martedì 28 ottobre 2014

Il modello occidentale ha fallito

La bugia del falso umanesimo che non alcuna giustificazione morale"
Alla luce dei recenti eventi internazionali, il mito dell’infallibilità del modello occidentale sembra essere screditato e anche gli esperti in questa zona del mondo lo riconoscono.
"Fino ad ora, il XXI secolo è stato un secolo fallimentare per il modello occidentale," dicono John Micklethwait e Adrian Wooldridge, autori del nuovo libro intitolato 'The Forth Revolution' ('La quarta rivoluzione'). Una dichiarazione che può sembrare straordinaria considerando il fatto che Micklethwait e Wooldridge sono autori di The Economist, una pubblicazione che ha a lungo insistito sul fatto che il 'non-occidente' potrebbe raggiungere la prosperità e la stabilità solamente attraverso il modello occidentale, evidenzia Pankaj Mishra, autore di un articolo su questo argomento su The Guardian.

Poi Mishra analizza le ragioni per cui il modello occidentale ha fallito in molte parti del mondo, screditando l'idealizzazione del modello occidentale. Con questo termine l’autore si riferisce alla convinzione che "le istituzioni dello stato-nazione e della democrazia liberale si diffonderanno nel mondo poco a poco e la classe media in divenire, creata dal capitalismo industriale, porterà un governo rappresentativo e stabile; che ogni società, insomma, è destinata ad evolversi come l'Occidente".
A parere dell'autore, gli eventi degli ultimi anni, insieme alla storia d'Europa nel secolo scorso, suggeriscono che è giunto il momento di chiedere ciò che Niebuhr chiama i "risultati altamente contingenti d'Occidente" e dedicare più attenzione alle storie del 'non-Occidente'.

La decolonizzazione del XX secolo ha dato luogo a molti stati-nazione in Asia e in Africa. Ma l'autore continua a spiegare che le condizioni che sono state determinanti per il successo dell'Europa nel XIX secolo non esistevano nei paesi dell'Asia e dell'Africa. Di conseguenza, se ora il mondo sta agonizzando, sommerso in insurrezioni, guerre e massacri, è per l'illusione che il modello occidentale avrebbe garantito la crescita e la prosperità dei paesi dell'Asia e dell'Africa.

L'autore richiama l'attenzione sul fatto che, a differenza dell'Europa, che ha avuto gli stati nazione moderni in forma graduale, il 'non-Occidente' affronta contemporaneamente il compito di creare strutture politiche forti ed economie vitali e, allo stesso tempo, soddisfare le esigenze di dignità e uguaglianza. L'autore fa notare che da nessuna parte in Europa esistevano contemporaneamente libertà private, suffragio universale e sistema parlamentare durante gli anni dell'industrializzazione.

Inoltre, Mishra sottolinea che gli autori di 'The Economist' hanno omesso nel loro libro che in Occidente la storia della nascita del moderno stato-nazione passò anche attraverso uccisioni di massa e casi di guerre di religione del XVII secolo, le rivoluzioni francesi, guerre napoleoniche, le guerre di unificazione italiana, etc.
"Secoli di guerre civili, conquiste imperiali, brutale sfruttamento e genocidio vennero annullati dalle storie che mostravano come l'Occidente fece il mondo moderno", dice l'autore, che poi cita James Baldwin, che nel 1963 avvertì che "tutte le nazioni occidentali sono intrappolati in una bugia, la menzogna del suo falso umanesimo, il che significa che la sua storia non ha alcuna giustificazione morale, e l'Occidente non ha alcuna autorità morale"

venerdì 24 ottobre 2014

Renzi, illusionista dei «poteri immobili»

La poli­tica eco­no­mica dell’illusionismo pra­ti­cata dal governo Renzi fin dal suo inse­dia­mento viene con­fer­mata e accen­tuata dalla legge di sta­bi­lità. L’evoluzione della crisi glo­bale — e spe­ci­fi­ca­mente di quella euro­pea — dà conto di un con­te­sto niente affatto favo­re­vole a ten­ta­tivi appros­si­mati come quelli messi in opera dal nostro per curare la grave situa­zione italiana.

