria.
Inoltre, il presidente al-Assad ha ribadito che non lascerà qualunque siano le circostanze che è rimasto dopo circa cinque anni a causa del supporto della maggioranza dei siriani.
Il leader siriano ha smentito, tra l'altro, che gli iraniani pensano di stabilire una base militare in Siria.
Sulle opportunità per la partecipazione di Erdogan alla ricerca di una soluzione della crisi in Siria, al-Assad ha osservato: "Non abbiamo alcun problema con Erdogan, se rinuncia alla posizione criminale che egli ha adottato fin dall'inizio della crisi in Siria nel sostenere i terroristi con qualsiasi mezzo. Ma noi non crediamo che Erdogan cambierà, per un semplice motivo, vale a dire l'ideologia dei Fratelli Musulmani che segue."
Alla domanda circa i suoi timori circa un compromesso, Ucraina contro Siria, tra gli Stati Uniti e la Russia, il presidente al-Assad ha spiegato di non termerla, perché i russi sono pragmatici, adottano al tempo stesso una moralità politica che si basa su valori e principi, non solo sugli interessi.
Per quanto riguarda il suo parere in merito all'abbattimento del caccia russo da parte della Turchia, il presidente al-Assad ha parlato di un cambiamento positivo sul terreno a terra dopo l'inizio del coinvolgimento militare russo in Siria per combattere contro le reti terroristiche, indicando che Erdogan crede il suo fallimento in Siria, è la fine del suo futuro politico, e che spingerà la NATO a un conflitto con la Russia a complicare ulteriormente la situazione sul terreno in Siria.
"Accusare il governo siriano di attaccare i civili non ha senso. La prova è che la maggior parte delle famiglie dei combattenti dell'opposizione non vive con loro, ma sono supportati dal governo ", ha precisato.
Quando gli è stato chiesto un suo messaggio ai rifugiati siriani che hanno preso la fuga dei loro paesi, il presidente al-Assad ha affermato che la maggior parte dei rifugiati sono sostenitori del governo e che hanno dovuto lasciare il paese a causa della situazione dei crimini dei terroristi che ucciso delle persone e hanno distrutto infrastrutture e a causa dell'embargo imposto dall'Occidente in Siria e che li ha privati di ottenere i loro bisogni primari.
"Non ho alcun messaggio per i rifugiati perché ritorneranno nella loro terra d'origine, dopo il miglioramento della situazione, perché la maggior parte di loro amano la loro patria. Il mio messaggio deve essere inviato ai governi europei che hanno aiutato i terroristi e hanno imposto un embargo che ha dato beneficio ai terroristi ed ha esortato i rifugiati a lasciare la Siria per altri paesi. Il mio messaggio è che i governi europei, se stanno lavorando per l'interesse del popolo siriano come dicono, è necessario togliere l'embargo e porre fine l'afflusso di terroristi in Siria ", ha evidenziato.
Assad ha concluso: "L'unico modo per ottenere una reale soluzione politica è la riconciliazione che si basa sulla concessione da parte del governo siriano di amnistia ai terroristi che cedono le loro armi."

sabato 12 dicembre 2015

C’è del marcio in Arabia Saudita

Nelle ultime settimane una nazione dopo l’altra si accoda, letteralmente, al tiro al piccione conosciuto, erroneamente, come guerra in Siria, apparentemente contro lo Stato islamico. La domanda più cercata e più temuta è dove porterà tale frenesia bellica, e come può essere fermata prima di trascinare l’intero pianeta nella guerra mondiale?Salman-bin-Abdulaziz-Al-Saud-Barack-Obama1Il 30 settembre, rispondendo ad un invito formale o richiesta dal presidente legittimo della Repubblica araba siriana, la Federazione russa iniziava una campagna di bombardamenti, inizialmente molto efficace a sostegno del governo siriano. Il 13 novembre in seguito agli attacchi terroristici rivendicati dallo SIIL a Parigi, il presidente francese proclamava la Francia “in stato di guerra” e inviava la sua unica portaerei, la Charles de Gaulle, in Siria per unirsi alla battaglia immediatamente. Poi il 4 dicembre, il parlamento tedesco ha approvato l’invio di 1200 soldati e 6 jet Tornado per “aiutare” la Francia. Rapporti dalla Germania dicono che i tedeschi non collaboreranno con la Russia o il regime di Assad, ma con il comando CentCom in Florida e il quartier generale della coalizione, non a Damasco, ma in Quwayt. La stessa settimana il parlamento inglese approvava l’invio di aerei e forze per “combattere lo SIIL” in Siria. Ancora una volta possiamo essere sicuri che non aiuteranno la causa della Russia collaborando con l’esercito siriano per ripristinare la sovranità in Siria. Poi la testa calda del presidente turco Recep Erdogan, fresco del criminale abbattimento premeditato del Su-24 russo in Siria, inviava carri armati turchi nella regione petrolifera di Mosul dell’Iraq, contro le veementi proteste del governo iracheno. E si sono aggiunti a questo caos gli Stati Uniti sostenendo che i loro aerei bombardano chirurgicamente i siti dello SIIL da più di un anno, col solo risultato di fare espandere i territori controllati da SIIL e altri gruppi terroristici. Se prendiamo un minuto facendo un passo indietro e riflettere si può facilmente capire che il mondo letteralmente impazzisce, con la Siria che semplicemente innesca una situazione peggiore che potrebbe distruggere il nostro bel pianeta pacifico.