L’errore di fondo della mano­vra sta nel rei­te­rare un approc­cio ina­de­guato alla natura della crisi. Che tende a miglio­rare solo alcune con­di­zioni d’offerta del set­tore pro­dut­tivo (ridurre il costo del lavoro e aumen­tarne la flessibilità).

Senza curarsi della decre­scente capa­cità inno­va­tiva alla base del nostro declino; ma non affronta in modo effi­cace il pro­blema più urgente, le carenze della domanda.

Renzi ha detto agli indu­striali «vi tolgo l’art. 18 e i con­tri­buti, vi abbasso l’Irap, ora assu­mete»; ma la mano­vra riduce i costi (e aumenta i pro­fitti) per le imprese che già dispon­gono di una domanda che, tut­ta­via, è insuf­fi­ciente a impe­gnare le risorse pro­dut­tive esi­stenti e non aumen­terà signi­fi­ca­ti­va­mente con la ridu­zione di impo­ste e con­tri­buti. Anzi, i dati con­fer­mano che, pur ridu­cendo il cuneo fiscale e aggiun­gendo 80 euro in busta paga — ma aumen­tando la pre­ca­rietà dei posti di lavoro — i con­sumi e gli inve­sti­menti non crescono.

Dal punto di vista dello sti­molo alla cre­scita, tagliare (spen­ding review) di 15 miliardi la spesa pub­blica e pen­sare di com­pen­sarne gli effetti ridu­cendo di 9,5 miliardi i con­tri­buti a carico dei lavo­ra­tori (per tra­mu­tarli negli 80 euro in busta paga), di 5 miliardi l’Irap e di 1,9 miliardi i con­tri­buti a carico delle imprese per incen­ti­vare i con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato, è un’operazione con effetto com­ples­sivo nega­tivo per­ché riduce la domanda effet­tiva. I tagli di spesa si tra­du­cono in calo della domanda, che è accre­sciuta solo in pic­cola parte dalla ridu­zione dei con­tri­buti. In più con i tagli ai beni e ser­vizi pri­mari, una loro con­ser­va­zione almeno par­ziale richie­derà un aumento della tas­sa­zione locale.

Dal punto di vista distri­bu­tivo, la mano­vra bene­fi­cia le imprese, soprat­tutto dei set­tori meno dina­mici (su 36 miliardi, solo 300 milioni a ricerca e svi­luppo); in via diretta (ridu­cendo impo­ste e con­tri­buti e con­ce­dendo nuovi incen­tivi) e indi­retta per gli effetti di tra­sla­zione sia degli sgravi con­tri­bu­tivi sia dell’eventuale tra­sfe­ri­mento in busta paga del Tfr. L’aspetto deter­mi­nante è la debo­lezza con­trat­tuale dei lavo­ra­tori. Que­ste «riforme» hanno accor­ciato i tempi di rin­novo dei con­tratti a tempo deter­mi­nato; ora eli­mi­nano l’art. 18 nei con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato; que­sti ultimi para­dos­sal­mente garan­ti­ranno minori cer­tezze tem­po­rali dei primi. In que­sto con­te­sto tutti gli inter­venti di ridu­zione del cuneo fiscale, anche quelli imma­gi­nati per aumen­tare la busta paga (80 euro e Tfr), saranno rias­sor­biti a van­tag­gio delle aziende. Suc­cede sem­pre di più che i lavo­ra­tori siano costretti a fir­mare buste paga supe­riori a quelle effet­tive. E que­sto fa capire quanto le imprese, spe­cie quelle pic­cole, pos­sano uti­liz­zare la nor­male con­trat­ta­zione per dirot­tare a loro van­tag­gio le misure che dovreb­bero aumen­tare le buste paga. E tutto ciò è accom­pa­gnato dalla truffa ideo­lo­gica secondo cui il «nuovo verso» ren­ziano aumen­te­rebbe la libertà di scelta dei lavo­ra­tori, ad esem­pio sul Tfr; tra­la­sciando che certi biso­gni, come quelli di tipo pre­vi­den­ziale, sono meglio per­ce­piti e cor­ri­spo­sti se orga­niz­zati in modo col­let­tivo e con obbligo assicurativo.

Pre­sto la «moder­nità» libe­ri­sta (e ren­ziana) vorrà con­vin­cerci ad eli­mi­nare il sistema pen­sio­ni­stico pub­blico, quello sani­ta­rio, le norme per la sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro e tutte le norme che hanno segnato l’avanzamento civile.

La legge di sta­bi­lità, nono­stante i suoi scarsi effetti espan­sivi e le nega­tive con­se­guenze distri­bu­tive (ini­que e ulte­rior­mente depres­sive sulla cre­scita), crea anche motivi di con­tra­sto con Bru­xel­les che potreb­bero risol­versi in misure penalizzanti.

Quando, nel luglio 2012, Mario Dra­ghi, disse in un famoso inter­vento rivolto ai mer­cati finan­ziari, che la Bce avrebbe difeso l’Euro con tutte le sue forze, la spe­cu­la­zione inter­na­zio­nale si fermò, com­pren­dendo che era troppo rischioso andare oltre se la Bce si com­por­tava come una banca cen­trale nor­mal­mente deve fare, cioè difen­dere l’intera eco­no­mia di cui è uno stru­mento di poli­tica eco­no­mica. I tede­schi e i loro soli­dali del rigore «stu­pido» non ne furono lieti, ma dovet­tero con­sta­tare che que­sto ridava fiato all’intera Ue. Per oltre due anni l’avvertimento di Dra­ghi ha retto.

Nel frat­tempo è aumen­tata l’offerta di moneta sia della Fed sta­tu­ni­tense sia della Bce; l‘economia reale non ne ha bene­fi­ciato (in assenza di muta­menti strut­tu­rali della poli­tica eco­no­mica), ma sono aumen­tate le muni­zioni della spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Se que­sta si con­vin­cerà che l’opposizione tede­sca alla linea della Bce arri­verà a bloc­carne l’attuazione, l’attacco alle eco­no­mie più deboli ripar­ti­rebbe alla grande. Quella ita­liana sarebbe tra le prime a farne le spese. Dun­que, anche per que­sta eve­nienza, l‘Italia dovrebbe mas­si­miz­zare l’effetto espan­sivo delle poli­ti­che: solo una mag­giore cre­scita del Pil può miglio­rare i nostri indi­ca­tori finan­ziari. Ma Renzi fa scelte eco­no­mi­ca­mente e social­mente omo­ge­nee agli inte­ressi dei set­tori del Paese meno dina­mici (le imprese non inno­va­tive), poli­ti­ca­mente fun­zio­nali ai suoi obiet­tivi di sfon­da­mento nel cen­tro­de­stra e di emar­gi­na­zione dei suoi oppo­si­tori di sini­stra. I quali, peral­tro, anche cri­ti­cando que­ste poli­ti­che, non hanno la capa­cità di unire le loro forze per difen­dere gli inte­ressi e le pro­spet­tive che pure riguar­dano l’intero Paese.

La distra­zione di massa dai pro­blemi effet­tivi pra­ti­cata dalle poli­ti­che di Renzi, il suo illu­sio­ni­smo, si acco­moda alla poli­tica tede­sca che frena l’economia e il pro­cesso uni­ta­rio dell’Ue. È indi­spen­sa­bile un’inversione di rotta; que­sto è l’appuntamento sto­rico che la sini­stra sta mancando