Qualcosa d’importante manca
Nelle ultime settimane ero sempre più insoddisfatto dalle spiegazioni generali su chi in realtà tiri le fila della trama mediorientale o più precisamente delle trame, fino al punto di riesaminare le mie precedenti opinioni sul ruolo dell’Arabia Saudita. Dal giugno 2015 l’incontro a sorpresa a San Pietroburgo tra il presidente russo Putin e il ministro della Difesa saudita principe Salman, la monarchia saudita dava l’impressione di un attento riavvicinamento con l’ex-arcinemica Russia, anche discutendo dell’acquisto per 10 miliardi di dollari di equipaggiamenti militari e impianti nucleari russi, e il possibile “faccia a faccia” di Putin con il re saudita Salman. Il lungo corteo di capi sauditi a Mosca e Sochi negli ultimi mesi, per incontrare il Presidente Putin, dava l’impressione di una versione moderna del viaggio del 1077 dell’imperatore del Sacro Romano Enrico IV per incontrare Papa Gregorio VII nel castello di Canossa, e chiedere la revoca dello scomunica. Questa volta sembrava che i sovrani del Golfo avessero il ruolo di Enrico IV, e Vladimir Putin quello del Papa. O almeno così sembrava. Almeno lo credevo, al momento. Come molti eventi politici globali, era ingannevole e menzognero. Ciò che oggi emerge, soprattutto dall’agguato deliberato dei turchi all’aviogetto Su-24 russo nello spazio aereo siriano, è che la Russia non combatte una guerra solo contro i terroristi dello SIIL, né contro i sostenitori dello SIIL in Turchia. La Russia affronta, forse inconsapevolmente, un complotto molto più pericoloso. Dietro la trama vi è il ruolo occulto dell’Arabia Saudita e del suo nuovo monarca, re Salman bin Abdulaziz al-Saud, e del figlio, il ministro della Difesa principe Salman.
La ‘politica interventista impulsiva’ saudita
I media tedeschi hanno ampiamente riportato stime dell’intelligence tedesca BND. La BND è la versione tedesca della CIA. Il rapporto della BND, tra le altre cose, si concentra sul ruolo crescente del figlio del re, il 30enne principe Muhamad bin Salman. Riferendosi al ruolo del principe la BND dichiara, “L’attuale posizione diplomatica prudente dei membri anziani della famiglia reale saudita sarà sostituita da una politica d’intervento impulsiva“. Il principe Salman è ministro della Difesa e ha portato il Regno, all’inizio dello scorso marzo, nella folle guerra denominata “operazione Tempesta Decisiva” contro il vicino Yemen. I sauditi dirigono una coalizione di Stati arabi che comprende Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Quwayt, Qatar e Bahrayn. Il principe è anche capo del Consiglio economico saudita, che ha creato. Il nuovo re, Salman, non è il tizio benevolo che il suo staff di PR cerca di dipingere. Nel mio prossimo libro, L’egemone perduto: coloro che gli dei distruggeranno, documento in dettaglio che da quando il capostazione della CIA di Cairo, Miles Copeland, organizzò il trasferimento dei Fratelli musulmani, banditi in Egitto per un presunto tentativo di assassinio di Nasser, in Arabia Saudita nei primi anni ’50, c’è il matrimonio perverso tra monarchia saudita e organizzazioni terroristiche “islamiste”. Come ha detto John Loftus, ex-funzionario del dipartimento di Giustizia, dall’unione tra Fratelli musulmani d’Egitto e il rigorismo islamico saudita, “si fusero le dottrine naziste con lo strano culto islamico del wahhabismo“. La CIA di Allen Dulles convinse segretamente la monarchia saudita, nel 1954, a ricostruire i banditi Fratelli musulmani, fondendo la fratellanza con