lunedì 20 ottobre 2014

La cura che ammazza il malato

Il governo a guida Renzi-Padoan, etero diretto da Angela Merkel e Mario Draghi, che una volta tanto si sono mostrati concordi nello spiegare e ad imporre agli italiani le cose da fare, continua a manifestare tutto il proprio ottimismo. Molti ci criticano, hanno ammesso l'ex scout e l'ex direttore economico dell'Ocse, ma fanno male perché i provvedimenti che abbiamo adottato sono giusti e perfetti, come si dice in Loggia, ambiente piuttosto frequentato dalle parti di Firenze. Non è colpa nostra se i loro effetti si vedranno soltanto tra qualche anno. Bisogna avere pazienza e fiducia. Il presente è cupo, in realtà è tragico, ma l'avvenire è roseo. Sarà. Nel frattempo, a smentire l'ottimismo dell'ex sindaco, e del suo capo economista, ci sono i dati dell'economia, i cosiddetti “fondamentali”, che, presi nel loro complesso, non fanno presagire nulla di buono. Il primo dato da considerare è ovviamente quello del debito pubblico che si è attestato sul 135% rispetto al Prodotto interno lordo. Cifra più, cifra meno, ma tendenzialmente siamo sopra tale percentuale. Il disavanzo va un po' meglio. Siamo, sembra, sotto il 3%, che rappresenta il tetto stabilito dalla Commissione europea per ottenere la patente di Paese “virtuoso”, quello cioè che riesce a tenere sotto controllo la dinamica della spesa pubblica. Tramite la spending review, detto in italiano la revisione della spesa, Renzi e Padoan ci sono in parte riusciti. Diciamo in parte, perché chiudere i cordoni della borsa è una misura buona e giusta se i tagli conseguenti vanno a colpire la spesa facile, improduttiva e clientelare delle burocrazie ministeriali e di quelle degli enti locali. Un po' meno se si finisce inevitabilmente per toccare anche i servizi sociali, la spesa sanitaria e i trasporti. I bei tempi (per voi) sono finiti. Non potrete più spendere e spandere, ha detto rivolto alle Regioni, l'ex concorrente della Ruota della Fortuna. Un riferimento che è andato dritto al cuore di molti pensionati che hanno saputo dai giornali che alcuni (gli attuali e gli ex) deputati, dirigenti ed amministratori di talune Regioni, vedi la Sicilia e la Sardegna, tanto per dirne una, grazie a leggi fatte apposta per loro, hanno acquisito il diritto a ricevere una pensione di importo regale. E addirittura alcuni di loro ad una età nella quale il comune mortale sta ancora lavorando duramente. Lo stesso si potrebbe dire per i magistrati delle alte Corti (Consulta, Cassazione, Corte dei Conti e Consiglio di Stato) e per taluni parlamentari che, grazie ad una sola legislatura, potranno vantare il diritto ad una sostanziosa pensione che l'uomo della strada non vedrà nemmeno con il cannocchiale. Ma, nonostante tutte le resistenze che incontra sulla sua strada, Renzi, unitamente al fido Padoan, continua nella sua strada. Il governo sta in effetti scontentando tutti. Parlamentari e politici locali. I primi, in mezzo a mugugni sempre più palpabili, continuano però ad assicurargli il loro voto. Forse intuendo che sono obbligati a tagliare la fetta di torta a loro disposizione per non correre il rischio di ritrovarsi senza niente a breve termine. Staremo a vedere. Chi continua a strillare sono ovviamente i sindacati. Se la Cisl e la Uil non dovrebbero avere titoli per farlo, visto le cessioni fatte alla Confindustria sul nuovo modello contrattuale e alla Fiat sul nuovo contratto aziendale, nemmeno la Cgil ha ormai molti titoli per presentarsi come garante dei diritti dei lavoratori. L'atteggiamento della Camusso è stato fin troppo accomodante, anche considerato che il sindacato di Corso d'Italia ha dovuto scontare la realtà di essere legata a filo doppio al PD che, a differenza del PCI-PDS-DS, non può presentarsi come partito di lotta e di governo. Resta la Fiom-Cgil di Landini, l'unica sigla, unitamente ai Cobas, che ha alzato la voce contro la trasformazione del lavoro in merce. Senza molto successo in verità. La realtà resta però quella di un sindacato che non è più rappresentativo di chi lavora. Soltanto un 38% dei dipendenti è infatti iscritto ad un sindacato e nelle sigle tradizionali il 55% circa, se non di più, è formato da pensionati. Lo scenario attuale è così quello di un Paese in profonda crisi, con migliaia di imprese costrette alla chiusura perché non sono più in grado di affrontare la concorrenza internazionale. E questo sia a causa di una guerra dei prezzi che favorisce Paesi come la Cina, avvantaggiata da un costo del lavoro che è otto volte minore del nostro. Sia dalla impossibilità di ottenere prestiti dalle banche per investire ed innovare. Le banche, pur esplodendo di liquidità, preferiscono infatti comprare titoli di Stato, che gli garantiscono entrate sicure e costanti (come interessi) e la restituzione del capitale. Non volendo e non potendo andare contro le banche, che sono le vere padrone del Paese, e che dovrebbero fare credito, il governo e la politica puntano sulla riduzione del costo del lavoro attraverso la riduzione dei diritti. Ma in tal modo si aumenta la povertà, si causa la proletarizzazione del ceto medio e si crea una enorme massa di scontenti, di disperati e, diciamolo pure, di incazzati che si stuferanno presto di sentire le solite esaltazioni del Libero Mercato e scenderanno in piazza, finalmente, per fare sentire la propria voce.

venerdì 17 ottobre 2014

Regioni in rivolta contro Renzi

L'impennata dello spread rischia di cancellare i "sogni" di palazzo Chigi e di Confindustria sulla manovra. Il balzo di cinquanta punti degli ultimi due giorni si è mangiato 2-3 miliardi del deficit. Intanto, tutte le Regioni sono in rivolta contro i tagli di 4 miliardi previsti dalla Legge di stabilità.
Dopo le prime critiche del presidente Sergio Chiamparino, ieri sono intervenuti anche altri presidenti. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti ha detto che “è facile abbassare le tasse con i soldi degli altri” e che le amministrazioni locali hanno avviato da tempo l’eliminazione degli sprechi, mentre cresce ovunque l’allarme sugli effetti devastanti sulla sanità dalla cancellazione dell’Irap. Tagli "insostenibili" e che si riverseranno inevitabilmente sulla sanità, avvertono i governatori, o che comporteranno nuove tasse per non far saltare i bilanci locali. Il premier Renzi risponde indispettito: incontreremo le Regioni, ma intanto facciano la loro parte cominciando a tagliare, visto che le famiglie italiane fanno i sacrifici da anni. Parole rispedite al mittente come "offensive" dal presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino che punta invece il dito contro gli sperperi dei ministeri. Alle Regioni si lascia la “libertà” di scegliere come perseguire i 4 miliardi di risparmi (che si aggiungono però ai 750 milioni già chiesti con il dl Irpef, dovuti fino al 2018). Se i governatori non si dovessero decidere, il governo è pronto a intervenire, a quel punto anche sulla spesa sanitaria. Di fatto, insomma, la responsabilità è sulle spalle delle Regioni, ma, "due miliardi sono sostenibili se lavoriamo bene", getta beffardamente acqua sul fuoco il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, che in queste settimane ha tenuto le fila dei rapporti con i governatori, mentre il ministro dell'Economia La manovra in realtà chiede uno sforzo corposo anche all'amministrazione centrale, da circa 6 miliardi. Sforbiciata equivalente a quella inferta agli enti locali (da Province e città metropolitane dovrà arrivare 1 miliardo e 1,2 dai Comuni).
Pier Carlo Padoan, ha ribadito che il pressing è perché‚ si aumenti "l'efficienza" non le tasse. Ma in realtà sanno tutti che non sarà così. Per il titolare di via XX Settembre la manovra va nella direzione giusta per agganciare la ripresa. "Punta a voltare pagina" dice, assicurando che le coperture ci sono e che anche per questo non ci sono timori sul giudizio di Bruxelles, con cui c'è "un dialogo assolutamente cordiale e costruttivo". Intanto sono tutte confermate le misure di sostegno al Jobs Act (che diventa un collegato alla legge di stabilità, come il ddl di riforma della P.a.), dalle risorse per gli ammortizzatori a quelle per azzerare i contributi per le nuove assunzioni. Che insieme al nuovo taglio dell'Irap dovrà spingere le imprese ad assumere. Confermato anche il Tfr in busta paga, che però, a sorpresa, avrà tassazione ordinaria e non separata, come avviene ora per la liquidazione a fine rapporto.
I più soddisfatti delle scelte del governo restano comunque gli industriali, con Giorgio Squinzi che parla di manovra "molto positiva" con dentro "una serie di provvedimenti che aspettavano da anni". Di segno totalmente opposto il giudizio dei sindacati: "Non risponde alla vera emergenza del Paese che è quella di creare lavoro" dice il segretario della Cgil Susanna Camusso, mentre il leader della Fiom Maurizio Landini, assicura che così si andrà "allo sciopero generale". E il muro dei sindacati si alza soprattutto contro l'ennesima proroga del blocco dei contratti degli statali, fermi ancora per tutto il 2015 ("inaccettabile" per il nuovo segretario della Cisl Annamaria Furlan) e contro i tagli "scellerati" che metteranno in ginocchio i servizi pubblici.