l’ultra-fondamentalismo wahhabita saudita, naturalmente, col sostegno delle vaste ricchezze petrolifere saudite. La CIA previde che i sauditi utilizzassero i Fratelli musulmani come arma nel mondo musulmano contro le temute incursioni sovietiche. Il giovane terrorista fanatico Usama bin Ladin sarebbe poi nato da tale matrimonio infernale tra Fratellanza e wahhabismo saudita. Re Salman partecipò alla creazione di al-Qaida, come fu poi soprannominato dai media. Il suo coinvolgimento risale alla fine degli anni ’70, quando governatore di Riyadh fu nominato capo degli importanti enti di beneficenza sauditi conservatori, che poi finanziarono al-Qaida in Afghanistan e Bosnia. Salman lavorò intensamente al finanziamento di ciò che divenne al-Qaida, insieme al ‘gestore’ di bin Ladin, l’allora capo dei servizi segreti sauditi principe Turqi al-Faysal, e alla Lega musulmana mondiale finanziata dai sauditi. Re Salman in quei giorni era l’Alto Commissario saudita per il soccorso della Bosnia-Erzegovina, una facciata di al-Qaida nei Balcani negli anni ’90. Secondo un’indagine delle Nazioni Unite, Salman negli anni ’90 trasferì più di 120 milioni di dollari da conti sotto suo controllo, così come dai conti personali, alla Third World Relief Agency, facciata di al-Qaida e canale principale per il contrabbando di armi ai combattenti di al-Qaida nei Balcani. Usama bin Ladin era direttamente coinvolto nelle operazioni di Salman. Durante l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003-4, al-Qaida entrò nel Paese guidata dal terrorista marocchino Abu Musab al-Zarqawi, che aveva giurato fedeltà ad al-Qaida, creando al-Qaida in Iraq che poi si proclamò Stato islamico in Iraq, precursore finanziato dai sauditi dello SIIL. Un documento declassificato della DIA del Pentagono dimostra che nell’agosto 2012 la DIA sapeva che la rivolta siriana sostenuta dagli Stati Uniti era dominata dai gruppi islamisti, come “salafiti, Fratelli musulmani e al-Qaida in Iraq“. Secondo l’autore Gerald Posner, il figlio di Salman, Ahmad bin Salman che morì nel 2002, aveva legami con al-Qaida.
L’impero del petrolio saudita
Se si segue la comparsa di al-Qaida in Iraq e la sua trasformazione in Stato islamico in Iraq e Siria (SIIL), tutte le tracce portano alle operazioni saudite risalenti alla fine degli anni ’70 che coinvolgono re Salman, il saudita Usama bin Ladin e il capo dell’intelligence saudita principe Turqi al-Faysal. Washington e CIA collaborarono con tale rete saudita, portando bin Ladin e altri sauditi in Pakistan ad addestrarsi con l’intelligence pakistana ISI, creando ciò che divennero i mujahidin afghani. I mujahidin furono creati dalle intelligence saudita, pakistana e statunitense per sconfiggere l’Armata Rossa nella guerra degli anni ’80 in Afghanistan, con l'”Operazione Ciclone” della CIA, il piano di Zbigniew Brzezinski per attirare Mosca nella “trappola per orsi” afghana e dare all’Unione Sovietica ciò che chiamò il suo “Vietnam”. Il cosiddetto SIIL in Iraq e Siria, così come al-Nusra di al-Qaida in Siria e varie altre bande terroristiche jihadiste, attaccate dalla Russia e dal governo di Damasco di Assad, hanno origine in Arabia Saudita, dalle attività di re Salman. Il re subì una conversione sulla via di Damasco, verso una visione del mondo pacifica quando diventò re, come suo figlio, principe Salman? Nonostante i segnali degli ultimi mesi secondo cui i sauditi avrebbero cessato di finanziare le organizzazioni terroristiche anti-Assad in Siria, è vero il contrario.
I sauditi dietro Erdogan
Molta attenzione negli ultimi tempi viene data, comprensibilmente, alla dittatura del delinquente turco Recep Tayyip Erdogan. Ciò è particolarmente vero in quanto la sua aviazione ha deliberatamente abbattuto l’aviogetto Su-24 russo sul territorio siriano, un atto di guerra. Pochi notano i legami di Erdogan e del suo AKP con la monarchia saudita. Secondo una ben informata fonte politica turca con cui parlai nel 2014, coinvolta nel tentativo di mediare la pace tra Assad e Erdogan, prima della campagna elettorale presidenziale dell’agosto 2014, Erdogan fu “unto” con un regalo di 10 miliardi di dollari dai sauditi. Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali, Erdogan e il suo primo ministro Ahmet Davutoglu aprirono molti centri di addestramento segreti di ciò che fu chiamato SIIL. Sotto la supervisione di Hakan Fidan, il capo scelto da Erdogan dei servizi segreti (MIT), la Turchia organizzò campi d’addestramento dello SIIL e altri terroristi in Turchia che inviò e rifornì in Siria. Il finanziamento dell’operazione turca dello SIIL fu organizzato chiaramente da un amico personale di Erdogan, Yasin al-Qadi, banchiere saudita vicino alla casa reale, membro dei Fratelli musulmani, finanziere di Usama bin Ladin e al-Qaida dall’Afghanistan degli anni ’80. I campi di addestramento dei terroristi di Erdogan sostenuti dagli Stati Uniti e finanziati dai sauditi raccolsero 200000 terroristi mercenari da tutto il mondo, transitando dalla Turchia per condurre la “jihad” in Siria. Ma la jihad, ormai è chiaro, non riguarda Allah ma i soldi. La monarchia saudita è decisa a controllare i giacimenti di petrolio dell’Iraq e della Siria tramite lo SIIL. Vuole chiaramente controllare l’intero mercato mondiale del petrolio, prima mandando in bancarotta gli sfidanti produttori di scisto degli Stati Uniti, poi controllando attraverso la Turchia i flussi di petrolio di Iraq e Siria.
Missili TOW sauditi allo SIIL
Nel maggio 2014, il MIT trasferì ai terroristi dello SIIL in Siria, con convogli speciali, quantità di armi pesanti e nuovi pickup Toyota offerti dall’Arabia Saudita. Un esame approfondito dei video dell’agguato turco all’aviogetto Su-24 russo rivela che il caccia F-16 turco che l’aveva abbattuto fu supportato da due aerei AWACS consentendogli di colpirlo con un’esattezza molto difficile, impresa altrimenti impossibile contro un aereo agile come il Su-24. Uno degli aerei AWACS era un Boeing E-3A AWACS della Saudi Arabian Air Force decollato dalla base aerea di Riyadh, in Arabia Saudita. Poi, mentre un elicottero di soccorso russo accorse sul luogo dello schianto del Su-24, missili TOW sauditi lo distrussero. I sauditi avevano inviato 500 missili TOW, altamente efficaci, ai gruppi terroristici anti-Assad in Siria, il 9 ottobre. Ciò che abbiamo, dunque, non è una guerra dei russi contro il solo SIIL in Siria. Chi si nasconde dietro lo SIIL non è solo il regime criminale di Erdogan, ma ancor di più il regno dell’Arabia Saudita e i suoi alleati wahabiti di Quwayt, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Nel vero senso, lo SIIL è semplicemente un'”esercito saudita sotto mentite spoglie“. Se eliminiamo la falsa copertura religiosa, ciò che emerge è la mossa saudita per afferrare alcune delle più grandi riserve di petrolio del mondo, nelle regioni sunnite dell’Iraq e della Siria, con il criminale regime turco nel ruolo di delinquente che svolge il lavoro sporco, da buttafuori di un bordello. Se Mosca non è consapevole di tale aspetto, corre il rischio di finire in una mortale “trappola per orsi”, che sempre più ricorda l’Afghanistan degli anni ’80. Ciò che puzza in Arabia Saudita non è lo sterco di cammello, è la monarchia delle teste calde re Salman e del principe Salman. Per decenni hanno finanziato il terrorismo sotto copertura religiosa, promuovendo la loro agenda privata plutocratica. Non hanno nulla a che fare con la religione ma solo con denaro e petrolio. Uno sguardo alla mappa dello SIIL dall’Iraq alla Siria dimostra che appunto mirano alle ricchezze petrolifere di questi due Stati sovrani. Il controllo saudita di questa ricchezza petrolifera attraverso i loro agenti dello SIIL, insieme al chiaro piano di eliminare la concorrenza statunitense degli scisti bituminosi, secondo Riyadh, renderebbe la monarchia saudita uno Stato molto più ricco, con i cui soldi sarà finalmente rispettata dai bianchi ricchi occidentali e dalla loro società.