mercoledì 15 ottobre 2014

La parte segreta dell'accordo tra Usa e Arabia Saudita che ha portato ai raid in Siria

Una diminuzione dei prezzi del petrolio per danneggiare Iran e Russia
Qualche settimane fa, prendendo a riferimento un articolo del Wall Street Journal e alcuni spunti del blog americano ZeroHedge, abbiamo ricostruito una parte dell’ “Accordo segreto” tra gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita: vale a dire ciò che gli Stati Uniti avevano offerto all'Arabia per convincerla ad "allinearsi" nella lotta contro lo Stato Islamico.

In realtà, ci tiene a precisare ZH, John Kerry stava semplicemente facendo la volontà dei sauditi quando il WSJ scrive che "Il processo ha dato ai sauditi la leva per ottenere un rinnovato impegno degli Stati Uniti nella formazione dei ribelli che combattono Assad, la cui scomparsa resta per i sauditi una priorità assoluta.” Detto in altri termini, la libbra di carne richiesta dall’ Arabia Saudita per "benedire" gli attacchi aerei americani e farli apparire come un atto di qualche coalizione era la rimozione di Assad.



Non era chiaro quale fosse l'altra parte: ossia in che modo l'Arabia Saudita avrebbe risarcito gli USA per il (futuro?) bombardamento delle infrastrutture di Assad fino alla sua caduta e alla conseguente creazione di un vuoto di potere che permetterà a Qatar, Giordania e / o Turchia di dividersi il bottino di guerra come meglio credono.

La risposta è il petrolio.

Un quadro esaustivo è offerto da Anadolu Agency, che spiega non solo il quadro generale che coinvolge l'Arabia Saudita e la sua più grande risorsa, il petrolio, ma anche l'ultima frattura dell'OPEC per volere di Arabia Saudita .


.. Che però si limita a utilizzare "l'arma del petrolio" verso il nemico n°1 nella nuova Guerra Fredda: Vladimir Putin.

“L’Arabia Saudita spingerà al ribasso il prezzo del petrolio nel tentativo di mettere pressione politica sull'Iran e la Russia”, spiega Rashid Abanmy, presidente del Saudi Arabia Oil Policies and Strategic Expectations Center.

”La marcata diminuzione del prezzo del petrolio negli ultimi tre mesi, a $ 92 da $ 115 per barile, è stata causato dall’Arabia Saudita per costringere l’Iran a limitare il suo programma nucleare e Mosca a cambiare posizione sulla Siria.

Con la domanda di petrolio in calo, la ragione apparente per il calo dei prezzi è quello di attrarre nuovi clienti, spiega Abanmy ma la vera ragione è politica. Iran e Russia dipendono fortemente dalle esportazioni di petrolio e un prezzo del petrolio più basso significa meno soldi che entrano. Gli Stati del Golfo saranno meno influenzati dal calo dei prezzi.

L'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che è l'arbitro tecnico del prezzo del petrolio per l'Arabia Saudita e gli altri 11 paesi che compongono il gruppo, non sarà in grado di influenzare la decisione dell'Arabia Saudita.

Le decisioni dell'organizzazione sono solo raccomandazioni e non sono vincolanti per i paesi produttori di petrolio, ha spiegato Abanmy."

Brent: 90 dollari. Prezzo del petrolio deciso dalla Russia per il periodo 2015-2017? 100 dollari. Da buon alleato strategico degli Stati Uniti, ancora una volta, l'Arabia Saudita, fa tutto ciò che è in suo potere per danneggiare Putin.

giovedì 9 ottobre 2014

USA: UE obbligata a sanzionare la Russia, nonostante i costi

A Bruxelles non si difendono gli interessi degli europei
Il vicepresidente degli USA Biden, in un discorso tenuto all'Università di Harvard, in voce alta ha detto che in sostanza hanno obbligato il "gruppo dirigente" dell'Unione Europea (UE) ad applicare sanzioni contro la Russia. Come corollario dello sconquasso dell'Ucraina, hanno pure affondato il coltello nella ferita aperta nel corpo anemico dell'UE, ormai allo sfascio. “E' vero che non volevano farlo. E' stata la leadership americana e il presidente Obama ad insistere, tante di quelle volte da dover mettere in imbarazzo l'Europa per reagire e decidere per le sanzioni economiche, nonostante i costi”.
I costi sono salati. Il castigo per l'ultra-atlantismo valvassino della Polonia è severo, dovendo trovare altri mercati alle mancate esportazioni in Russia per un miliardo e 500 milioni di euro complessivi. L'Olanda, per esempio, perderà 300 milioni di euro annuali, vale a dire rappre il 10% delle esportazioni dei suoi prodotti agricoli, La Spagna avrà perdite di 337 milioni di euro e l'Italia addirittura di un miliardo di euro.
Tutto questo, però, alla Casa Bianca non importa. Victoria Nuland, neocon sfegatata, regista non tanto occulta del golpe nazi in Ucraina, è ora addetta alle relazioni con l'UE. E' la tipa che diceva "Fuck UE!" in una conversazione telefonica intercettata nel gennaio 2014 con l'ambasciatore a Kiev Geoffrey Pyatt.
Nuland ha riconosciuto che per gli "alleati" occidentali c'è ira un effetto boomerang. Lo ammette pubblicamente, ma trova normale il sacrificio degli europei se giova agli interessi geopolitici degli Stati Uniti d'America. Sacrifici a sostegno di una sua classe dirigente suicida, che ha ridotto l'Ucraina ad esistere solo sulla carta geografica e allo stato reale di una bancarotta e della guerra civile.
A Bruxelles non si difendono gli interessi degli europei nè si costruisce l'integrazione di un blocco autonomo. Non lo dicono i soliti populisti o anti-americanisti generici, ormai lo confessano incautamente alcuni alti dirigenti governativi degli USA.

lunedì 6 ottobre 2014

Crisi, debito famiglie sfiora i 50 miliardi, +16% in 2 anni

Peggiora in Italia la situazione economica delle famiglie, al punto che i mancati pagamenti accumulati dai cittadini hanno raggiunto livelli record. Lo denuncia oggi il Codacons, che fornisce le stime del fenomeno.
In base alle elaborazioni dell’associazione, le famiglie italiane hanno accumulato ad oggi debiti che complessivamente sfiorano i 50 miliardi di euro. Si tratta di mancati pagamenti relativi a rate di prestiti, di mutui, di acquisto di beni di largo consumo, leasing, scoperti di conti bancari, carte di credito revolving, ma anche di bollette per le utenze domestiche non saldate, cui si aggiungono debiti commerciali di vario tipo, per i quali sono state avviate le procedure di recupero. Nel 2012 il debito dei cittadini per le medesime voci ammontava a circa 43 miliardi di euro; ciò significa che i mancati pagamenti da parte degli italiani sono cresciuti del 16% in due anni.
Praticamente – spiega il Codacons - ogni singolo italiano, neonati compresi, appare debitore nel 2014 per un importo medio di 833 euro.
Solo per le bollette, 19,1 milioni di italiani risultano oggi morosi almeno su una utenza relativa alla fornitura di elettricità, gas, acqua o telefonia.
Tra le regioni che registrano i più alti livelli di insolvenza troviamo:
SICILIA: 7,4 miliardi di euro
LOMBARDIA: 6,7 miliardi di euro
CAMPANIA: 5,7 miliardi di euro
LAZIO: 4,5 miliardi di euro
“La causa di tale drammatica situazione è da ricercarsi nel progressivo impoverimento delle famiglie, colpite da una drastica riduzione del potere d’acquisto, dalla crescita della disoccupazione e da una pressione fiscale insostenibile – afferma il Presidente Carlo Rienzi - Di conseguenza, chi ha contratto debiti negli anni passati non riesce oggi a far fronte ai propri obblighi, nonostante si sia progressivamente ridotto il ricorso al credito al consumo, sceso del -6,4% nel periodo gennaio-agosto 2014”

giovedì 2 ottobre 2014

Ottobre 1984: lo sciopero dei minatori britannici

Dopo l'elezione di Margaret Thatcher nel 1979 in tutto il Regno Unito si andò accentuando la politica liberista volta alla distruzione 1 ottobredello stato sociale e alla liberalizzazione delle aziende di propietà dello stato.
La strategia delineata fu quella di intraprendere un vasto programma di chiusura di unità produttive in taluni settori, come la siderurgia, le ferrovie e il carbone, di privatizzare e intaccare il monopolio statale nei settori in espansione come le telecomunicazioni, e di stabilire un sistema misto pubblico-privato nella sanità, tra ospedali, municipalità e ditte private.
Uno dei primi obbiettivi del governo, dopo i lavoratori pubblici e i ferrovieri, fu l'industria del carbone, una delle più grosse d'Europa, e nel quale esisteva probabilmente il più combattivo e compatto sindacato inglese il National Union of Mineworkers.
A seguito della decisione dell'Ufficio Nazionale del Carbone di avviare un piano di ristrutturazione del settore che avrebbe portato alla chiusura di venti pozzi e al conseguente licenziamento di decine di migliaia di lavoratori,il 12 marzo 1984, iniziò lo sciopero.
Entro la fine di marzo la produzione di carbone nel Regno Rnito fu quasi totalmente ferma.
Un ruolo determinante in questa lotta lo giocarono i picchetti volanti, ai quali parteciparono molti giovani lavoratori che per la prima volta si trovano coinvolti in un conflitto sociale su scala nazionale.
Protagoniste durante tutta la durata dello sciopero furono le donne che non accettarono più il loro ruolo di subordinazione che le vedeva ad organizzare le attività di sostegno agli scioperanti ma anzi furono sempre in prima linea nelle assemblee, nei picchetti, nei cortei e negli scontri con la polizia.
Per fermare i picchetti il governo inviò circa diecimila polizzioti nei bacini carboniferi che si scatenarono in cariche feroci sui lavoratori. Una delle principali operazioni della polizia fu quella di intercettare i picchettatori per impedire che arrivino alle miniere.
L'azione dello stato non si limitò alla repressione poliziesca: multe e confische di beni colpirono le organizzazioni sindacali che organizzarono o appoggiarono i picchetti in altre regioni, addirittura il NUM ricevette una multa di 200 mila sterline per aver organizzato i picchetti e quando il sindacato si rifiutò di pagarla tutti i suoi fondi vennero sequestrati dal tribunale di Londra.
Contemporaneamente ai minatori sciesero in sciopero i ferrovieri e i portuali per evitare che il carbone venisse importato dall'estero e per dimostrare il loro sostegno ai minatori. Così facendo riuscirono a portare all'esaurimento la maggior parte delle scorte di carbone e a costringere allo stop la produzione in altri settori chiave dell'economia britannica, come le acciaierie.
La reazione del Governo fu durissima: vennero intensificati i processi, le cariche ai cortei dei lavoratori e per disperdere i picchetti, si iniziò ad intaccare gli stessi diritti sindacali con alcuni tribunali che dichiaravano illegali gli scioperi.
Il 1 ottobre 1984 il segretario del NUM viene citato in giudizio per aver difeso la pratica dei picchetti e aver contraddetto pubblicamente un tribunale che aveva dichiarato illegale lo sciopero nello Yorkshire.
I parlamentari laburisti si dissociarono dalle pratiche messe in campo dai lavoratori in lotta arrivando fino a condannare lo sciopero che stava proseguendo da mesi; di fatto associandosi alla campagna diffamatoria messa in campo dal governo e dai giornali borghesi contro l'intera categoria.
Questa campagna unita alla dura repressione (due lavoratori uccisi dalla polizia; 710 licenziati, circa 10.000 delegati e militanti di base arrestati e in attesa di processo) e all'azione legale da parte del governo contro il NUM portò una strettissima maggioranza del congresso del sindacato a decretare la fine dello sciopero il 3 marzo 1985 che comunque, soprattutto in Scozia e nel Kent, durò ancora diversi giorni.